Piena parità di trattamento per i frontalieri rispetto ai lavoratori residenti
Di fatto il criterio della residenza costituisce una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza se comporta l’esclusione da alcuni diritti riconosciuti invece ai cittadini dello Stato membro ospitante
Il lavoratore frontaliero non può subire un trattamento deteriore rispetto a un lavoratore residente. Va affermato, quindi, il diritto dei frontalieri a non essere discriminati. La parità di trattamento deve garantire il godimento degli stessi vantaggi sociali riconosciuti ai lavoratori residenti. Questo afferma la sentenza della Cgue sulla causa C-27/23.
Il caso a quo
La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di giustizia dell’Unione europea riguarda un cittadino residente in Belgio, ma che lavora in Lussemburgo. Dal suo status di lavoratore frontaliero ne è derivato che egli percepisse gli assegni familiari in base al regime lussemburghese per il minore in affidamento presso il suo nucleo familiare.
Nel 2017, però, la Cassa per il futuro dei bambini di Lussemburgo gli ha revocato gli assegni familiari. Tale organismo ritiene infatti che il versamento degli assegni familiari sia limitato ai minori aventi un legame di filiazione diretto (legittimo, naturale o adottivo) con il lavoratore frontaliero. Per contro, i minori residenti in Lussemburgo e oggetto di affidamento giudiziario hanno il diritto di percepire tale assegno, versato alla persona fisica o giuridica che ne ha la custodia. Tale applicazione della legge ha fatto sorgere la questione della lamentata discriminazione da cui è poi originato il rinvio pregiudiziale alla Cgue.
La Corte di cassazione lussemburghese ha perciò chiesto ai giudici comunitari se l’applicazione di condizioni di attribuzione diverse a seconda che il lavoratore sia residente o meno configurino una discriminazione indiretta.
La risposta della Cgue
Nella sua sentenza, la Corte ricorda che i lavoratori frontalieri contribuiscono al finanziamento delle politiche sociali dello Stato membro ospitante con i contributi fiscali e sociali che versano in tale Stato per l’attività subordinata che vi esercitano. A tale titolo, essi devono poter beneficiare delle prestazioni familiari e dei vantaggi sociali e fiscali alle stesse condizioni dei lavoratori nazionali.
Per la Corte Ue una normativa come quella sotto giudizio comporta una differenza di trattamento illegittima rispetto al diritto dell’Unione europea.
Il principio affermato
Scatta un’illegittima discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza se una normativa nazionale prevede che i lavoratori non residenti non possano - a differenza di quelli residenti - percepire un vantaggio sociale per i minori collocati in affidamento giudiziario presso il proprio nucleo familiare con domicilio legale e residenza effettiva e continuativa. La circostanza che la decisione di collocamento in affidamento provenga da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro diverso da quello ospitante del lavoratore interessato non ha alcuna incidenza sulla questione.