Civile

La (in)tassabilità dei proventi da cessione di criptovalute e il rimborso dell'imposta sostitutiva

Con l'incremento di valore più o meno continuo da inizio anno della criptovaluta, e segnatamente del bitcoin, in assenza di una disciplina tributaria, si pone vieppiù il tema della rilevanza ai fini Irpef dei guadagni derivanti dalla cessione a titolo oneroso del «contante digitale» conseguiti dalle persone fisiche al di fuori dell'esercizio di impresa commerciale

di Edoardo Belli Contarini *


Con l'incremento di valore più o meno continuo da inizio anno della criptovaluta, e segnatamente del bitcoin, in assenza di una disciplina tributaria, si pone vieppiù il tema della rilevanza ai fini Irpef dei guadagni derivanti dalla cessione a titolo oneroso del «contante digitale» conseguiti dalle persone fisiche al di fuori dell'esercizio di impresa commerciale. Ciò sebbene, come noto, l'Agenzia delle Entrate riconduca detti proventi nell'alveo dei «redditi diversi» ed in particolare tra le plusvalenze imponibili ai sensi dell'art. 67, lett. c-ter del Tuir (cfr. ris. n. 72/E del 2/9/2016 e risposta ad interpello n. 956-39 del 22/1/2018).

Tale assunto si fonda sull'equiparazione delle valute virtuali alle «valute estere», sia pure con l'attenuazione ovvero con il limite quantitativo e temporale contenuto nel successivo comma 1-ter, superato il quale scatta la tassazione in ragione della presunta natura speculativa dell'investimento effettuato nella moneta virtuale.

A prescindere dalla circostanza, altrettanto nota, per cui tale assimilazione non ha fondamento giuridico, anche in virtù della sopravvenuta definizione di «valuta virtuale» intervenuta, sia pure ai fini della normativa antiriciclaggio, ex art. 1, comma 2, lett. qq del d.lgs n. 231/2007, più correttamente, l'imponibilità di tali proventi andrebbe verificata in ragione degli artt. 44, lett. h e 67, lett. c-quinquies del Tuir. Ciò anche al fine di riscontrare, se del caso, un vuoto normativo, del resto del tutto normale al cospetto di un fenomeno così innovativo e rivoluzionario; il problema invece non sembra porsi per le cessioni a termine e per i contratti derivati sulle valute virtuali, in considerazione dell'ampia formulazione della lettera c-quater del medesimo art. 67.

In effetti, le precitate disposizioni del tuir rappresentano delle «norme di chiusura», che, come osservato nella relazione al d.lgs. n. 461/1997 di riforma della tassazione dei redditi finanziari – osservazioni recepite pure nella circolare del Ministero delle Finanze n. 165 del 24 giugno 1998 –hanno una precipua finalità: assoggettare ad imposizione quei proventi realizzati e altrimenti non riconducibili nelle altre ipotesi tipiche e tassative di redditi imponibili e dunque quella di evitare fenomeni elusivi o ipotesi di arbitraggi fiscali.

Tale obiettivo – comune ad entrambe le categorie dei redditi di capitale e diversi – viene perseguito dal legislatore in virtù di un approccio sostanzialistico; infatti, la riconducibilità all'una o all'altra categoria reddituale e il conseguente differente trattamento fiscale dei proventi (tassati al lordo o al netto) scaturiscono dagli effetti giuridici sostanziali dei rapporti finanziari e non già in ragione delle definizioni giuridico-formali utilizzate nel mercato finanziario. Nel dettaglio, si fa esplicito riferimento normativo a quei «rapporti» che hanno l'obiettiva funzione di «impiego di capitali» oppure a quei «rapporti di natura aleatoria», da cui possono derivare «differenziali positivi o negativi» dipendenti da «un evento incerto» (nel primo caso trattasi di redditi di capitale, nel secondo di redditi diversi).
Così impostato l'approccio metodologico per risolvere la problematica in esame, in prima battuta sembra ragionevole che le plusvalenze derivanti dalle cessioni a pronti delle criptovalute possano trovare collocazione nella norma di chiusura di cui al citato art. 67, lett. c-quinquies del Tuir. Tuttavia, va esclusa, anzitutto, la riconducibilità di detti proventi tra quelli derivanti dalla cessione di «strumenti finanziari», considerato che le valute virtuali non sembrano assimilabili né alle valute estere né agli strumenti finanziari come disciplinati, per di più in maniera tassativa, dagli artt. 1, comma 1, lett. u), commi 2 e 2-bis, 18, comma 5 e All. n. 1, sezione C, del TUF n. 58/1998.

Rimane da verificare se le cessioni a titolo oneroso del contante digitale siano assimilabili a quei «rapporti» con «funzione obiettiva aleatoria», da cui scaturiscono differenziali positivi o negativi, in dipendenza di un «evento futuro e incerto», così da scongiurare fenomeni elusivi o arbitraggi fiscali.

Cionondimeno diverse ragioni confortano la conclusione negativa; in primo luogo, come si desume anche dalla definizione legale di «valuta virtuale», recata dalla normativa antiriciclaggio, non vi è dubbio che la criptovaluta ha una natura e un impiego ibrido, polifunzionale, nel senso che essa ha una duplice ed eterogenea funzione, quella di mezzo di scambio, di pagamento convenzionale, di contante digitale, nonché quella di finalità di investimento.

In secondo luogo, l'operazione in esame non sembra assimilabile a quel «rapporto» di natura aleatoria rilevante ai fini Irpef ex art. 67, lett. c-quinquies, ovvero da cui scaturiscono differenziali positivi/negativi dipendenti da un «evento incerto», neppure in considerazione del tasso di cambio, sia pure volatile, tra la valuta virtuale rispetto alle valute aventi corso legale.

Inoltre, il raggio di applicazione di una norma di chiusura dell'Irpef, anche al cospetto del principio di tassatività desumibile dagli artt. 1, 6, 44 e 67 del Tuir, non può espandersi ad libitum, non può risultare eccessivamente indeterminato, fino a tal punto da attrarre a tassazione, alla stregua di «una norma impositiva in bianco», i più recenti e innovativi mezzi di scambio o forme lato sensu di investimento di natura digitale, inclusi quindi bitcoin, ethereum et similia.

Ciò appare vieppiù inaccettabile in materia tributaria, nel cui ambito operano inderogabili principi di rango costituzionale: in primis, quello della riserva di legge ex art. 23 Cost. in tema di «prestazioni patrimoniali imposte», cui andrebbe aggiunto anche quello di tutela e di incentivazione del «risparmio in tutte le sue forme», come previsto dall'art 47 Cost. Sotto quest'ultimo aspetto non andrebbe sottovalutato che la riconducibilità dei guadagni derivanti dalla cessione a titolo oneroso delle criptovalute sub art. 67, lettera c-quinquies comporterebbe, per definizione, l'indeducibilità delle eventuali minusvalenze e la tassazione di tutte le eventuali plusvalenze, comprese quelle poco significative ovvero non speculative.

Infine, anche il recente trend normativo registrato in tema di valute virtuali dimostra come il legislatore sia dovuto intervenire più volte, chirurgicamente, per regolare taluni aspetti più impellenti, come ad esempio in materia di antiriciclaggio e di monitoraggio fiscale (cfr. novellato art. 1 del d.l. n. 167/1990). Dunque, ragionevolmente ad oggi sembra delinearsi un vuoto di disciplina in materia (ubi voluit dixit), riscontrabile, a ben vedere, non solo ai fini Irpef, ma, analogamente, ai fini dell'iva, dell'imposta di successione e donazioni e, da ultimo, anche ai fini dell'imposta «patrimoniale» sui medesimi asset digitali (i.e., imposta di bollo e ivafe).

Se così è, nonostante il contrario, ma forzato orientamento della prassi amministrativa, di certo non vincolante per le commissioni tributarie, il contribuente potrebbe attivarsi per il rimborso dell'imposta sostitutiva del 26 per cento eventualmente assolta sui proventi realizzati con la cessione di criptovalute, a condizione che non siano spirati i termini di decadenza contemplati dall'art. 38 del dpr n. 602/1973.

* di Edoardo Belli Contarini Partner Fantozzi & Associati

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