Casi pratici

"Mutatio ed emendatio libelli: come e quando cambiano i confini del decidere?"

Il principio di preclusione

di Laura Biarella

la QUESTIONE
Che differenza sussiste tra mutation ed emendatio? Entro quali limiti, secondo la giurisprudenza e la dottrina, le parti del processo possono precisare o modificare le domande proposte? Quali sono i principi processuali che vengono in gioco?


Il tema delle modificazioni della domanda in corso di causa non può essere affrontato senza una sintetica ricognizione del principio di preclusione. Alla stregua del principio de quo, le parti possono esercitare le proprie difese soltanto nei limiti temporali e processuali previsti dalla legge. In generale il sistema delle preclusioni può essere informato da un criterio di flessibilità, ovvero di rigidità. La scelta del Legislatore non è totalmente discrezionale, bensì deve essere orientata dalla tipologia di controversie che saranno oggetto di quel determinato rito. Così ad esempio nel rito del lavoro - ove le fattispecie sono maggiormente tipizzate - si giustifica una maggiore severità di un sistema di preclusioni che maturano negli atti introduttivi. Diversamente, nel rito ordinario, in considerazione della possibilità per le parti di dar luogo a schemi negoziali atipici, si lascia preferire il diverso modello a prescrizioni diluite nel corso del processo (Cecchella). La facoltà per le parti del processo di "correggere il tiro" rispetto agli atti iniziali - intervenendo sulle domande già avanzate o proponendone di nuove - è stata oggetto, negli anni, di una serie di interventi normativi talora ampliativi, talaltra restrittivi. Le dimensioni necessariamente sintetiche di questo scritto impongono di limitare l'analisi alla disciplina quale emerge dalle ultime riforme.
Occorre tuttavia aver ben fermo il principio (Cassazione Civ., Sez. III, Ordinanza 27 maggio 2019, n. 14369) che la modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c. è consentita sempre che rimangano immutate le parti del giudizio nonché la vicenda sostanziale oggetto dello stesso. Per quanto afferisce alle controversie di lavoro è stato precisato (Tribunale Roma Civ., Sez. VI, 25 ottobre 2021, n. 16708) che la disciplina della fase introduttiva del giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano, sicché non solo non è consentita la proposizione di alcuna domanda nuova, ma non è permessa neanche la formulazione di una "emendatio" se non nelle forme e nei termini previsti, come si desume dall'art. 420, comma primo, c.p.c., secondo il quale le parti possono modificare le domande solo se ricorrono gravi motivi e previa autorizzazione del giudice. Deve considerarsi, pertanto, inammissibile qualsiasi modificazione della domanda che non sia stata operata, con riferimento al giudizio locatizio a cognizione piena conseguente al superamento della fase speciale del procedimento per convalida, ai sensi dell'art. 426 c.p.c., attraverso l'integrazione dell'atto introduttivo, nel termine perentorio fissato dal giudice, e che non sia stata autorizzata a norma del citato art. 420 c.p.c., all'udienza di discussione. Tale inammissibilità, al pari di quella conseguente alla decadenza per inosservanza dell'onere imposto al ricorrente dall'art. 414, n. 3, c.p.c. relativo alla determinazione dell'oggetto della domanda, e dell'onere accollato al convenuto dall'art. 416 dello stesso codice, con riferimento alla proposizione delle domande riconvenzionali, non è sanata dall'accettazione del contraddittorio ed è rilevabile d'ufficio, con la possibilità della sua deduzione per la prima volta anche in sede di legittimità.

"Emendatio" e "mutatio libelli" nel sistema delle preclusioni
Preliminarmente, si deve distinguere tra l'attività di mutatio e di emendatio libelli.
Si ha mutatio libelli quando è proposta una domanda nuova, perché diversi sono i soggetti, la causa petendi o il petitum dell'azione. La mutatio è consentita - nel rispetto delle preclusioni previste - solo quando l'esigenza difensiva nasca dalle difese della controparte.
L' emendatio libelli consiste invece nella precisazione e modificazione delle domande, e si ha - secondo una giurisprudenza tralaticia - quando si incida sulla causa petendi, in modo tale che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto; oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo (ad esempio l'attore riduce il quantum della pretesa risarcitoria; oppure passa da una domanda di condanna a una domanda di accertamento), al fine di renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere in giudizio.
L'attività di precisazione e modificazione delle domande non sottostà ai rigorosi limiti previsti per le domande nuove. In particolare non si richiede che l'esigenza difensiva sia sorta in seguito al contraddittorio.
E' opportuno sin da ora precisare che, con riferimento ai diritti autoindividuati (come si vedrà meglio infra), l'allegazione di una diversa fattispecie costitutiva non comporta una inammissibile mutatio libelli, bensì tale attività è ammessa anche nel contesto dello ius poenitendi. Ciò in quanto nei diritti de quibus il bene giuridico che forma oggetto della domanda è individuabile nella sua essenza, indipendentemente dalla causa che ne determina la richiesta.
Diversamente, quando siano stati dedotti in giudizio diritti eteroindividuati, non è possibile - pena la violazione del divieto di mutatio libelli - allegare nuovi fatti costitutivi.
Il giudizio circa la novità o meno della domanda formulata dalla parte nel corso del giudizio è rimesso alla valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità, se esente da vizi logici ed errori giuridici.
Inoltre - secondo l'interpretazione prevalente - le preclusioni sono previste a tutela di un interesse generale, con la conseguenza che la loro violazione è rilevabile d'ufficio.
Si deve evidenziare come la dottrina prevalente non abbia mancato di sollevare critiche rispetto alle posizioni assunte dalla giurisprudenza. Si è in particolare affermato che «alla chiarezza delle formule generali, prima facie cristalline, che emergono dalle pronunce giurisprudenziali si contrappone una sostanziale oscurità dei criteri reali seguiti dai giudici nella decisione dei casi concreti» (Gamba).
Ciò in spregio alle esigenze di certezza del diritto e di economia processuale.
La Suprema Corte di Cassazione (Sez. VI civile, Ordinanza 22 dicembre 2020, n. 29275) ha chiarito che nella modificazione della domanda ammessa ex articolo 183 del codice di rito civile, , che può riguardare anche uno od entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), è compresa la proposizione di una domanda diversa in via subordinata ed alternativa, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, senza che, per ciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Nel caso di specie, relativo ad una controversia insorta a seguito dello scioglimento della comunione legale, il giudice di legittimità ha ritenuto infondato il motivo di doglianza formulato dal ricorrente, coniuge separato, essendo manifesta l'inerenza, alla comune vicenda sostanziale, di entrambe le domande proposte da controparte: l'una, in via principale, volta ad ottenere una quota paritaria dell'incremento di valore degli immobili e dell'impresa di trasporti; l'altra, introdotta in via subordinata nella memoria ex articolo 183 cod. proc. civ., diretta ad ottenere il riconoscimento della metà delle spese di ristrutturazione e miglioramento degli immobili e di costituzione della predetta impresa. Tra i riferimenti giurisprudenziali inerenti si veda Cassazione, sezione civile III, ordinanza 14 febbraio 2019, n. 4322; Cassazione, sezione civile VI, ordinanza 25 maggio 2018, n. 13091; Cassazione, sezione civile II, ordinanza 28 novembre 2017, n. 28385; Cassazione, sezione civile I, ordinanza 22 dicembre 2016, n. 26782.

Nuove domande derivanti dal contraddittorio
Dal lato del convenuto, le preclusioni che scattano con la comparsa di risposta tempestivamente depositata sono le seguenti: la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio; le domande riconvenzionali; la chiamata in causa di terzo.
A sua volta l'attore, nell'udienza ex art. 183 c.p.c., (prima comparizione e trattazione), deve proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, nonché (se vi ha interesse) chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto (art. 183, comma 5: "Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate").
Ancora, l'attore può compiere ulteriori allegazioni di fatti, sia quando queste sono la replica alle difese del convenuto, nonché quando derivino dai rilievi officiosi del giudice (ex art. 183, comma 4). Ciò non solo con riferimento alle eccezioni del convenuto (ad esempio, a fronte di una eccezione di prescrizione, l'attore può allegare un fatto interruttivo della stessa), ma anche alla fattispecie costitutiva del diritto azionato dall'attore (così se l'attore ha agito in rivendica allegando come causa petendi una successione ereditaria, egli potrà allegare un'altra causa petendi, quale ad esempio l'usucapione).
Ecco che viene in rilievo un primo gruppo di novità ammissibili, e cioè quelle derivanti dal contraddittorio.
Si tratta di una ipotesi derogatoria, che non può non essere prevista - pena la violazione dell'art. 24 Cost. - anche dal sistema che più rigidamente applica le preclusioni (Luiso).
Va da sé che le facoltà - espressamente riconosciute all'attore dall'art. 183, comma 5 - valgono anche per il convenuto, in ossequio al principio della parità delle armi. Ne discende che alle novità introdotte dall'attore nell'udienza di trattazione ex art. 183, il convenuto potrà replicare con nuove domande, chiamate in causa di terzi, nonché nuove eccezioni in senso stretto.

Nuove difese derivanti dallo "ius poenitendi"
Una seconda tipologia di novità consentite è quella che rientra nel c.d. ius poenitendi. Qui le esigenze difensive non sorgono dallo svolgimento della dialettica processuale: si tratta, in altri termini, di nova che non derivano causalmente dalle difese della controparte o dai rilievi officiosi.
Ex art. 183, comma 5, ultimo periodo, le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. Come si vede, le facoltà derivanti dall'esercizio dello ius poenitendi sono piuttosto limitate.
Anzitutto, lo ius poenitendi non consente di introdurre nuove domande o eccezioni in senso stretto.
Quanto alla precisazione delle domande, essa si ha allorché la parte esplicita quanto già contenuto nelle sue difese precedenti, e consiste essenzialmente nell'allegazione dei c.d. fatti secondari (Luiso).
Ad esempio chiesto l'annullamento del contratto per dolo, costituisce precisazione ogni elemento relativo all'artificio o raggiro che abbia inciso sul consenso, viziandolo.
Si ha invece modificazione quando sono allegati in giudizio nuovi fatti storici principali, cioè nuovi e diversi elementi (costitutivi) della fattispecie del diritto fatto valere (Luiso).
Si deve distinguere tra modificazione consentita e non consentita. Infatti l'allegazione di nuovi fatti storici principali è ammessa solo a condizione che non muti la situazione sostanziale dedotta in giudizio (viene qui in rilievo la fondamentale distinzione tra diritti auto ed eteroindividuati, cui si è già in parte fatto cenno e per la quale si rinvia infra).

La cd. appendice di trattazione scritta
Il sesto comma dell'art. 183 disciplina la c.d. appendice di trattazione scritta, prevedendo che il giudice, su richiesta delle parti, concede i seguenti termini perentori (30 giorni + 30 + 20 rispettivamente):
1) per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;
2) per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali;
3) per le sole indicazioni di prova contraria.
L'istanza al giudice per la fissazione di tali termini deve essere avanzata entro la conclusione della prima udienza.
La memoria che pone più problemi interpretativi è la prima. Ci si chiede in particolare se il suo contenuto corrisponda o meno a quanto previsto dall'art. 183, comma 5; se cioè la parte - pur in assenza di una espressa previsione - possa proporre domande nuove o nuove eccezioni in senso stretto derivanti dal contraddittorio.
Una prima interpretazione, facendo leva su un criterio letterale, nega tale facoltà. Si afferma che le attività che la parte può svolgere nella prima memoria ex art. 183, comma 4, sono ridotte rispetto a quelle di cui all'udienza di trattazione, essendo possibile solo la precisazione e modificazione di domande ed eccezioni già proposte.
Una seconda e preferibile tesi afferma, al contrario, che l'espressione impiegata dal Legislatore nel n. 1 del comma 4 rivesta una funzione meramente esemplificativa. In altri termini, si ritiene che lex minus dixit quam voluit, con la conseguenza che nella memoria de qua possono aver luogo tutte le difese contemplate dall'art. 183, comma 5 (e in particolare la proposizione nuove domande o eccezioni in stretto derivanti dal contraddittorio).
Nuove domande non derivanti dal contraddittorio legalmente ammesse
Vi sono ipotesi eccezionali - e dunque di stretta interpretazione - nelle quali l'ordinamento consente alla parte di introdurre nel processo domande nuove, senza alcun nesso causale con le difese della controparte.
L'ipotesi più rilevante è quella prevista dall'art. 1453, comma 2, c.c., alla stregua del quale la risoluzione per inadempimento può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento.
Secondo la giurisprudenza tale facoltà va riconosciuta all'attore anche in appello e anche in sede di rinvio, purché però non vi sia modificazione della causa petendi.
Non è invece consentito all'attore, che abbia agito per la risoluzione, introdurre in corso di causa una nuova domanda di adempimento. La regola è posta nell'interesse dell'inadempiente, il quale, convenuto in risoluzione, pone il suo affidamento nello scioglimento del contratto, e quindi si predispone alla restituzione della prestazione ricevuta, e non al proprio adempimento.
La Corte di Cassazione (Sez. VI-3 Civile, Ordinanza 23 marzo 2022, n. 9441), ha chiarito che il convenuto che intenda formulare una domanda nei confronti di ulteriore convenuto non ha l'onere di richiedere il differimento dell'udienza ai sensi dell'articolo 269 c.p.c., bensì è sufficiente che formuli la suddetta domanda nei termini e con le forme stabiliti per la domanda riconvenzionale dall'articolo 167, c. II, c.p.c. Nel caso di specie, relativo ad una controversia insorta in materia di responsabilità medico-sanitaria, la Suprema Corte, enunciando il principio di diritto, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata avendo la corte d'appello reputato "inammissibile" la domanda di garanzia formulata dal ricorrente nei confronti della compagnia di assicurazioni dell'azienda sanitaria sul presupposto che lo stesso non avesse operato la chiamata in causa nelle forme e nei termini di cui all'articolo 269 c.p.c. (si veda anche Cassazione, sezione civile II, sentenza 16 marzo 2017, n. 6846).

Gli orientamenti giurisprudenziali
La casistica giurisprudenziale in tema di precisazione e modificazione della domanda è amplissima.
Si pone dunque la necessità di selezionare alcune fattispecie che per la loro rilevanza e attualità meritano un approfondimento.
Verranno di seguito analizzati i rapporti, da un lato, tra la domanda di adempimento contrattuale e quella di arricchimento senza causa; dall'altro tra l'azione di risoluzione del contratto (con risarcimento del danno) e l'esercizio del diritto di recesso fondato sulla caparra confirmatoria (con ritenzione della caparra stessa).

Adempimento del contratto e arricchimento senza causa
Una problematica che tradizionalmente ha visto la giurisprudenza e la dottrina dividersi è quella della relazione tra le azioni di adempimento del contratto e di arricchimento senza causa. Il contrasto che ne è derivato ha richiesto l'intervento della Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole.
La questione posta all'attenzione delle Sezioni Unite (22 maggio 1996, n. 4712) è la seguente: se la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa, proposta nel corso di un giudizio iniziato con una domanda di adempimento contrattuale, configuri o meno una domanda nuova.
Alla stregua di un orientamento più risalente - che si è formato con riguardo alla proposizione della domanda ex art. 2041 per la prima volta in appello, ma estensibile all'ipotesi di proposizione di tale domanda nel corso del giudizio di primo grado - è escluso il carattere di novità. Si ritiene infatti che la domanda predetta sia formulata in base alle medesime circostanze di fatto già utilizzate nella originaria editio actionis.
La giurisprudenza più recente vede invece prevalere una ricostruzione opposta. Si rileva, in particolare, la diversità sia della causa petendi (stante l'allegazione di un vincolo contrattuale, che invece è assente nell'azione ex art. 2041) che del petitum (giacché l'azione contrattuale ha a oggetto il pagamento di un corrispettivo pattuito, laddove quella ex art. 2041 mira al conseguimento di un indennizzo equivalente alla diminuzione patrimoniale subita).
Le Sezioni Unite del 1996 hanno composto il contrasto aderendo alla seconda delle interpretazioni richiamate. Oltre agli argomenti individuati, si aggiunge che l'attore, sostituendo alla originaria domanda di adempimento contrattuale quella di arricchimento, non solo chiede un bene giuridico diverso (indennizzo) rispetto al pagamento del corrispettivo pattuito, così modificando il petitum della domanda originaria, ma altresì introduce nel processo gli elementi costitutivi propri della nuova situazione giuridica (impoverimento dell'attore e arricchimento del convenuto), che erano privi di rilevanza nel rapporto contrattuale.

Diritti autoindividuati e diritti eteroindividuati
La sentenza in commento fornisce l'occasione per introdurre la distinzione, che assume centrale rilevanza nella tematica in esame, tra diritti c.d. autoindividuati e diritti c.d. eteroindividuati.
Con la prima categoria (diritti autoindividuati) si fa riferimento a quelle situazioni soggettive attive, aventi consistenza di diritto soggettivo, nelle quali il bene giuridico che forma oggetto della domanda è individuabile nella sua essenza, indipendentemente dalla causa che ne determina la richiesta. In altri termini, si tratta di diritti (quale ad esempio il diritto di proprietà) che non possono coesistere simultaneamente più volte fra i medesimi soggetti.
Nei diritti eteroindividuati, diversamente, il bene richiesto acquista determinatezza solo mediante il collegamento con la causa allegata a sostegno della pretesa. Infatti vengono qui in rilievo diritti (tipicamente di credito) che possono in ipotesi esistere contemporaneamente più volte tra i medesimi soggetti e nel medesimo contenuto, sicché essi richiedono, quale indispensabile elemento di individuazione, l'allegazione dei fatti costitutivi sui quali essi asseritamente si fondano.
La ricaduta pratica della distinzione appena delineata è la seguente.
Con riferimento ai diritti autoindividuati dottrina e giurisprudenza concordano nel riconoscere la possibilità per l'attore di allegare fattispecie acquisitive diverse, da quelle indicate nella citazione.
Così, ad esempio, a seguito di una domanda di accertamento del diritto di proprietà fondata su un contratto di vendita, non sarà precluso all'attore allegare un titolo di acquisto diverso, quale l'usucapione.
Ciò in quanto le preclusioni che maturano con l'atto di citazione riguardano esclusivamente l'individuazione dell'oggetto del processo; e se l'oggetto del processo non è modificato con l'allegazione di una fattispecie acquisitiva diversa (come accade nei diritti autoindividuati), queste non scattano (Luiso).
Al contrario, nei diritti eteroindividuati l'allegazione di nuovi fatti in tanto è consentita in quanto non comporti una modifica del diritto azionato in giudizio.
Ed è proprio ciò che accade, affermano le Sezioni Unite, nel caso di domanda di adempimento contrattuale cui segua quella di indebito arricchimento, poiché i fatti costitutivi che le individuano divergono sensibilmente e identificano due distinte entità, nessuna delle quali può dirsi potenzialmente contenente l'altra.
In altri termini, entrambe le domande riguardano diritti eteroindividuati.
Arricchimento senza causa in sede di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo
Altra questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite (27 dicembre 2010, n. 26128) concerne i limiti di proponibilità, da parte dell'opposto, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, di una domanda di ingiustificato arricchimento quale domanda riconvenzionale, in considerazione della sua posizione sostanziale di attore.
Anche in questa vicenda ci si è chiesti se la proposizione della domanda di arricchimento senza causa configuri una mutatio libelli e dunque debba ritenersi inammissibile - in quanto domanda nuova - ai sensi degli artt. 183 e 345 c.p.c.
Ora, osservano le Sezioni Unite, se nell'ordinario giudizio di cognizione all'attore è consentito di proporre, nell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., quelle domande ed eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, perché questa rappresenta il primo atto difensivo utile, in quanto temporalmente successivo a quello che ne determina la proponibilità, diversamente, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il limite temporale preclusivo alla proponibilità della domanda di arricchimento senza causa deve farsi risalire alla comparsa di costituzione e risposta dell'opposto – equivalente alla comparsa di risposta del convenuto ai sensi dell'art. 167 c.p.c., nell'ordinario giudizio di cognizione.
In conclusione la Corte di Cassazione statuisce, conformemente al precedente arresto del 1996, che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa integra - rispetto a quella di adempimento contrattuale - una domanda diversa, con la conseguenza che la sua proposizione è consentita soltanto se tale esigenza nasce dalle difese dell'ingiunto/opponente contenute nell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo, e purché la relativa domanda sia proposta - a pena di inammissibilità rilevabile d'ufficio - nella comparsa di costituzione e risposta della parte opposta.
La Corte d'Appello di Milano (Sez. I Civile, 8 aprile 2016, n. 1502) ha precisato che, secondo la Corte di legittimità (Cass., n. 14646/2009) nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, emesso per il pagamento di somme a titolo di corrispettivo di forniture in favore di un ente pubblico territoriale, la proposizione da parte dell'opposto dell'azione di arricchimento senza causa, in via subordinata rispetto alla domanda principale, al fine di contrastare le eccezioni dell'opponente, senza immutazione o alterazione del fatto costitutivo del diritto dedotto in giudizio, non costituisce mutatio libelli, ma semplice emendatio, sicché non viola il divieto di domande nuove, previsto dagli artt. 183 e 184 c.p.c.
Recesso e caparra confirmatoria, risoluzione e risarcimento del danno
Un'ulteriore questione che ha visto la giurisprudenza dividersi al punto da richiedere l'intervento delle Sezioni Unite (sentenza 14 gennaio 2009, n. 553) ha avuto riguardo al rapporto tra l'azione di risoluzione per inadempimento del contratto (con risarcimento del danno) e l'esercizio del diritto di recesso fondato sulla caparra confirmatoria (con ritenzione della caparra stessa).
La questione sulla quale si era formato il contrasto era la seguente: se la parte che abbia agito per la risoluzione del contratto e per il risarcimento integrale del danno possa in appello modificare la domanda ed esercitare il diritto di recesso con ritenzione della caparra confirmatoria.
La soluzione adottata è anche qui restrittiva.
A fronte dell'orientamento recessivo che riconosceva il recesso come facoltà perdurante - e qualificava la relativa domanda come mera istanza ridotta - le Sezioni Unite affermano invece una assoluta incompatibilità strutturale e funzionale tra le due domande (risoluzione e recesso).
Si afferma che riconoscere al creditore la possibilità di modificare la propria pretesa significherebbe accordargli un ingiustificato favor, che si risolverebbe «nella indiscriminata e gratuita opportunità di modificare, per ragioni di mera convenienza economica, la strategia processuale iniziale dopo averne sperimentato gli esiti, trasformando il processo in una sorta di gioco d'azzardo "a rilancio senza rischio"».
La soluzione fornita - sottolineano le Sezioni Unite - consente, «in armonia con il nuovo dettato dell'art. 111 Cost. [...], di evitare rilevanti diseconomie processuali».
Successivamente, il Tribunale di Milano (Sez. IV Civile, 12 dicembre 2012, n. 13856) ha argomentato che il mutamento da una domanda di risoluzione per inadempimento contrattuale ad una domanda di accertamento della legittimità del recesso, costituisce una mutatio libelli e non già una mera emendatio libelli. Secondo il giudice meneghino, se il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione, giudiziale o di diritto, ed il risarcimento del danno, costituisce di certo domanda nuova, inammissibile in sede di appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra. Ciò non solo per la disomogeneità intercorrente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso e per l'irrinunciabilità dell'effetto conseguente alla risoluzione di diritto, ma anche per l'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento. Ed infatti, la funzione della caparra, volta a scongiurare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe frustata se alla parte che abbia scelto di affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più rilevante fosse consentito, in spregio al principio del giusto processo che vieta qualsiasi forma di abuso processuale, di modificare la propria linea difensiva allorché si accorga che i risultati non corrispondono alle sue previsioni. Orbene, nel caso di specie, gli attori, nei rispettivi libelli introduttivi, hanno chiesto la risoluzione ai sensi dell'art. 1453 c.c. dei contratti preliminari oggetto di controversia per inadempimento della parte convenuta, con conseguente condanna della stessa al risarcimento dei danni patiti, per poi chiedere, tanto nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 1) c.p.c. quanto in sede di precisazione delle conclusioni, che fosse dichiarata la legittimità del recesso da loro effettuato dai contratti preliminari in parola. Di talché, alla luce di quanto innanzi esplicato, tale modifica si è tradotta in un'inammissibile mutatio libelli, trattandosi di domanda nuova, strutturalmente diversa da quella proposta originariamente con l'atto di citazione e, pertanto, non valutabile.

Gli orientamenti della dottrina

Come si è già accennato supra, la dottrina prevalente è critica nei confronti delle applicazioni giurisprudenziali.
Si è di recente affermato che «Le singole decisioni sono spesso completamente contraddittorie, in quanto propongono soluzione, ora in un senso ora nel senso opposto, per casi identici sulla base dell'asserita applicazione dei medesimi principi» (Gamba e, similmente, Cerino Canova).
La principale critica che viene mossa alla giurisprudenza - sulla base dell'orientamento paradigmatico, già commentato, in tema di azione di arricchimento senza causa - è quella di creare degli schemi eccessivamente rigidi, con il conseguente ampliamento dell'area applicativa della mutatio, e - per converso - le ridotta operatività della modificazione.
Si osserva che «i limiti chiusi e ristretti entro i quali la domanda può essere modificata conducono frequentemente alla scelta di soluzioni improntate a un livello di formalismo ovvero all'adozione di decisioni che non permettono una corretta e completa emersione del conflitto nel processo: la domanda, in questi casi, "non ottiene risposta"» (Gamba).
L'eccessivo rigore degli orientamenti giurisprudenziali, inoltre, è di dubbia conformità rispetto al principio di economia processuale, dal momento che costringe le parti a instaurare più giudizi per l'incompleto utilizzo del processo già avviato.
Le interpretazioni giurisprudenziali prevalenti in tema di rapporti tra mutatio ed emendatio libelli hanno dunque privato l'istituto della modificazione della domanda di molte potenzialità, sicché si propone di valorizzare la correlazione tra l'attività delle parti e quella del giudice «attribuendo alla modificazione della domanda un ruolo che tenga conto dei poteri di direzione materiale che al giudice sono attribuiti nonché della collaborazione che dovrebbe intervenire tra i soggetti del processo in funzione di un corretto funzionamento dello strumento processuale» (Gamba).

Il principio della "non" mutatio libelli
Uno dei principi cardine, e più duraturi nel tempo, inerenti il processo civile, e nonostante le incessanti modifiche normative, è appunto il divieto di mutatio libelli, ovvero l'impossibilità per una delle parti del giudizio di modificare in modo sostanziale la propria domanda e, più di tutto, di inserire domande nuove in aggiunta a quelle già proposte. Ciò nonostante non ogni singola modifica delle difese prodotta dalle parti del giudizio incorre nella proibizione ed è piuttosto ammissibile, nell'ambito del contraddittorio, purché sia circoscritta nel confine della così denominata emendatio libelli. Conformemente alla tradizione giuridica si ha emendatio libelli nelle ipotesi ove la modificazione della domanda introduttiva non incide sulla causa petendi, bensì solamente sulla interpretazione e qualificazione giuridica del fatto costitutivo, e neppure sul petitum, se non nel senso di meglio qualificarlo per renderlo più idoneo alla soddisfazione della pretesa fatta valere. Diversamente, si ha mutatio libelli, nei casi ove la pretesa risulta obiettivamente differente da quella originaria in quanto si è introdotto nel giudizio un petitum dissimile e maggiormente ampio, ovvero una causa petendi basata su situazioni giuridiche non prospettate in precedenza ed, in particolare, su un fatto costitutivo differente. Le Sezioni unite, mediante una rigorosa analisi esegetica dell'art. 183 c.p.c, sono arrivate a definire le domande modificate ammesse: principiando dal dato normativo è stato evidenziato come l'art. 183 c.p.c. non contiene un esplicito divieto di domande nuove, in modo diverso dall'art. 345 c.p.c., bensì individua tre distinte tipologie di domande in rapporto alla domanda originaria:
a) le domande "nuove". La norma ammette domande nuove solo in caso di reconventiones reconventionis ossia quelle nuove domande occasionate dalle eccezioni del convenuto;
b) le domande "precisate". Sono le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni nei loro elementi identificativi bensì mere precisazioni, pertanto interventi che non incidono sulla sostanza della domanda tuttavia servono solamente a definirla, puntualizzarla, circostanziarla e chiarirla;
c) le domande "modificate". L'art. 183 del codice di rito civile, pur prevedendole, nulla specifica sullo spessore della modificazione consentita e, al contempo, neppure fa esplicito divieto alla modificabilità di uno degli elementi oggettivi di identificazione della domanda.
Si evidenzia, oltre al resto, che, se la lettera della legge si esprime con precisazione e modificazione, risulta evidente che una differenza c'è. Le Sezioni unite sono giunte e concludere che le domande modificate non possono essere considerate "nuove", nel senso di ulteriori ed aggiuntive, trattandosi pur sempre delle medesime domande iniziali modificate ovvero, di domande diverse che nondimeno non si aggiungono a quelle iniziali bensì le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in rapporto di alternatività.
Infine, per quanto afferisce al gravame (Corte d'Appello Salerno Civ., Sez. II, 17 settembre 2020, n. 1022) si è chiarito che la mutatio libelli e, dunque, l'inosservanza del divieto dello ius novorum si configurano quando sia avanzata una pretesa obiettivamente eterogenea rispetto a quella originaria, mediante l'introduzione nel giudizio di un petitum diverso e più ampio oppure di una causa petendi incentrata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado e, segnatamente, su fatti costitutivi ontologicamente differenti, con la conseguenza di porre un nuovo thema decidendum e di alterare i termini della controversia, ledendo il principio del contraddittorio ed il regolare andamento del processo. Si ha, di contro, semplice emendatio libelli quando si incida sulla causa petendi in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto oppure sul petitum, nel senso di precisarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.

Considerazioni conclusive
Il tema della precisazione e modificazione della domanda - e quello connesso dei rapporti tra a oggi giunto a una sistematizzazione definitiva, come è evidente dal contrasto che sussiste tra giurisprudenza e dottrina.
Principalmente, due sono le critiche avanzate dalla dottrina. Anzitutto si rileva che, al fine di distinguere tra emendatio e mutatio, la giurisprudenza adotta in concreto - a dispetto della chiarezza dei principi formulati - i criteri più vari, in spregio alle istanze di certezza del diritto.
Un secondo profilo critico è il rischio di violare il principio di economia processuale. Infatti le interpretazioni eccessivamente formaliste e rigoriste della giurisprudenza comportano per la parte l'onere di avviare più giudizi a fronte di una vicenda sostanziale in definitiva unica (emblematico è l'orientamento in tema di arricchimento senza causa).
Per superare l'impasse evidenziato la dottrina propone un'accezione più ampia di emendatio libelli, valorizzando i poteri di direzione del giudice e l'obbligo di collaborazione tra le parti.
La Corte di Cassazione (Sez. II Civ., Ordinanza 2 agosto 2019, n. 20870) ha distinto i due istituti in esame, chiarendo che si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte e alterare il regolare svolgimento del processo. Si ha, al contrario, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.