Il CommentoCivile

La rinuncia non è un valore negoziabile: la spinta culturale della Cassazione rilancia l’appeal dello spirito di liberalità

Riflessioni sulla caratura istituzionalmente insuscettibile di valutazione economica della rinuncia, il negozio abdicativo per eccellenza

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di Osvaldo Passafaro*

Il recente revival delle vicende impositive che soggiacciono alle liberalità informali e alle donazioni cc.dd. “indirette richiama l’attenzione dei principali operatori e fruitori del settore su un dato culturale non trascurabile: la caratura istituzionalmente insuscettibile di valutazione economica della rinuncia, il negozio abdicativo per eccellenza.

Sicché, in questa duplice chiave di lettura, (momentaneamente) tributaria di favore per le prime e nomofilattico/restrittiva per la seconda, un perspicuo inquadramento dello spirito c.d. “ di liberalità ” fa da contraltare al valore marcatamente innegoziabile della rinuncia, atteso che lo slancio culturale sulla scorta del quale si vuol innervare l’appetibilità sociale dell’istituto trova il proprio ancoraggio giurisprudenziale in principi di diritto alternativi e complementari al tempo stesso, nel cui alveo, giustappunto, vanno contestualmente a inscriversi considerazioni prodromiche e di confine come quelle che seguono.

Orbene, una cifra di immediata percezione che dello spirito c.d. “di liberalità non può non cogliersi, in primissima battuta, è pacificamente rinvenibile nei cc.dd. “ indici rivelatori ” che vadano a ricalcare la vicenda negoziale ove esso si inscrive. A chiarimento, con la recentissima ordinanza n.982/2024, il Giudice di Legittimità di ultima istanza ha inteso presumere la sussistenza del prefato requisito soltanto in costanza di una attribuzione di vantaggio patrimoniale che non si abbia verso corrispettivo e che, quand’anche di tipo meramente “naturale”, non integri adempimento di obbligazione. Né, ai fini della qualificazione soggettivamente gratuita dell’elargizione interessata, rileva in senso contrario un corollario esterno di neutra valenza rispetto all’influenza causale che la spontaneità della stessa esercita sul titolo negoziale cui accede, atteso che, per aversi una effettiva ablazione dello spirito c.d. “di liberalità, si dovrebbe versare in una obiettiva fattispecie di cogenza giuridica e/o costrizione morale.

Purtuttavia, come la sussistenza di tale elemento psicologico non può escludersi a ogni piè sospinto, così, non qualunque fattispecie di arricchimento residuale può “gridare” donazione. Difatti, la spinta culturale che vuol rilanciare l’appeal della donazione si colloca nel solco dellarinuncia ex art. 519 c.c., movendo da una pronuncia pregressa (e la mente corre a Cass. Civ., Sez. II, sent. n.23090/2023) in forza della quale gli Ermellini hanno stabilito che: “la rinunzia fatta dal beneficiario di una disposizione lesiva della legittima non integra una liberalità, costituendo spontaneo riconoscimento di quanto il legittimario avrebbe comunque diritto di conseguire, tramite l’azione di riduzione”.

Ecco, allora, che il superiore principio di diritto induce l’interprete a una attenta riflessione in ordine a quello che, forse, rappresenta il tratto disciplinare dirimente del negozio abdicativo per antonomasia e, per l’effetto, sul valore istituzionalmente non negoziabile di un dato diritto, a seguito della dismissione fattane dal rinunciante rispetto al proprio patrimonio.

Nella specie, il riferimento va al carattere c.d. “non recettizio” della rinuncia. Difatti, sebbene l’unilateralità della stessa ne rappresenti la dimensione squisitamente soggettiva (ma, si legga: “ quantitativa ”), l’assenza di destinatari tout court ne costituisce la quintessenza – quindi, il profilo qualitativo –, ove si consideri che l’eventuale vantaggio patrimoniale realizzato dal terzo, pur conseguendo all’acquisto del diritto dismesso, è effetto legale mediato e indiretto che, nonostante partecipi della stessa causa giuridica sottesa all’atto abdicativo, non può ritenersi coessenziale alla finalità empirica perseguita dal rinunciante.

Per simmetria con l’accettazione, in effetti, la dismissione deve risultare scevra da condizioni, termini e/o altri elementi accidentali cogenti, al fine di poter andare esente da declaratorie di nullità. Non a caso, in ossequio al disposto di cui al primo comma dell’art.478 c.c., qualora sia fatta verso corrispettivo o a favore di alcuni soltanto dei chiamati, la rinunzia ai diritti successori importa implicita accettazione.

Innervandosi su una volontà tipicamente ablativa e impeditiva, pertanto, la rinuncia gode di una sua autonomia causale che ne bypassa all’origine la riconducibilità o meno alla ben nota dicotomia tra causa c.d. “onerosa” e/o “gratuita” del negozio giuridico – donde l’esclusione, anche in via residuale, di una sua configurabilità alla stregua di liberalità c.d. “indiretta”.

Sempre a mente della citata sent. n.23090/2023, la S.C. salomonicamente afferma che: “lo spirito di liberalità – indispensabile affinché il negozio abbia natura di donazione – deve ricorrere anche nelle donazioni indirette, nelle quali la liberalità è raggiunta attraverso l’utilizzazione strumentale di negozi diversi”.

Cosa condividono, dunque, la Riserva di nomina del contraente ai sensi dell’art.1401 c.c., la Delegazione di pagamento di cui all’art.1269 c.c., il Contratto a favore di terzo ex art.1411 c.c. e l’accollo disciplinato dall’art.1273 c.c.?

Diconsi tutte pattuizioni che, ancorché potenzialmente convenute a titolo donativo, ben potrebbero sottostare a ragioni e finalità altre da quelle esplicative di una liberalità. Parimenti, che si tratti di estinzione c.d. “non satisfattiva” ovvero di liberalità c.d. “non donativa”, non è precluso, a chi intenda servirsene, beneficiare incidentalmente un terzo, sfruttando lo schema della rinuncia, anche quale atto esterno rispetto al negozio principale e a prescindere dagli indici c.d. “rivelatori”. Ma, non in luogo di donazione.

Se vero è che il diritto non conosce sinonimia di istituti giuridici, infine, è giocoforza che una volontà abdicativa, in quanto immediata e non recettizia, non possa sopravvivere all’effetto privativo gemmante dalla dismissione del diritto inequivocabilmente manifestata dal rinunciante, per poi refluire, “resuscitando”, nel vantaggio patrimoniale mediatamente beneficiato da terzi destinatari non predeterminati.

Ebbene, volendo declinare i suesposti principi alle finalità di cui al presente contributo, si è ragionevolmente portati a concludere che, finché la liberalità indiretta non ne costituirà la ragione più liquida, la rinuncia rimarrà un valore innegoziabile. Così come, la donazione non ha prezzo, laddove la rinuncia non ne rappresenti il paravento, assorbendola.

Da ultimo, per completezza espositiva, non può sottacersi come un recente trend di “voluntary discolsure” abbia interessato la proverbiale nebulosità che ammanta le variabili fiscali relative alle liberalità non formalizzate in espresso rogito.

Accade così che, sulla falsariga del più recente orientamento giurisprudenziale in materia (e la mente corre a Cass. Civ., Sez. V, sent. n.7442/2024), valutazioni di confine circa l’opportunità e la convenienza di cristallizzare lo spirito di liberalità in un atto pubblico si scontrano con l’inevitabile logica mercatista, sottesa a implicazioni fiscali che, seppure lecite e vantaggiose, rimangono volatili, in quanto figlie di manovre, per così dire, “ibride”.

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*A cura dell’Avv. Osvaldo Passafaro, Studio Legale Talarico – Passafaro