Mano pesante sulle sanzioni per l’abuso del processo
Più spazio ai risarcimenti punitivi, se gli avvocati non svolgono la loro funzione di primo filtro. L’abuso del diritto all’impugnazione scatta quando i motivi, oltre ad essere confusi, non sono coerenti con il contenuto della sentenza impugnata o non autosufficienti, quando si richiede una rivalutazione nel merito, o quando si solleva un vizio non invocabile secondo il codice di rito civile. In questi casi, oltre al pagamento delle spese si aggiunge una somma da versare alla controparte. E questo a prescindere dal dolo o dalla colpa grave. Con la sentenza 16898, la Cassazione usa la mano pesante, nei confronti del ricorrente che aveva presentato un ricorso incomprensibile e teso ad ottenere un terzo grado di giudizio, nell’ambito di un procedimento per il reato diffamazione - di cui si riteneva vittima - dal quale era già uscito sconfitto nei gradi di merito. La Suprema corte torna sulla funzione sanzionatoria per lite temeraria, prevista dall’articolo 96 del Codice di rito civile calcando la mano - anche in virtù dell’evoluzione dei principi in materia dei danni punitivi - sulla funzione sanzionatoria, allo scopo di contenere l’abuso del processo. I giudici chiariscono che la condanna alle spese in caso di soccombenza, prevista dal terzo comma dell’articolo 96, configura una sanzione di tipo pubblicistico, autonoma e indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata indicata dai primi due commi. Ed con queste cumulabile, in nome del contenimento dello strumento processuale. Senza che, per la sua applicazione sia necessario, riscontrare l’elemento soggettivo del dolo e della colpa grave: basta che la condotta rientri nell’abuso del diritto. Il maggiore spazio attribuito dalla giurisprudenza ai “risarcimenti punitivi” si giustifica perché la responsabilità civile ha anche uno scopo deterrente e non il solo fine di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione. Per queste ragioni la Cassazione allarga la sfera del non consentito “punendo” oltre ai ricorsi pasticciati e non legati alla sentenza da impugnare, anche le richiesta di una revisione dei “fatti” e i vizi infondati. Nel mirino dei giudici finiscono i ricorsi non finalizzati alla tutela dei diritti e a ottenere giustizia, ma destinati a far lievitare il volume del contenzioso «ostacolando la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione» . Nello specifico il ricorrente oltre alle spese, e al contributo unificato, paga anche 2500 euro alla controparte. I suoi motivi erano tutti inammissibili ed esposti in un modo non più compatibile con un ordinamento che deve contemperare l’esigenza di un accesso universale alla giustizia, con il principio della durata ragionevole del processo. Nella necessità di dissuadere azioni dilatorie e defatiganti va valorizzata la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario. Per dare spazio alla tutela dei soggetti meritevoli, il primo filtro è affidato alla prudenza degli avvocati che va unita alla responsabilità delle parti.
Corte di cassazione – Sezione III – Sentenza 25 giugno 2019