Casi pratici

Limiti al diritto di proprietà del singolo condomino

di Lina Avigliano

la QUESTIONE
Quando l'uso che il singolo condomino fa della propria unità immobiliare è fonte di pregiudizievoli ingerenze a carico di diritti altrui? In quali casi il regolamento condominiale comprime il diritto di proprietà del condomino? Quali sono i rimedi a favore degli altri condomini o del condominio?x

Premessa
Il condominio, quale figura più importante di comunione, rappresenta l'esempio più emblematico di convivenza tra più diritti dominicali distinti. Nel condominio infatti il proprietario dell'immobile è, contemporaneamente, proprietario esclusivo del proprio appartamento e comproprietario, in virtù di comunione forzosa, di alcune parti dell'edificio (tetto, fondamenta, ecc.). La struttura del condominio si riflette sulla facoltà di disposizione del proprietario sul bene: da una parte, è preservata la regola generale per cui le parti esclusive possono essere utilizzate dal condomino nel modo che esso ritiene più utile e conveniente; dall'altra, il Codice appresta una tutela delle parti comuni e delle altre unità immobiliari appartenenti al complesso, avvalendosi di norme vincolistiche.
Nel dettaglio, il condomino potrà destinare la proprietà esclusiva a un uso piuttosto che a un altro, modificare la destinazione del bene e dar luogo a vere e proprie innovazioni in senso tecnico e giuridico. Queste libertà, tuttavia, sottostanno alla duplice condizione che gli interventi non arrechino pregiudizio alle parti comuni (art. 1122 c.c.) e che non esista un regolamento contrattuale che ponga delle limitazioni alla destinazione e all'uso delle proprietà esclusive.

Limitazioni legislative: divieto di opere che cagionino danno alle parti comuni
L'art. 1122 c.c. prevede che ciascun condomino nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, non possa eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio. In ogni caso il condomino deve darne preventiva notizia all'amministratore che ne riferisce in assemblea (l'articolo è stato così sostituito dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220).
A livello esemplificativo, la fattispecie riguarda le alterazioni e destinazioni della cosa comune che impediscano agli altri partecipanti un uso speculare e le opere che rechino pregiudizio alla stabilità e sicurezza del fabbricato o che ne alterino il decoro architettonico o che rendano alcune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. Si è soliti ricondurvi anche l'attività compiuta dal condomino all'interno del proprio appartamento che sia tale da turbare la destinazione economica della cosa comune o il diritto di godimento proprio degli altri condomini.
Il precetto normativo non individua solo i danni strettamente materiali, intesi come modifiche strutturali alla conformazione della cosa, ma comprende ogni ipotesi di modifica, qualora anche esclusivamente funzionale, ovvero l'eliminazione o la riduzione, ottenuta mediante l'influenza dall'esterno, dell'attitudine del bene comune a servire all'uso o agli usi a cui è destinato.
Il pregiudizio che derivi dall'opera del condomino deve essere inoltre apprezzabile e non facilmente eliminabile e può esser anche solo potenziale, se considerato in relazione alle aspettative degli altri condomini. La nozione di opera, così come specificato in dottrina, è invece comprensiva di tutte le attività di uso e di godimento, anche se tecnicamente non rappresentino vere e proprie opere.

La nozione di decoro architettonico (rinvio all'art. 1120 c.c.)
L'elaborazione giurisprudenziale ha fatto da sempre rientrare nel concetto di danno alle parti comuni, quello di alterazione del decoro architettonico dell'edificio, quale «insieme delle linee e dei motivi architettonici e ornamentali che costituiscono le note uniformi e dominanti e imprimono alle varie parti dell'edificio una determinata fisionomia, unitaria e armonica». Il decoro assurge a requisito strutturale dello stabile condominiale, degno di tutela alla stregua della stabilità e suscettibile di comportare, qualora alterato in peius , un pregiudizio al valore dell'immobile. La sua difesa non si configura solo nei casi in cui l'edificio sia opera di tecnici specializzati e pertanto abbia un particolare pregio artistico, ma anche nei casi in cui la costruzione non sia contraddistinta da alcun prestigio architettonico: è sufficiente infatti che nell'edificio sia riconoscibile una "linea" e che essa risponda ad un disegno idoneo a conferirgli una peculiare fisionomia.
Così qualificato, il decoro è un bene che interessa tutti i condomini ed è suscettibile di valutazione economica; ognuno di essi può ottenere, in via di adempimento coattivo, l'obbligo di fare (art. 2933 c.c.) avente a oggetto la demolizione delle opere lesive illegittimamente eseguite.

Mutamento di destinazione d'uso
Altra ipotesi ricondotta dalla giurisprudenza alla fattispecie definita nell'art. 1122 c.c. è stata individuata nel mutamento di destinazione dell'immobile, ovvero quando si adibisce un immobile a uso diverso da quello per cui è stato originariamente destinato e quando tale mutamento si risolva in turbative e comporti l'alterazione del normale svolgimento della vita all'interno dell'edificio.
Nella pratica, per valutare la legittimità del mutamento di destinazione dell'unità, occorrerà preliminarmente verificare se le clausole condominiali lo consentono. Infatti, qualora il regolamento condominiale contenga una clausola di divieto di mutare l'originale destinazione dell'uso dell'immobile di proprietà esclusiva, ogni variazione da parte dal condomino dovrà qualificarsi illegittima e ogni altro condomino avrà legittimazione e interesse a domandare giudizialmente che la violazione sia inibita, ottenendo, ad esempio la chiusura dei locali cui sia stata impressa la nuova destinazione (Cass., Sez. Unite, 19 gennaio 1987, n. 412). Viceversa, in assenza di simili clausole, il condomino potrà mutare la destinazione dell'unità immobiliare, sempre che il nuovo uso non danneggi le parti comuni dell'edificio e gli altri condomini, e impregiudicata la questione della liceità della variazione di destinazione sotto il profilo urbanistico.
Il cambio di destinazione può avere autonoma valenza sotto il profilo del decoro architettonico ed essere pertanto considerato illecito in quanto alteri le linee armoniche dell'edificio (Cass. civ., Sez. II, 17 aprile 2001, n. 5612).

Limitazioni regolamentari
La norma dell'art. 1122 c.c. è dispositiva e derogabile e sono pertanto valide le ulteriori limitazioni eventualmente previste dai regolamenti condominiali e dalle delibere assembleari. È opportuno tracciare le differenze tra regolamento condominiale (approvato a maggioranza) e regolamento contrattuale, in quanto, ad avviso degli studiosi prevalenti, solo quest'ultimo, approvato all'unanimità di tutti i condomini (in genere predisposto dall'unico proprietario e fatto approvare contestualmente all'atto di acquisto dagli acquirenti/futuri condomini con rogito notarile), può contenere disposizioni limitative delle facoltà del proprietario esclusivo di disporre del proprio bene.

Il regolamento condominiale assembleare
Il Codice civile disciplina all'art. 1138 c.c. il contenuto del regolamento di condominio, approvato a maggioranza. La dottrina maggioritaria, invocando il primo comma della disposizione, ove si fa riferimento alla disciplina delle parti comuni dell'edificio, ritiene che questo tipo di regolamento non possa contenere clausole limitanti il godimento delle proprietà esclusive dei condomini. Gli studiosi minoritari, viceversa, obiettano che l'art. 1138 c.c. prescrive ciò che è normalmente il contenuto dei regolamenti, e non preclude la possibilità a essi di allargare la propria sfera di ingerenza su altri rapporti concernenti l'organizzazione condominiale. Tuttavia, anche qualora lo si ammetta, il potere regolamentare della maggioranza può essere esercitato solo entro i margini del perseguimento di un interesse comune e della disciplina dell'uso delle cose e dei servizi. L'art. 1138 c.c., ultimo comma, infatti, è esplicito nel disporre che i regolamenti condominiali non possono in alcun modo menomare i diritti dei condomini.
Al di fuori dell'ipotesi prospettata, l'assemblea condominiale non ha l'autorità, a maggioranza, di deliberare una limitazione dell'uso che il condomino fa della parte d'immobile di sua esclusiva proprietà. Nello stesso senso e per le stesse motivazioni, il regolamento condominiale non può, come l'assemblea, autorizzare opere lesive del decoro dell'edificio condominiale, potendo l'assemblea e il regolamento di condominio solo disciplinare l'esecuzione delle opere che, pur incidendo su parti di proprietà esclusiva, pregiudichino interessi comuni e solo nei limiti di quel pregiudizio.
L'ultimo comma dell'art. 1138 c.c., introdotto dalla legge di riforma del condominio (legge n. 220/2012 in vigore dal 18 giugno 2013) stabilisce che le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici.

Il regolamento contrattuale
Pacificamente, invece, il regolamento contrattuale può apporre vincoli all'uso della proprietà esclusiva attraverso clausole limitative che, traendo validità ed efficacia dal consenso unanime dei condomini, non risentono delle restrizioni imposte dall'art. 1138 c.c. al regolamento condominiale. Si è ritenuto però che, sebbene i vincoli al diritto di proprietà si possano estendere ai diversi aspetti del godimento dell'immobile, essi non possono giungere al punto di vietare al singolo condomino la vendita o l'affitto della propria unità immobiliare. Riguardo alla modalità di previsione delle limitazioni: da una parte si ritiene che esse possano essere formulate nei regolamenti sia mediante elencazione delle attività vietate sia mediante la indicazione dei pregiudizi che si vogliono evitare; dall'altra si sostiene che le limitazioni debbano risultare da una volontà univoca ed espressa e che la semplice indicazione di una determinata opera non potrebbe essere interpretata analogicamente per precluderne di diverse.
L'efficacia delle limitazioni alle proprietà esclusive nei confronti dei terzi aventi causa è garantita dalla trascrizione, necessaria per l'opponibilità delle clausole del regolamento contrattuale statuenti tali vincoli, la cui completezza va assicurata sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo. È opinione diffusa che non sia sufficiente un riferimento generico al regolamento di condominio ma occorra indicare espressamente, nella nota di trascrizione, le clausole limitative dei diritti dei condomini sui beni di proprietà esclusiva.
In presenza di un rapporto di locazione le disposizioni regolamentari si impongono anche sul locatore che, infatti, è legittimato passivo in un eventuale giudizio intrapreso da un condomino.

Facoltà di sopraelevazione e suoi limiti
La ratio dell'art. 1127 c.c., ove la limitazione attenga alla facoltà di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio e del lastrico solare è ispirata alla stessa logica di contemperamento di interessi dell'art. 1122 c.c.
La facoltà di sopraelevazione è un'esplicazione del diritto di proprietà e in quanto tale il proprietario, senza necessità di autorizzazione, ha facoltà di elevare una costruzione sopra l'ultimo piano. I vincoli predisposti dall'ordinamento attengono al titolo, alle condizioni statiche dell'edificio e a una eventuale convenzione limitativa contenuta nel regolamento contrattuale, essendo l'art. 1127 c.c. una disposizione derogabile.
La norma dispone altresì che i condomini che ritengano che l'opera pregiudichi l'aspetto architettonico dell'edificio o diminuisca l'aria o la luce dei piani sottostanti (in proporzioni di una certa entità) possano opporsi a essa.
Il limite afferente alle condizioni statiche dell'edificio si considera assoluto, superabile solo con il consenso degli altri condomini e solo qualora siano possibili interventi di consolidamento; quello del pregiudizio all'aspetto architettonico si ispira invece alla salvaguardia dell'architettura dello stabile nel suo complesso, evitando che vi siano alterazioni strutturali dal punto di vista estetico, rilevanti in quanto immediatamente percepibili dall'esterno ed economicamente apprezzabili.
L'art. 1127 c.c. esemplifica perfettamente il contemperamento di esigenze e di interessi tra il singolo proprietario e la collettività dei condomini anche sotto il profilo della previsione dell'indennità che il proprietario è tenuto a versare ogni volta che sopraelevi. Il fondamento dell'indennità è stato ricondotto ora al maggior aggravio che deriva dalla sopraelevazione a tutte le parti dell'edificio, ora alla diminuzione delle quote di proprietà del suolo per i proprietari dei piani sottostanti, ora alla privazione per essi di parte della colonna d'aria sovrastante l'edificio. In ogni caso, rappresenta l'equivalente pecuniario della frazione di valore dell'area perduta in conseguenza della sopraelevazione, da ogni singola quota: infatti, il proprietario dell'ultimo piano, per effetto della sopraelevazione, aumenta, a scapito degli altri condomini, il proprio diritto sulle parti comuni dell'edificio, dal momento che tale diritto, in base all'art. 1118 comma 1, c.c. è proporzionato al valore del piano o della porzione di piano che gli appartiene.

Altre disposizioni limitative della facoltà di disposizione del proprietario
Il fatto che l'art. 1122 c.c. preveda espressamente il divieto di arrecare danno alle parti comuni, non significa che escluda il vincolo di non pregiudicare le proprietà esclusive degli altri condomini. Le limitazioni a salvaguardia delle altre proprietà private sono dettate nelle disposizioni che disciplinano il rapporto tra proprietà esclusive, quali le norme sulle immissioni, il divieto degli atti di emulazione, nonché sulle distanze legali e sulle luci e vedute.

Immissioni
La Suprema Corte ha considerato di sicura applicabilità, in ambito condominiale, le norme sulle immissioni, ove un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni, origini immissioni moleste o dannose nella proprietà degli altri condomini. La ratio della normativa è che il proprietario dovrebbe fare il possibile per evitare che l'utilizzo del proprio bene possa causare conseguenze negative per l'immobile del vicino; tuttavia, dal momento che nella realtà quotidiana risulta concretamente impossibile evitare che esalazioni, fumo e calore, a causa della contiguità dei fondi, si propaghino da un immobile all'altro, l'art. 844 c.c. definisce la ragionevolezza della tolleranza che il vicino proprietario deve prestare, stabilendo il parametro della normale tollerabilità e bipartendo tra immissioni tollerabili, lecite, ed emissioni intollerabili, illecite.
Le norme sulle immissioni si applicano al condominio sia nei rapporti tra distinti piani che tra differente porzioni di piano in proprietà esclusiva e nei rapporti tra le unità immobiliari e i beni comuni e anche in questo caso il regolamento di condominio può stabilire criteri più rigorosi di quelli dettati dalla norma generale dell'art. 844 c.c.

Atti emulativi
Con la disposizione di cui all'art. 833 c.c., l'ordinamento, proteso anche in questo caso a mantenere vigente un equo bilanciamento di interessi configgenti, si propone di vietare che il proprietario, nel godimento del proprio diritto, ponga in essere atti volti esclusivamente a recare pregiudizio ad altri, da cui non trae una qualche propria utilità.
Sotto questo profilo, l'art. 833 c.c., la cui enunciazione è, in linea teorica, ineccepibile corollario del diritto dominicale, trova rara applicazione, dal momento che è praticamente impossibile che il soggetto danneggiato da un atto di emulazione riesca a dimostrare che il proprietario non tragga neppure minimo vantaggio dall'atto.
In questo ristretto margine di operatività è intervenuta l'elaborazione dottrinale che ha tentato di renderne elastica la nozione, mentre la giurisprudenza si è generalmente attestata su una linea interpretativa rigorosa. Ad esempio, in passato si è ritenuto che un interesse, sia pure meramente estetico, potesse legittimare un atto che, invece, pregiudicasse fortemente un diritto primario altrui, quale il diritto alla salute (Cass. 26 aprile 1975,
n. 1604). La fattispecie inoltre, insieme all'elemento della carenza di vantaggio per il proprietario, sembrava richiedere la presenza, e quindi la prova, dell' animus nocendi. Tuttavia una recente sentenza ha cercato di porre riparo alle difficoltà applicative (Cass. 6 giugno 2002, n. 8251), ricostruendo i presupposti dell'art. 833 c.c. sia sotto il profilo oggettivo, per cui è sufficiente una oggettiva sproporzione tra il pregiudizio altrui e l'utilità del proprietario e sia sotto il profilo soggettivo, per cui l' animus nocendi non va inteso quale stato soggettivo perché lo "scopo" cui la norma si riferisce indica la finalità oggettiva dell'atto.

Distanze, luci e vedute
Nello stesso senso, nonostante numerose oscillazioni manifestate dalla giurisprudenza, è da ritenere che, compatibilmente con le norme specifiche dettate per il condominio, si possa applicare la normativa in materia di distanze legali e quella sulle luci e le vedute.
Responsabilità civile e tutela giudiziaria
La responsabilità civile del condomino può derivare sia dalla violazione del principio di responsabilità generale di cui all'art. 2043 c.c., che dalle previsioni specifiche di cui all'art. 1122 c.c.
L'art. 2043 c.c. interviene in tutte le ipotesi in cui si perpetri una violazione del diritto di proprietà altrui o di altri diritti reali e non sussistano norme specifiche di tutela, e opera quale clausola generale di responsabilità. Ciò perché il titolare ha pieno diritto di usare e godere della cosa e ogni intervento che sia diretto a limitare tale uso e godimento costituisce turbativa del diritto stesso, qualificandosi come responsabilità extracontrattuale.
Tanto premesso, essendo il condominio una comunione di diritti reali, il godimento della proprietà esclusiva, da parte del singolo condomino, deve avvenire nel rispetto dei limiti di cui gli artt. 1102, 1120, 1122 c.c.
Sul piano della tutela reale i condomini che si considerino lesi nel loro godimento dei beni comuni hanno facoltà di agire attraverso le ordinarie azioni petitorie (artt. 948 e 949 c.c.) e possessorie (art. 1170 c.c.) e nell'ipotesi della violazione degli obblighi di cui all'art. 1122 c.c., di ricorrere all'azione inibitoria, di denunzia di nuova opera ex art. 1171 c.c. ed ex art. 700 c.p.c. L'art. 1117-quater c.c. rubricato "tutela delle destinazioni d'uso" (in vigore dal 18 giugno 2013) prevede che l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, in caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, possano diffidare l'esecutore nonché chiedere la convocazione dell'assemblea per fare cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L'assemblea in merito alla cessazione di tali attività delibera con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'art. 1136 c.c. (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio).
È opportuno inoltre ribadire la distinzione tra regolarità amministrativa e liceità civilistica, ove il danno, e la legittimazione alla richiesta di intervento dell'autorità giudiziaria, non vengono meno solo perché l'opera sia stata autorizzata dalla pubblica autorità, dal momento che le due normative scorrono su binari paralleli e originano due diversi tipi di responsabilità.

Responsabilità da custodia
Se, diversamente, i danni siano provocati non dal comportamento colposo del condomino ma dalla proprietà esclusiva dello stesso, opera la responsabilità da custodia ex art. 2051 c.c.
Ciò si verifica nell'ipotesi in cui la proprietà del singolo condomino sia affittata a un inquilino, in forza di una locazione: gli obblighi di custodia ex art. 2051 c.c. si trasferiscono parzialmente all'inquilino ma il condomino-locatore non è dispensato dall'obbligo di vigilanza e custodia della cosa locata in quanto obbligo connesso a quello di manutenzione e di riparazione dell'immobile.
Grava comunque sul condomino-locatore un dovere di prevenzione di eventuali violazioni da parte dell'inquilino e di eventuale sanzione di esse attraverso la cessazione del rapporto locatizio. Riassumendo, il condomino-locatore permane il principale destinatario delle norme regolamentari e si pone nei confronti della collettività dei condomini, non solo quale responsabile delle sue dirette violazioni, ma anche quale responsabile delle violazioni commesse dal conduttore del suo bene, se e in quanto agevolate dalla sua culpa in eligendo o da una sua culpa in vigilando o dall'omissione di quanto sia da lui esigibile, quale proprietario locatore, per far cessare lo stato antigiuridico (porre termine al rapporto locativo) o condizionarlo al rispetto delle violate prescrizioni condominiali.
L'elaborazione dottrinale e i doveri di correttezza e di solidarietà
La materia in trattazione non è stata oggetto di dispute e di contrasti dottrinali rilevanti. Le elaborazioni dottrinali sono rimaste sostanzialmente fedeli e affiancate a quelle giurisprudenziali, nell'intento di specificare le nozioni normative, spesso insufficienti e poco circostanziate. Gli interventi dei giuristi hanno consentito per lo più l'applicazione delle fattispecie normative a una realtà in cambiamento, da un'impostazione di condominio qualificato unicamente quale coesistenza, nel medesimo stabile, di proprietà individuali e comuni, a una concezione dell'istituto come rapporto tra situazioni complesse, unificate dal collante della funzione abitativa.
In questa prospettiva, la dottrina ha suggerito l'estendibilità ai rapporti condominiali del dovere di comportarsi "secondo le regole della correttezza", ex art.1175 c.c. e del principio solidaristico previsto all'art. 2, II parte, della Costituzione, specie ove l'edificio sia prevalentemente destinato a uso abitativo e in virtù della qualificazione, alla luce della normativa costituzionale, delle esigenze abitative quali oggetto di un "diritto inviolabile" del soggetto.
In particolare, si è cercata l'applicazione dei doveri di correttezza e di solidarietà con riferimento ai doveri dei singoli proprietari verso il gruppo condominiale, sia, in ottica vincolistica, nelle ipotesi di conflitto di interessi tra condominio e singoli condomini, nell'ambito della fattispecie degli atti emulativi, nelle ingerenze nel godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, ecc.; sia, in chiave positiva, elaborando un generale dovere di cooperazione attiva tra i condomini.
La dottrina ha anche attuato lo sforzo interpretativo per permettere alle esigenze di tipo abitativo di prevalere su quelle di tipo speculativo e per dirimere interessi configgenti originati dalle istanze vincolistiche affermate dalla legislazione speciale (es.: l'interesse del portatore di handicap alla costruzione dell'opera antibarriera architettonica e quello degli altri condomini alla tutela del decoro architettonico o all'uso di tutte le parti comuni dell'edificio da parte di ciascuno).
Questa opera di adattamento dell'impianto normativo ha coinciso coerentemente con la tendenza manifestata, con la valorizzazione della funzione sociale della proprietà ex art. 42, comma 2, Cost. e con la configurazione del complesso condominiale come contesto sociale all'interno del quale si estrinsecano le diverse sfere individuali.

Considerazioni conclusive
Dopo avere cercato di delineare i limiti posti dall'ordinamento alle facoltà del proprietario di disporre del bene di esclusiva proprietà, è opportuno ricordare come la materia condominiale e quella oggetto della trattazione in particolare, debba essere analizzata tenendo conto che ci è possibile tracciare con certezza soltanto delle valutazioni di massima. Al di fuori di esse, sarà necessario procedere, volta per volta, alla valutazione delle circostanze che delineano il caso concreto, perciò il vaglio della legittimità degli interventi dipenderà dall'analisi della peculiarità delle circostanze. Nella pratica, a titolo esemplificativo, la fattispecie della trasformazione di un balcone in una veranda è stata consentita o vietata in altri casi, a seconda che fosse in concreto riscontrabile o meno un'alterazione del decoro architettonico.
In quest'ottica è evidente come l'apporto e il ruolo della giurisprudenza sia fondamentale, in quanto consente di superare le lacune normative e di realizzare, nella concretezza, il contemperamento di istanze accennato: quelle della proprietà e quelle confliggenti originate dalla coabitazione e dalla mediazione delle esigenze individualistiche e sociali.
In questo contesto gli operatori del settore hanno sollecitato una radicale e profonda revisione, che regolasse, avvalendosi di tecniche e scelte legislative migliori - in termini di adattamento alla realtà in mutamento - l'intero contesto condominiale, notevolmente mutato dai tempi della promulgazione del Codice civile e recepisse gli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi e affinatisi.

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