Patti di non concorrenza, una norma troppo generica e applicazioni non univoche rischiano di falsare la competizione tra lavoratori
La norma che regola i patti di non concorrenza in Italia disegna maglie piuttosto ampie rispetto alle quali i punti di riferimento sono sempre meno e sempre più contraddittori
Con una decisione dello scorso aprile, la Federal Trade Commission ha di fatto vietato negli USA, con poche eccezioni, i patti di non concorrenza tra lavoratori e aziende.
Secondo la Federal Trade Commission, questi patti ostacolano la carriera dei lavoratori e lo sviluppo dalla conoscenza. La decisione doveva entrare in vigore il 4 settembre 2024 ma a seguito di una decisione di una Corte distrettuale del Texas, secondo cui la Federal Trade Commission non avrebbe autorità per vietare i patti di non concorrenza tra dipendenti e aziende, l’efficacia della decisione è di fatto rimessa ai singoli Stati. Ad esempio, a differenza della corte Texana, la corte distrettuale orientale della Pennsylvania ha respinto la richiesta di un datore di lavoro per un’ingiunzione per il rispetto di un patto di non concorrenza affermando che il divieto stabilito dalla Federal Trade Commission rientra nelle prerogative dell’Autority a promuovere una concorrenza leale.
La questione è quindi ancora aperta ma in ogni caso una decisione così forte come quella della Federal Trade Commission stimola una riflessione anche sulla situazione in Italia:
i patti di non concorrenza dei lavoratori generano da noi le stesse problematiche evidenziate dall’Agenzia governativa statunitense? Una soluzione così radicale come quella adottata negli USA può avere senso anche nel nostro ordinamento?
Per rispondere a queste domande partiamo da una considerazione. I patti di non concorrenza hanno la funzione di individuare il punto di equilibrio tra due diritti: da un lato, il diritto delle aziende a proteggere gli investimenti in formazione del personale e sviluppo tecnologico; dall’altro il diritto dei lavoratori a non subire limitazioni eccessive alle possibilità di carriera. Detto questo, il problema è come regolare i patti di non concorrenza di modo che non siano inutili per le aziende, né eccessivamente penalizzanti per i lavoratori.
In Italia la norma di riferimento è l’art. 2125 c.c. che impone, a pena di nullità, la forma scritta, l’individuazione di limiti di oggetto e territorio e un corrispettivo oltre a una durata limitata (massimo 3 anni, 5 per i dirigenti). La norma non fornisce indicazioni specifiche su quanto possa essere limitato l’oggetto, quanto ampio il territorio, a quanto debba ammontare il corrispettivo o come e quando debba essere pagato.
Per ricavare questi elementi di dettaglio è necessario guardare alla giurisprudenza che tuttavia non ha fornito indicazioni univoche. Solo per fare qualche esempio, sui limiti di territorio, il Tribunale di Mantova ha ritenuto valido il patto di non concorrenza relativo a una specifica regione d’Italia che però poteva variare a seconda dell’area assegnata al dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro (Trib. Mantova, 6 ottobre 2023, n. 209). Lo stesso identico patto è stato invece ritenuto nullo dal Giudice di Venezia e dalla Corte di Cassazione (Corte d’Appello Venezia, 28 marzo 2024, n. 201; Cass. 19 aprile 2024, n. 10679).
È più corretta la decisione che ammette l’individuazione variabile del territorio o quella contraria? Se si guarda dalla prospettiva dell’azienda, è di poca utilità un patto di non concorrenza che non consenta questo meccanismo di aggiustamento: il lavoratore, specie se un venditore, è radicato sul territorio; se cambia il territorio è nel nuovo territorio che si sposta l’interesse a limitarne l’attività. Se si guarda dalla prospettiva del lavoratore, una variabile di questo tipo sbiadisce i confini dell’obbligo di non concorrenza rendendo difficile valutarne i reali effetti così come la congruità del corrispettivo pattuito.
Sempre sul territorio ci si chiede poi se, nell’odierno contesto tecnologico, il limite geografico debba intendersi in senso fisico (il lavoratore non può svolgere una determinata attività in un determinato territorio) o in senso economico (indipendentemente da dove il lavoratore svolge la prestazione, il risultato economico non deve prodursi in un determinato territorio). Su questo aspetto si è pronunciata di recente la Corte d’Appello di Bologna affermando che, quando si parla di patto di non concorrenza, “territorio” significa “mercato” sicché, se il territorio vincolato è, poniamo, l’Italia, un lavoratore non potrà lavorare all’estero per un concorrente se la sua attività produce effetti concorrenziali in Italia e viceversa: il lavoratore potrà cioè lavorare in Italia se si occupa di mercato estero (Corte d’Appello Bologna 24 ottobre 2023; n. 539). Questo approccio appare corretto in diritto ma rende in pratica piuttosto complicato dimostrare l’inadempimento del patto da parte del lavoratore.
In materia di corrispettivo, poi, si dibatte da anni sull’ammissibilità del corrispettivo del patto quantificato in una somma mensile che viene pagata durante il rapporto di lavoro, meccanismo che rende impossibile predeterminare l’importo complessivo poiché esso dipende della durata del rapporto (per l’ammissibilità, tra le tante cfr. Cass., 25 agosto 2021, n. 23418 e App. Bologna 20 maggio 2008; in senso contrario, tra le tante, cfr. Corte d’Appello di Milano, 29 marzo 2021, n. 1086 e Trib. Modena 23 maggio 2019).
In estrema sintesi, la norma che regola i patti di non concorrenza in Italia disegna maglie piuttosto ampie rispetto alle quali i punti di riferimento sono sempre meno e sempre più contraddittori.
Ci troviamo, di fatto, in un sistema in cui lo stesso patto può essere ritenuto nullo in un Tribunale e valido in un altro con la conseguenza che a parità di condizioni, un lavoratore potrà avere una progressione di carriera e l’altro no. Una simile distorsione genera un mercato in cui il problema non è tanto che i patti di non concorrenza comprimano le possibilità di carriera dei lavoratori ma che non lo fanno in maniera uguale.
La competizione tra lavoratori (e tra imprese per l’acquisizione dei talenti) rischia quindi di essere falsata da una norma probabilmente troppo generica con applicazioni concrete non univoche. In questo contesto, la soluzione adottata negli USA appare piuttosto drastica ma definisce un sistema più certo e affida il presidio della posizione di mercato delle aziende alla loro capacità di incentivare la stabilità del rapporto di lavoro più che al divieto post-contrattuale di competere.
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*A cura di Lorenzo Cairo – partner di PedersoliGattai
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