La “fluidità sessuale” entra nel riconoscimento dello status di rifugiato
La Cassazione, ordinanza n. 9290 depositata ieri, ha accolto il ricorso di un cittadino iraniano che lamentava il rischio di incorrere in gravissime pene: dalla fustigazione alla morte
La Cassazione apre alla possibilità di riconoscere lo status di rifugiato anche a chi, provenendo da un paese dove l’omosessualità è un reato, si dichiari “fluido” nella scelta dei rapporti sessuali. La Prima sezione civile, ordinanza n. 9290/2024, ha così accolto il ricorso di un cittadino iraniano a cui era stato negato il riconoscimento di ogni forma di protezione.
Nel ricorso, il migrante ha censurato la valutazione di non credibilità formulata dal Tribunale in merito alla dichiarazione di avere abbandonato il suo Paese, “dopo avere acquisito consapevolezza della propria omosessualità, a causa del forte dissidio sorto con il padre, il quale, fermo osservante delle prescrizioni religiose, aveva subito avversato tale suo orientamento di genere e lo aveva denunciato per tale motivo alle autorità iraniane”. “Ciò - spiegava - lo aveva indotto a fuggire a causa della legislazione vigente in Iran che prevede pene che vanno dalla fustigazione alla pena di morte”.
La Corte ricorda che le dichiarazioni del richiedente asilo sul proprio orientamento sessuale “devono essere sottoposte al vaglio di verosimiglianza dal giudice secondo i criteri procedimentali di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, tenendo altresì conto “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente”, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati e devono essere comparate con COI aggiornate e pertinenti, in quanto possono essere da sole sufficienti a dimostrare l’appartenenza ad un gruppo sociale a rischio persecutorio (Cass. n. 20385/2020)”. Inoltre, il giudice di merito è tenuto a valutare la credibilità delle dichiarazioni in modo complessivo ed unitario sulla scorta di tutti gli elementi probatori acquisiti (Cass. n. 6107/2022). Infine, la valutazione del rischio in caso di rimpatrio può sorgere anche in un momento successivo alla partenza, dando così luogo ad una esigenza di protezione “sur place”.
Ebbene, prosegue la Corte, nel caso in esame, il Tribunale “ha respinto la domanda di protezione in tutti i suoi aspetti, in maniera formalistica e critica ravvisando la non credibilità dello stesso sulla scorta di elementi quale la “fluidità” nei rapporti sessuali dallo stesso rappresentata”. Oltre ad un atteggiamento valutato come “superficiale nell’esposizione delle discriminazioni subite in patria e nei rapporti con la fede mussulmana”.
Una valutazione censurata dalla Cassazione perché non si è tenuto conto del “contesto narrativo e personale esposto dal ricorrente, che aveva riferito di appartenere ad una famiglia influente ed economicamente agiata, che lo aveva aiutato ad espatriare e continuava ad aiutarlo, circostanza incompatibile on una migrazione per motivi economici”. Né, prosegue, è stato indagato, il sostrato socio-politico-culturale in cui la vicenda si collocava, connotato da atteggiamenti di integralismo religioso rispetto ai quali la presenza in patria del richiedente poteva propagare i suoi negativi effetti su tutto il nucleo familiare.
Il decreto impugnato è stato così cassato e rinviato al Tribunale di Milano, in diversa composizione, per un riesame.