Il CommentoCivile

Limiti all'indagine del CTU: le Sezioni Unite circoscrivono il perimetro dell'eventuale nullità della perizia

Nella sentenza in commento (Corte di Cassazione, S.U., 1° febbraio 2022 n. 3086) le Sezioni Unite offrono un'analisi di pregio sull'istituto della consulenza tecnica d'ufficio, delineandone natura, funzione e limiti alla luce di una rinnovata interpretazione della normativa consacrata nel codice di rito

di Antonino La Lumia*

Con la recentissima - e, a dire il vero, particolarmente corposa - sentenza n. 3086 del 1° febbraio 2022 , le Sezioni Unite offrono un'analisi di pregio sull'istituto della consulenza tecnica d'ufficio, delineandone natura, funzione e limiti alla luce di una rinnovata interpretazione della normativa consacrata nel codice di rito.

La pronuncia segue un ragionamento tecnico-giuridico complesso e ricco di ricercati elementi di cultura giuridica, che conducono sapientemente il lettore lungo le linee segmentate dell'indagine ermeneutica, spaziando dalla storia legislativa alle variegate posizioni pregresse della dottrina e della giurisprudenza.

Ciò che si rende apprezzabile è la continua, e volutamente mai celata, tensione verso una decisione "giusta", che prescinda - per quanto possibile - da ingessati formalismi, legando la propria essenza alla sostanza del caso.

La fattispecie da cui scaturisce l'occasione per comporre la questione è rappresentata dai vizi inerenti a una CTU resa nell'ambito di un giudizio di responsabilità di un istituto bancario per operazioni contabili effettuate in danno di un cliente: sul punto, l'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione Civile della Corte ( n. 9811 del 12 gennaio 2021 ) aveva rilevato un annoso contrasto giurisprudenziale in ordine al regime dei vizi inficianti "uno strumento - lato sensu istruttorio - di diffusissima applicazione, quale la consulenza tecnica d'ufficio" e ciò nel caso in cui il CTU abbia esteso il raggio della cognizione peritale oltre i limiti dell'incarico e la sentenza ne abbia recepito le conclusioni, asseritamente violando l'art. 112 c.p.c.

Nel quinto motivo, i ricorrenti avevano sostenuto che "L'allargamento dell'indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente cagiona la nullità della consulenza tecnica d'ufficio": infatti, "il consulente tecnico non ha il potere di accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni il cui onere probatorio incombe sulle parti" e pertanto "qualora egli sconfini dai predetti limiti intrinseci al mandato conferitogli, tali accertamenti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio e perciò privi di qualsiasi valore probatorio" e la sentenza che ne "recepisca valutazione esorbitanti è nulla perché viziata da ultrapetizione".

Da qui si dipana l'iter decisionale delle Sezioni Unite che corre, in maniera consapevole, sul malfermo crinale del contrasto: la natura giuridica della nullità della consulenza tecnica d'ufficio e il conseguente rilievo officioso o su istanza di parte.

Lo sfondo argomentativo si compone, inizialmente, della presa d'atto degli orientamenti esistenti, come richiamati dall'ordinanza di rimessione.

Secondo quello tradizionale, "tutte le ipotesi di nullità della consulenza tecnica, ivi ricompresa quella - ricorrente nella specie - dovuta all'eventuale allargamento dell'indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente, nonché quella dell'avere tenuto indebitamente conto di documenti non ritualmente prodotti in causa, hanno sempre carattere relativo, e devono essere fatte valere dalla parte interessata nella prima udienza successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanate" (da ultimo, Cass., sez. III, 15 giugno 2018, n. 15747 ): in questo caso, dunque, "Il carattere relativo della nullità esclude, per vero, in radice l'ammissibilità di un rilievo officioso da parte del giudicante".

Sul versante opposto, si colloca l'impostazione seguita dalla recente pronuncia della Suprema Corte, sez. III, 6 dicembre 2019, n. 31886 , secondo la quale "lo svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al "thema decidendum" della controversia o l'acquisizione ad opera dell'ausiliare di elementi di prova, in violazione del principio dispositivo, cagiona la nullità della consulenza tecnica, da qualificare come "nullità a carattere assoluto", rilevabile d'ufficio e non sanabile per acquiescenza delle parti, in quanto le norme che stabiliscono preclusioni, assertive ed istruttorie, nel processo civile sono preordinate alla tutela di interessi generali, non derogabili dalle parti".

Quest'ultima posizione si fonda sulla considerazione che il CTU non potrebbe - nemmeno in presenza di ordine del giudice o di acquiescenza delle parti - indagare di ufficio su fatti mai ritualmente allegati da queste ultime, né acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni proposte e nemmeno procurarsi, dalle parti o dai terzi, documenti che forniscano tale prova. Unica deroga a tale regime potrebbe rinvenirsi soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell'eccezione non possa essere oggettivamente fornita dalle parti con i mezzi di prova tradizionali, postulando il ricorso a cognizioni tecnico-scientifiche, oppure laddove la consulenza si renda necessaria per la prova di fatti tecnici accessori o secondari e di elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti.

È interessante approfondire quest'ultima notazione, perché essa diventa essenziale al fine di cogliere - poi - il ragionamento di chiusura delle Sezioni Unite.

La sentenza n. 31886/19 trae il proprio convincimento, evidenziando che il principio secondo cui le nullità della consulenza restano sanate, se non eccepite nella prima difesa utile, fosse stato posto inizialmente (e correttamente) con riferimento sempre e soltanto alla nullità derivante dall'omissione dell'avviso a una delle parti della data di inizio delle operazioni peritali: il "corto circuito" applicativo sarebbe invece scaturito dalla circostanza che, successivamente, il medesimo principio fosse stato esteso anche ad altre ipotesi di nullità della consulenza e, in particolare, al caso di indagini peritali su fatti estranei al thema decidendum o, più spesso, di acquisizione da parte del CTU di documenti non ritualmente prodotti dalle parti.

Ebbene, tale estensione del campo operativo delle nullità relative poteva trovare diritto di cittadinanza nella strutturazione "senza barriere" del giudizio di cognizione delineato dall'originario impianto del codice processuale, ma non sarebbe più coerente con il sistema delle preclusioni, assertive e asseverative, che attualmente informa il processo civile, preordinato alla tutela di interessi generali.

Ecco perché, secondo la citata pronuncia n. 31886/19, se "la violazione delle preclusioni assertive ed istruttorie non è sanata dall'acquiescenza delle parti, ed è rilevabile d'ufficio, non è possibile continuare a sostenere che tali violazioni nuocciano all'interesse generale, e siano causa di nullità assoluta, se commesse dalle parti; ledano invece un interesse particolare, e siano causa d'una mera "nullità relativa", se commesse dal c.t.u.".

Su questo specifico profilo si appunta la valutazione delle Sezioni Unite, che - pur dichiarando inammissibile il relativo motivo di ricorso (per vizio di autosufficienza) - ritengono essenziale, data la rilevanza della questione, pronunciare il principio di diritto nell'interesse della legge.

Giuridicamente suggestiva è la descrizione della consulenza tecnica, ideale incipit del lungo percorso interpretativo della sentenza: "la nomina del consulente tecnico d'ufficio costituisce lo strumento, come bene si è detto in dottrina, per mezzo del quale il giudice esce dalla torre di cristallo nella quale lo pongono l'operare congiunto del principio dispositivo e delle preclusioni istruttorie e riesce a rompere il diaframma tra gli atti di causa e la realtà materiale che egli può di regola conoscere solo per il tramite dell'attività delle parti".

Le Sezioni Unite conducono un esame verticale della questione, navigando tra le norme processuali in tema di nullità, e fanno proprio il principio generale di partenza : il consulente non può estendere il raggio delle proprie investigazioni ai fatti costitutivi della domanda e, oppostamente, ai fatti modificativi o estintivi di essa che non abbiano formato oggetto dell'attività deduttiva delle parti.

Detto principio, tuttavia, merita - ad avviso della Corte - di essere mitigato: qui si innesta un ulteriore tassello argomentativo, ideologicamente strutturato.

Viene fuori, infatti, con prorompente vitalità sistematica, un concetto che - in filigrana - fa da palco orientato all'intera pronuncia: "La necessità, invero, di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l'art. 6 CEDU, comporta l'attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo che non è e non può essere rigida applicazione di regole, segnatamente, di ordine formale che quel diritto ingiustamente penalizzino, ma deve mirare a garantire attraverso una pronuncia sul merito della contesa, l'interesse delle parti al conseguimento di una decisione per quanto più è possibile giusta".

Sulla base di tale presupposto ordinamentale, diventa imprescindibile - nell'economia del ragionamento delle Sezioni Unite - la distinzione tra potere di allegazione e potere di rilevazione: il primo compete alla parte, dal momento che si fonda sul principio della domanda e sul correlativo principio dispositivo che individua esclusivamente nella parte medesima il soggetto che può disporre, anche in seno al processo, del proprio diritto; il secondo, invece, può essere oggetto di una condivisione tra la parte e il giudice, atteso che il generale potere che compete a questo di rilevare le eccezioni in senso lato si traduce nella rilevazione anche dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa ove questi, sebbene non precedentemente allegati dalla parte, emergano tuttavia dagli atti di causa.

Per questa ragione, deve prevalere l'ottica di un processo civile costituzionalmente orientato alla tendenziale giustizia della decisione, che autorizza il giudice a rilevare anche officiosamente i fatti, ove essi risultino acquisiti al giudizio indipendentemente dalla volontà dispositiva della parte che ne trae vantaggio: la Corte, in tal senso, ritiene che non si possa opporre al giudice che i fatti in parola siano venuti a sua conoscenza non motu proprio, ma attraverso le indagini commissionate al CTU, che lui stesso avrebbe potuto compiere se non avesse avuto la necessità di servirsi di un esperto.

Ne discende che "è immune da vizi la decisione che, recependo le risultanze peritali, ne faccia propri e ne valorizzi anche quei profili di essa che evidenzino fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa che, ancorché non dedotti dalla parte, siano stati accertati dal consulente nell'espletamento dell'incarico".

Le Sezioni Unite non mancano, poi, di sottolineare che la consolidata giurisprudenza di legittimità sostiene che - dato il raggio di investigazione del consulente previsto dall'art. 194, primo comma, c.p.c. - il CTU sia legittimato ad acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti demandatigli dal giudice, "sempre che si tratti di fatti accessori rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse" ( Cass., Sez. II, 30 luglio 2021, n. 21926 ).

Si muove, dunque, un passo nel percorso ermeneutico: considerato il potere di procedere nei limiti dei quesiti sottopostigli all'investigazione dei fatti accessori, il CTU può estendere il proprio giudizio anche ai fatti che, sebbene non dedotti dalle parti, siano pubblicamente consultabili, non essendovi ragione di vietare in tal caso al consulente, pur se ne maturi la conoscenza aliunde, di esaminare i fatti conoscibili da chiunque.

E, da qui, ancora una presa di distanza dalla pronuncia n. 31886/19, nella parte in cui quest'ultima fa propria la tesi dell'applicabilità alle attività consulenziali del regime preclusivo imposto alle parti, affermando che - se fosse consentito al CTU di acquisire dalle parti o da terzi documenti anche dopo lo spirare delle preclusioni istruttoria - ciò determinerebbe un'interpretatio abrogans dell'art. 183, sesto comma, c.p.c., con l'effetto stravolgente di violare il principio di parità delle parti.

Le Sezioni Unite, per confutare la tesi in parola, ribadiscono innanzitutto che - nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 a quello vigente - il perito ha visto profondamente mutata la propria natura, fregiandosi ora di un'investitura pubblicistica, che gli deriva dall'essere designato dal giudice e non dalle parti, e dall'assunzione dello status di ausiliario di giustizia: ne deriva che i poteri di cui dispone il CTU promanano direttamente dal giudice che lo ha nominato e sono quindi esercitabili negli stessi limiti in cui sarebbero esercitabili da quest'ultimo.

Se ne deduce una chiave interpretativa dell'art. 183, ottavo comma, c.p.c., alla luce della quale il giudice eserciterà i poteri istruttori d'ufficio quando le parti - per il decorso dei termini di cui al sesto comma - siano ormai decadute da ogni potestà deduttiva: le preclusioni così maturate in danno delle parti non operano con riguardo ai mezzi di prova che il giudice, valendosi in tal senso dei poteri riconosciutigli dall'ordinamento, dispone d'ufficio.

Nel quadro così delineato, anche il consulente potrà procedere, nei limiti visti, agli approfondimenti istruttori che, prescindendo da ogni iniziativa di parte, appaiono necessari per rispondere ai quesiti posti dal giudice: ciò vale a maggior ragione nell'ambito delle consulenze ad alto tasso di specializzazione, in materie che richiedono l'esame di registri e documenti contabili.

Le Sezioni Unite mostrano di volersi distaccare anche dall'interpretazione tradizionale dell'art. 198 c.p.c., norma che - al secondo comma - consente al CTU, acquisito il consenso delle parti, di poter "esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa", vietandogli tuttavia di poterne "far menzione nel processo verbale o nella relazione di cui all'art. 195" se le parti non prestino ancora il proprio consenso: in proposito, si è sostenuto che il consulente, in questo caso, possa procedere all'esame dei documenti non prodotti solo a condizione che si tratti "di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice" ( Cass., Sez. I, 3 agosto 2017, n. 19427 ). Alla base, v'è sempre la convinzione che la disciplina della consulenza contabile debba essere letta in stretta adesione al regime preclusivo che regola le attività deduttive delle parti.

La sentenza non condivide il suddetto indirizzo, ritenendo che esso determini una sostanziale abrogazione della norma, mortificandone la ratio di specialità, soprattutto nei casi in cui la complessità delle questioni tecniche dovrebbe giustificare anzi il più ampio apporto delle indagini peritali. Nel solco di tale convinzione, le Sezioni Unite rilevano che "se, come si crede dall'interpretazione corrente, nell'esegesi dell'art. 198, comma 2, cod. proc. civ. si reputa che i documenti non prodotti esaminabili e, se del caso, utilizzabili dal consulente, previo consenso delle parti, siano i documenti a comprova dei fatti accessori, la norma smarrisce ogni connotato di originalità e diviene un inutile doppione delle attività che il consulente è ordinariamente abilitato, in ragione del mandato ricevuto, a svolgere senza bisogno del consenso delle parti".

Al contrario, la specialità dell'art. 198 c.p.c. sta nel consentire espressamente al consulente contabile l'esame di documenti non prodotti in giudizio, anche se questi riguardino fatti principali ordinariamente soggetti ad essere provati per iniziativa delle parti. L'onere di allegazione, che compete alle parti in tali controversie "speciali", dovrebbe considerarsi attenuato proprio in ragione della complessità tecnica della lite: ovviamente, nell'espletamento delle attività, il CTU deve attenersi al più scrupoloso rispetto del principio del contradditorio.

Su queste ultime considerazioni, si innesta la risposta al quesito principale dell'ordinanza interlocutoria: se l'acquisizione del documento rinvenuto dal CTU, ma non introdotto nel giudizio dalle parti, determini una nullità relativa, sanabile se non eccepita nel termine dell'art. 157, secondo comma, c.p.c., ovvero una nullità assoluta rilevabile d'ufficio, anche in assenza di eccezioni di parte.

Coerentemente con le premesse, le Sezioni Unite ritengono che la tesi della nullità assoluta, sostenuta da Cass. 31886/19, non sia condivisibile: essa, a dire della Corte, "si svuota di consistenza allorché se ne ponga in discussione il fondamento di diritto e si abbracci la diversa prospettiva che valorizza la funzione ausiliare del CTU rispetto all'attuazione dell'ufficio giurisdizionale e che in questa chiave ricostruttiva, in cui il consulente si rende partecipe dei poteri istruttori che competono al giudice in via ufficiosa, ne enfatizza significativamente il ruolo, segnatamente in quei campi ad alta specializzazione tecnico-scientifica in cui il quadro probatorio, per la complessità degli approfondimenti istruttori postulati dalla res litigiosa, sfugge alla regola di una rigida preordinazione".

Animato dalla medesima interpretazione è il successivo corollario, in relazione all'ipotesi in cui l'acquisizione irrituale si comunichi alla relazione di perizia e da qui, se del caso, alla sentenza.

A tal riguardo, la Corte sostiene che, nell'operare la qualificazione del relativo vizio, debba trovare spazio il "sistema delle invalidità processuali di cui agli artt. 156 e segg. cod. proc. civ., in esso individuandosi per diritto acclarato il complesso dei rimedi endoprocessuali indicati dal legislatore per porre correttivo alle anomalie che si verificano nel corso del processo e che non sfociano in ragioni di nullità della sentenza, in relazione alle quali si impone il più specifico rimedio dell'impugnazione (art. 161 cod. proc. civ.)": pertanto, non può ritenersi fondata la diversa opzione ricostruttiva, emergente anche dalle requisitorie del P.M., che fa leva sulla pretesa dicotomia «inammissibilità / inutilizzabilità» per colpire la consulenza tecnica che ampli il thema decidendum o probandum.

Messe le basi sistematiche per tratteggiare convintamente la tipologia di vizio, le Sezioni Unite chiudono il cerchio argomentativo, affermando che - dentro il reticolato delle invalidità processuali di cui agli artt. 156 e segg. c.p.c. - "occorra confermare … l'orientamento tradizionalmente invalso nella giurisprudenza in materia di questa Corte secondo cui i vizi che infirmano l'operato del CTU sono fonte di nullità relativa e rifluiscono tutti invariabilmente sotto il dettato dell'art. 157, comma 2, cod. proc. civ.".

Posto il principio generale, la Corte - in conclusione - ribadisce la necessità che l'attività consulenziale si svolga sempre nel contraddittorio delle parti, rilevando che "giacché il CTU che, nei limiti delle indagini commessegli dal giudice, estenda il perimetro delle proprie attività e proceda ad accertare fatti non oggetto di diretta capitolazione di parte o ad esaminare documenti, del pari, non introdotti nel giudizio delle parti, senza darsi previamente cura di attivare su di essi il necessario confronto processuale, non lede, anche nel mutato ordinamento processuale scaturito dalla novella del 1990, un interesse del processo, in guisa del quale quella attività possa giudicarsi affetta da un vizio di nullità assoluta, ma lede un interesse, pur primario delle parti in quanto posto a tutela del diritto di difesa delle medesime, di cui le parti possono tuttavia pur sempre disporre, poiché compete solo a loro il potere di farne valere la violazione e di eccepire la nullità dell'atto che ne è conseguenza a mente dell'art. 157, comma 2, cod. proc. civ.".

Resta fermo, tuttavia, il limite della domanda, in ossequio al principio dispositivo, che costituisce un vincolo insormontabile anche per il giudice.

Pertanto, in linea con tale impostazione, le Sezioni Unite evidenziano che, qualora la consulenza indaghi su temi estranei all'oggetto della domanda e pervenga pure al risultato di stimare la fondatezza della pretesa esercitata dall'attore in base a fatti diversi da quelli allegati, l'accertamento si colloca al di fuori dei limiti della domanda: ne scaturisce un motivo di nullità rilevabile d'ufficio o che può farsi valere in sede di impugnazione, ai sensi dell'art. 161 c.p.c.

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*A cura dell'avv. Antonino La Lumia (Founding Partner di Lexalent), Presidente nazionale Movimento Forense