Civile

La trasmissione della cittadinanza italiana iure sanguinis può essere provata con ogni mezzo

L’ordinamento italiano prevede un sistema “multilivello” di prova della filiazione in cui l’atto di nascita rappresenta solo il primo livello probatorio

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di Marco Mellone*

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 14194 del 22 maggio 2024 è intervenuta per chiarire un importante aspetto relativo al riconoscimento della cittadinanza italiana per diritto di sangue. L’intervento della Suprema Corte era particolarmente atteso dato che è destinato ad impattare su un ampio numero di casi di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis , attualmente pendenti innanzi agli organi giudiziaria italiani, nonché innanzi alle Autorità amministrative competenti.

La vicenda all’esame della Suprema Corte

Un cittadino brasiliano, discendente di un cittadino italiano emigrato (come milioni di altri nostri connazionali) alla fine del Diciannovesimo Secolo in Brasile si era rivolto all’Ufficiale di stato civile del Comune di residenza per chiedere il riconoscimento dello status di cittadino italiano per discendenza. La domanda di riconoscimento dello status civitatis era stata tuttavia negata perché, a detta dell’Ufficiale di stato civile, mancava la prova della filiazione tra l’italiano emigrante ed il figlio nato in Brasile nel 1895. Tale prova, infatti, poteva essere vinta solo attraverso la presentazione dell’atto di nascita brasiliano di tale figlio che, tuttavia, all’epoca non fu mai formato, non essendo sufficiente all’uopo né l’atto di battesimo (da cui pure risultava la filiazione), né l’atto del (successivo) matrimonio dei genitori in cui gli stessi avevano dato atto di aver generato tale figlio, né l’atto di matrimonio e di morte del medesimo figlio in cui risultava che il genitore dello stesso era proprio l’emigrante italiano.

Avverso questa decisione, il ricorrente proponeva ricorso dapprima al Tribunale di Venezia e poi alla Corte di Appello di Venezia che, con motivazioni sostanzialmente analoghe, confermavano la bontà della decisione dell’Ufficiale di stato civile (condannando, peraltro, il ricorrente al pagamento delle spese processuali). In entrambi i casi, i Giudici veneti sottolineavano che ai fini della prova della filiazione – e quindi della trasmissione della cittadinanza italiana per diritto di sangue – era imprescindibile presentare l’atto di nascita formato all’estero (essendo che nel 1895 già esistevano i registri di stato civile in Brasile). La fonte di tale convincimento era individuata nella Circolare K 28 del 1991 del Ministero dell’Interno la quale prevede un elenco di documenti necessari per ottenere il riconoscimento dello status civitatis per discendenza, tra cui l’atto di nascita (nonché l’atto di matrimonio) di ogni ascendente italiano dell’interessato.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Suprema Corte ha annullato con rinvio la decisione della Corte di Appello di Venezia che non ha esitato a definire “ oggettivamente apodittica ”, nella parte in cui ritiene sostanzialmente che nell’ordinamento italiano la filiazione (e quindi la trasmissione dello status civitatis per discendenza sanguigna) possa essere provata esclusivamente attraverso l’atto di nascita. A tal riguardo, la Suprema Corte è costretta a ricordare ai giudici di merito che l’ordinamento italiano prevede un sistema “multilivello” di prova della filiazione in cui l’atto di nascita rappresenta solo il primo livello probatorio. Ed invero, la funzione di tale atto di stato civile è documentare il fatto naturale della nascita di un soggetto in un determinato luogo e tempo (tanto è vero che l’atto di nascita è formato anche in relazione a figli di ignoti), nonché, ove possibile, indicare la genitorialità secondo le regole previste dal Codice civile.

Qualora tale atto manchi o sia considerato non conforme alla legge italiana (questa seconda fattispecie rientra, secondo la Corte, nell’alveo delle ipotesi a cui fa riferimento l’inciso dell’articolo 236, secondo comma, del Codice Civile “in mancanza di questo titolo”), soccorre il secondo livello probatorio rappresentato dalla prova del possesso continuo dello stato di figlio, come indicato chiaramente dal secondo comma dell’articolo 236 del Codice civile. Trattasi di un livello probatorio “a forma libera perché il successivo articolo 237 del Codice civile non indica un elenco tassativo di mezzi di prova, ma si limita a stabilire l’obiettivo dell’attività probatoria ovverosia la dimostrazione dell’esistenza di “relazioni di filiazione e parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere, nonché il contenuto minimo di tale prova ovverosia “che il genitore abbia trattato la persona come figlio ed abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all’educazione e al collocamento di essa; che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia ”.

Addirittura, nella logica di questo livello probatorio “ aperto ” e chiaramente ispirato al favor filiationis l’ordinamento non esclude neanche la prova testimoniale o comunque ogni altro mezzo di prova, (articolo 241 del Codice Civile).

Alla luce di tale ricostruzione la Corte Suprema non ha potuto fare altro che cassare la decisione della Corte veneta, tanto più che, nel merito, il ricorrente aveva dato ampia e circostanziata prova che, nonostante la mancanza dell’atto di nascita (straniero), lo status di figlio risultava inequivocabilmente da una moltitudine di altri atti di stato civile del paese in questione (il Brasile) che non erano stati mai contestati dai diretti interessati (lo stesso figlio oltreché i genitori o terzi).

L’impatto della decisione della Suprema Corte

Prima facie, il pronunciamento della Suprema Corte potrebbe apparire di mera ricognizione di un chiaro percorso normativo già presente nel nostro ordinamento (sin dal Codice Civile del 1865) e, peraltro, già applicato nella giurisprudenza di merito in situazioni analoghe (v. sentenze del Tribunale di Roma n. 1309 del 19.10.2017 e n. 6592 del 20.02.2020, entrambe pubblicate in M. MELLONE, L’accertamento giudiziario della cittadinanza italiana iure sanguinis, Torino, 2022, p. 331 e p. 351).

Tuttavia, l’impatto di tale arresto è molto più ampio.

Ed invero, l’Amministrazione statale competente in materia di cittadinanza italiana – il Ministero degli Interni – istruisce gli ufficiali di stato civile a non riconoscere tale status qualora manchi l’atto di nascita. Così almeno prevede la Circolare K 28 del 1991 del Ministero dell’Interno e così si atteggia la prassi e una certa narrativa burocratica che – apoditticamente (per riprendere l’espressione utilizzata dalla Suprema Corte) – ritiene di riscrivere le regole del Codice Civile – ispirate dall’interesse dell’ordinamento ad accertare un fatto tanto centrale quale la filiazione, anche ai fini della trasmissione dello status civitatis per via sanguigna – o comunque di applicarle parzialmente. Tale forma mentis amministrativa ha causato e causa molto spesso il mancato riconoscimento dello status di cittadino per discendenza. Ed invero, non di rado l’interessato non riesce a trovare un atto di nascita di uno dei propri ascendenti, soprattutto quando essi sono nati più di cent’anni fa in alcuni paesi di emigrazione italiana in cui – per varie ragioni storico-sociali – non furono mai formati taluni atti di stato civile.

L’impatto di questa decisione non riguarda, peraltro, solo l’ipotesi della mancanza dell’atto di nascita, ma anche quelle altre ipotesi in cui l’atto di nascita straniero, pur esistente, non è stato formato (apparentemente) secondo le regole dell’ordinamento italiano, con particolare riferimento all’indicazione della genitorialità. Infatti, in diversi paesi di emigrazione italiana (e soprattutto nel passato), i genitori venivano indicati nell’atto di nascita sulla base della dichiarazione resa da uno solo di essi o da terzi. Non mancano casi in cui, addirittura, alcune normative straniere permettevano la formazione dell’atto di nascita (con relativa indicazione della genitorialità) sulla base della stessa auto-dichiarazione del figlio (ovviamente, una volta divenuto maggiorenne) e con il supporto di alcune testimonianze. Le indicazioni della genitorialità in siffatti atti di nascita sono considerate invalide o comunque inefficaci dall’Amministrazione italiana e, quindi, inidonee a provare la trasmissione iure sanguinis dello status civitatis , in quanto non basate sul riconoscimento espresso del genitore italiano che trasmette la cittadinanza italiana. A tal riguardo, premesso che l’ordinamento italiano non esclude la possibilità che, in taluni casi, l’atto di nascita venga formato a partire dalla dichiarazione di un soggetto diverso dai genitori (art. 30 D.p.r. n. 396/2000), la eventuale inutilizzabilità delle indicazioni di genitorialità contenute in tali atti stranieri non determina l’impossibilità di sopperire ad essa mediante la valorizzazione di analoghi elementi contenuti in altri atti di stato civile o comunque mediante la prova del possesso dello stato di figlio. Né l’Ufficiale di stato civile può esimersi da tale approccio, invocando la necessità di seguire le istruzioni del Ministero dell’Interno ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. n. 396/2000 (non avendo le circolari ministeriali alcun effetto normativo erga omnes) o invocando la natura non discrezionale della sua attività (trattandosi di criteri accertativi previsti per legge e di cui l’Ufficiale di stato civile non può non avvalersi).

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*A cura dell’Avv. Marco Mellone , Mellone Law Firm

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