Penale

Omicidio colposo per la cura omeopatica prescritta come terapia contro il melanoma

La responsabilità è sia del medico curante sia del collega chiamato a consulto in cui visita la paziente e accede agli esami clinici svolti

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di Paola Rossi

L'omeopata che per anni sconsiglia a un proprio paziente affetto da melanoma di asportare il neo canceroso o di effettuare cure tradizionali e innovative risponde di omicidio colposo per la morte dovuta al cancro curato con una sconsiderata - a tutti i livelli della scienza - terapia denominata Hahnemanniana (di creazione tedesca).

La cooperazione colposa
In particolare, la Cassazione con la sentenza n. 5117/2022, respinge il ricorso dell'omeopata che non aveva in cura diretta la paziente, ma che stabilmente cooperava con il medico curante anche lui omeopata direttamente responsabile della fallimentare linea terapeutica scelta. La ricorrente affermava di non aver mai rivestito la posizione di garanzia che è sempre in capo al medico curante. Ma l'avallo dato al palese errore di un collega costituisce una violazione dei doveri professionali per il medico che non eserciti il proprio potere impeditivo a fronte di quella che è una denegata cura. L'omissione o il sostegno esplicito a non procedere all'asportazione di un tumore costituiscono il nesso causale tra la morte del paziente e la condotta del medico chiamato a consulto.

Il nesso causale
Dice la Cassazione che - al di là di chi sia il titolare della relazione terapeutica con il paziente - un medico interpellato sulla cura e informato in prima persona dei risultati delle analisi cliniche riveste comunque una posizione di garanzia verso la persona malata. Specialmente nell'ambito di un consulto in cui è stato chiamato per esplicitare un parere professionale. La cooperazione colposa nella morte della paziente quindi dipende dalla possibilità non esercitata dal collega invitato a cooperare sulla linea terapeutica e che a seguito di esame diretto sulla persona ammalata non impedisce l'evento letale.

La vicenda
L'aspetto che più fa trasalire nella lettura della vicenda processuale è la conferma data dalla ricorrente alla tesi della collega nonché sua allieva di impedire il ricorso all'intervento chirurgico di asportazione in quanto andava atteso l'evento dell'espulsione naturale del tumore dal corpo della paziente . Nessuna chemioterapia nell'attesa, ma solo la cura omeopatica proposta. Un percorso concepito in assenza di trattamenti farmacologici collaudati e di applicazione di nuove terapie biomelocolari.
Il caso deciso propone uno scenario che si può definire incomprensibile se non si guarda alla cieca fiducia della paziente nelle cure omeopatiche e alla sua adesione nella svalutazione di quelle allopatiche. Soprattutto spicca la lunga durata di tale vicenda: a fronte di una diagnosi del 2005 di sospetta malignità di un nevo le due colleghe "cooperanti" nell'attività di studio e una allieva dell'altra scelgono di prediligere esclusivamente la nuova medicina germanica di Hamer. E anche dopo la conclamata diagnosi di melanoma.
Col risultato che nell'arco del 2014 da un'accertata positività dei linfonodi la paziente – nonostante un tardivo intervento di chirurgia - perdeva la vita pochi mesi dopo a seguito delle innumerevoli metastasi determinatesi dalla stadiazione del male.

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