Casi pratici

La ripartizione dell'onere probatorio nelle frodi carosello

L'assetto normativo

di Giancarlo Marzo e Annalaura Polverino


la QUESTIONE
Quali sono gli elementi oggettivi che l'amministrazione finanziaria è tenuta a verificare per dimostrare la partecipazione ad una frode carosello? Quale grado di diligenza è richiesta al soggetto passivo al fine di evitare la partecipazione alla frode?


Le problematiche connesse all'oggetto della prova nel giudizio tributario e alla distribuzione del relativo onere tra amministrazione finanziaria e contribuente, sono state più volte sottoposte all'attenzione delle corti interne e comunitarie. Tant'è che il dibattito giurisprudenziale sorto in materia ha costituito terreno fertile per una riforma strutturale della relativa disciplina.
Al riguardo, l'articolo 7, comma 5-bis del D.lgs. n. 546/1992, introdotto dalla legge 31 agosto 2022, n. 130, è intervenuto sui criteri di valutazione delle prove da parte del giudice tributario, da un lato, rendendo maggiormente gravoso l'obbligo amministrativo di fornire in giudizio le prove dei fatti contestati al contribuente e, dall'altro, consentendo a quest'ultimo un alleggerimento della difesa, in linea con i principi statutari, costituzionali e comunitari.
Prima della novella normativa, l'onere probatorio soggiaceva quasi esclusivamente alla regola civilistica di cui all'art. 2697 c.c., in virtù del quale, la parte giudiziale che intende far valere un diritto, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento; di contro, chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti, ovvero, eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui tale eccezione si fonda.
Ebbene, lasciando impregiudicata l'applicazione del disposto civilistico, il nuovo comma 5-bis dell'art. 7 prevede espressamente che l'onere probatorio sulla fondatezza della pretesa erariale sia posto, in prima battuta, in capo all'amministrazione finanziaria. Più nello specifico, la norma richiede che la prova della fondatezza sia fornita in modo circostanziato e puntuale e, comunque, in coerenza con la normativa tributaria sostanziale. Per cui, è rimesso al giudice il potere di annullare l'atto impositivo laddove l'amministrazione adduca elementi contraddittori e non circostanziati, omettendo l'indicazione delle ragioni oggettive su cui la pretesa si fonda.

Onere della prova nelle frodi carosello: la posizione della Corte di Giustizia
Il tema della ripartizione dell'onere della prova nelle frodi carosello e la conseguente indetraibilità dell'IVA per l'operatore, rappresentano oramai questioni di carattere assorbente nell'ambito del contenzioso tributario. Al riguardo, si è detto come gli orientamenti giurisprudenziali in materia abbiano reso necessario riformare la disciplina interna per consentire l'auspicato allineamento del diritto interno con gli insegnamenti promananti dalla giurisprudenza unionale.
In tale contesto, all'indomani della sopracitata novella del 2022, è intervenuta l'ennesima pronuncia della Corte di giustizia che, in linea con quanto già affermato negli ultimi anni dalla giurisprudenza di legittimità, ha affrontato la tematica della detraibilità dell'IVA, nel caso di fatturazione per operazioni iscritte in un meccanismo negoziale fraudolento ("frode carosello"), soffermandosi in particolare sull'ambito oggettivo dell'onere probatorio posto a carico dell'amministrazione e sul livello di diligenza richiesta dal soggetto passivo al fine di dimostrare la sua effettiva partecipazione alla frode.
Con la pronuncia resa lo scorso 1° dicembre 2022 (causa C512/21), in sostanza, il giudice europeo ha dapprima ribadito che grava sull'ente impositore l'onere probatorio circa l'inserimento dell'operazione nell'ambito di un'evasione di imposta, per poi ulteriormente evidenziare che, sebbene valutabili, non tutti gli indizi adoperati dall'amministrazione finanziaria siano sufficienti a dimostrare la partecipazione del soggetto passivo alla frode.
La questione sottoposta alla Corte di giustizia trae il suo antecedente logico fattuale nell'attività di verifica condotta a carico di una società ungherese alla quale è stata contestata la partecipazione ad un meccanismo negoziale attuato allo scopo di frodare il fisco. In particolare, l'autorità fiscale ungherese ha accertato l'indebita detrazione dell'IVA assolta sugli acquisti operati dalla società, sulla base del presunto mancato assolvimento dell'onere probatorio su di essa gravante, in ordine alla diligenza richiesta nell'ambito delle operazioni contestate.
Nella fattispecie, l'interrogativo posto alla Corte riguarda gli articoli 167, 168 e 178 della direttiva 2006/112/CE (direttiva IVA), ossia, se tali disposizioni debbano essere interpretate nel senso che, qualora l'amministrazione accerti l'esistenza di una catena di fatturazione circolare, tale circostanza sia di per sé sufficiente ad assurgere a prova oggettiva della frode fiscale o se, al contrario, incomba sull'amministrazione fiscale un ulteriore onere probatorio.
Nel valutare attentamente la compatibilità tra il diritto unionale e il modus operandi dell'amministrazione finanziaria, la Corte di giustizia ha illustrato nel dettaglio quali debbano essere gli elementi oggettivi necessari a fondare la pretesa erariale di indetraibilità, nonché quale sia l'effettivo grado di diligenza richiesto al soggetto passivo. Per tale via, sono stati enunciati taluni principi utili a tracciare una linea di demarcazione tra elementi sufficienti ed elementi non sufficienti a negare il diritto alla detrazione nell'ambito di frodi carosello.

Quando può essere negata la detrazione Iva?
Nel tracciare tale confine, il giudice europeo ha colto l'occasione per delineare, semel pro semper, le modalità di ripartizione dell'onere probatorio nell'ambito di negozi fraudolenti.
Anzitutto, la Corte ha osservato come il generico riferimento alla fittizietà della società interposta (i.e. cartiera), non sia sufficiente di per sé a contestare il diritto alla detrazione. Detto altrimenti, la mera sussistenza di una catena di fatturazione circolare, benché costituisca elemento rilevante che induca a supporre l'esistenza di un'evasione, appare inadeguata a soddisfare l'onere probatorio posto in capo all'ente impositore. Per cui, l'autorità tributaria che intenda negare il beneficio del diritto alla detrazione, deve dimostrare in modo adeguato, conformemente alle norme in materia di prova previste dal diritto interno e senza pregiudicare l'efficacia del diritto comunitario, sia gli elementi oggettivi che provino l'esistenza dell'evasione stessa dell'IVA, sia quelli che dimostrino che il soggetto passivo ha commesso tale evasione o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in detta evasione. Pertanto, l'onere probatorio, secondo la Corte, censura il richiamo a supposizioni per dare spazio esclusivo a fatti che siano adeguatamente dimostrati.
Stando a quanto espressamente affermato nella pronuncia, quindi, non è consentito "il ricorso a supposizioni o presunzioni che abbiano l'effetto, confutando l'onere della prova, di violare il principio fondamentale del sistema comune dell'Iva costituito dal diritto a detrazione e, pertanto, l'efficacia del diritto dell'Unione".
In sintesi, per poter disconoscere il diritto a detrarre non è sufficiente che l'amministrazione finanziaria adduca l'inidoneità strutturale del fornitore, dovendo essa al contrario fornire elementi precisi relativi all'accordo fraudolento tra i soggetti, ovvero, alla colpevole inconsapevolezza del destinatario circa l'inserimento dell'operazione nell'ambito di un'evasione di imposta. Di contro, è ammessa la contestazione dell'indebita detrazione laddove si dimostri che il soggetto passivo, dando prova di tutta la diligenza richiesta, avrebbe potuto conoscere l'esistenza dell'operazione illecita. Tuttavia, come precisato dalla Corte, il fatto che i membri della catena di cessioni si conoscessero, non costituisce un elemento sufficiente per dimostrare la partecipazione del soggetto passivo alla frode.
In ultima analisi, la detrazione non può essere negata nell'ipotesi di violazioni di norme diverse da quelle rientranti nel diritto tributario; nel caso di specie, la violazione delle norme in materia di sicurezza alimentare non può fondare il diniego della detraibilità dell'imposta, ciononostante, detta noncuranza costituisce un valido elemento di valutazione per accertare l'esistenza della frode, nonché la partecipazione del soggetto passivo alla stessa.

La diligenza dovuta
Quanto al grado di diligenza richiesta al soggetto passivo, il giudice europeo ha precisato come, non possa pretendersi che questi proceda a verifiche complesse e approfondite come quelle che possono essere effettuate dall'amministrazione finanziaria.
Laddove intervengano indizi che conducano a sospettare dell'esistenza di un meccanismo finalizzato all'evasione di imposta, appare giustificata la richiesta di una maggiore diligenza dell'interessato al fine di evitare di partecipare alla frode. Le misure che possono ragionevolmente richiedersi al soggetto interessato, tuttavia, vanno valutate alla luce delle circostanze e del caso concreto.
Dunque, il soggetto passivo, allo scopo di difendersi dalla contestazione sulla detrazione IVA e per tutelare detto diritto, ha l'onere di fornire prova contraria di essersi adoperato, al momento dell'acquisto da lui effettuato, con la dovuta diligenza esigibile, tenendo conto che spetta sempre all'amministrazione dimostrare, in prima battuta, la consapevolezza della frode, non potendo pretendersi dal destinatario controlli complessi e precisi come quelli che la stessa amministrazione può effettuare.

La posizione della Corte di Cassazione
I principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza in commento ripercorrono, in parte, la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità nel corso degli ultimi anni. Nei recenti arresti, infatti, la Cassazione si è più volte pronunciata sull'argomento, giungendo, da ultimo, a precisare che, in tema di riparto dell'onere della prova, nell'ambito di una frode carosello, l'amministrazione ha l'onere di provare la consapevolezza da parte del destinatario delle fatture, di aver preso parte ad un'operazione finalizzata all'evasione dell'imposta, anche in via presuntiva, purché la pretesa sia fondata su elementi oggettivi specifici. Spettando poi al ricorrente dimostrare attraverso la prova contraria, di aver utilizzato la massima diligenza richiesta ad un soggetto accorto, nel porre in essere le operazioni contestate, in base a criteri di proporzionalità e ragionevolezza[1].
In sostanza, secondo la Suprema Corte, l'onere della prova incombente sull'amministrazione finanziaria si incentra su due elementi costitutivi: i) che il soggetto passivo abbia commesso l'evasione; ii) che tale soggetto sapeva o avrebbe dovuto sapere della fraudolenza dell'operazione. Si tratta di due profili che rimangono cumulativamente a carico dell'autorità tributaria tanto che, solo a seguito dell'espletamento di detto onere, spetta la prova contraria al contribuente.

Considerazioni conclusive
Dal quadro giurisprudenziale tracciato, emergono taluni punti di distacco tra giurisprudenza europea e di legittimità. Il discrimen, sostanzialmente, è rinvenibile nel possibile ricorso alle presunzioni quali prove della partecipazione alla frode da patre del contribuente, ammesso dalla Corte di Cassazione ma non avallato dalla Corte di giustizia. Proprio da tale differenziazione discende la portata innovativa della sentenza resa dal giudice europeo lo scorso 1° dicembre. In sintesi, i principi quivi enunciati prestano il fianco ad una lettura del dettato normativo europeo (direttiva IVA) maggiormente favorevole al contribuente, in quanto è previsto un evidente rafforzamento dell'onere probatorio in capo all'amministrazione finanziaria. Tale rafforzamento è ancor più evidente all'indomani della novella legislativa che ha riformulato la disciplina, fornendo una possibile nuova chiave di lettura che potrebbe indurre anche la giurisprudenza interna a correggere il tiro. Fermo restando che l'onere della prova gravi in prima battuta sull'amministrazione, si avverte il bisogno interno di superare l'ambiguità circa l'effettiva natura degli elementi costitutivi e delle ragioni di fatto che l'autorità finanziaria può porre a fondamento della pretesa tributaria.

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