Pornografia non consensuale, quando ad essere abusivamente diffuse sono le immagini caricate dai creators di Only Fans
Tra pirateria e revenge porn: nuove frontiere applicative dell’art. 612-ter c.p.
La rivoluzione tecnologica che ha investito l’occidente negli ultimi anni ha determinato profondi mutamenti nel tessuto sociale e relazionale, che hanno radicalmente trasformato i concetti di individuo, comunità, libertà ed emancipazione. In proposito, i sociologi hanno parlato di una “modernità liquida”, che consegue all’ineluttabile cambiamento della moralità collettiva. In un tale spaccato di realtà, tuttavia, a rimanere immutati sono i più bassi e primordiali istinti di violenza e sopraffazione, propri di una certa umanità, che nel solco dell’inedito spazio virtuale che è internet, hanno finito per trovare nuovo sfogo. Nel potente arsenale dei moderni violenti rientra anche il fenomeno del c.d. “revenge porn” ossia la divulgazione non consensuale di immagini o video intimi altrui, fenomeno oggi sanzionato dall’art, 612-ter c.p.
Il presente contributo mira ad analizzare l’efficacia della fattispecie de qua nei casi meno canonici di pornografia non consensuale, in cui i protagonisti della vicenda non sono ex amanti e l’azione del c.d. “diffusore” non è animata da alcun fine di vendetta. Nello specifico questa analisi esaminerà l’efficacia applicativa della fattispecie incriminatrice nell’ipotesi di diffusione non consensuale di materiale “intimo” creato a scopo di lucro.
Il caso
Siamo nel maggio del 2023 quando Tizia, nota influencer che da poco è sbarcata sulla piattaforma Only Fans, denuncia in un video pubblicato sui social network di essere stata vittima di revenge porn. Nella sezione commenti del suo post gli utenti insorgono in massa contro di lei: alcuni le scrivono in lettere maiuscole di vergognarsi, altri affermano che non può paragonarsi ad una “vera vittima” di revenge porn, altri ancora la insultano ferocemente; qualcuno, in maniera più sommessa, la corregge spiegando che quanto da lei subito si qualifica come “pirateria” e non già come abuso sessuale per immagini .
Il motivo della rabbia popolare è semplice quanto intuitivo, Only Fans, il sito su cui Tizia lavora come creator è una piattaforma creata allo scopo di permettere agli ammiratori di una persona nota di interagire direttamente con lei ed acquistare contenuti “esclusivi” che la ritraggono. Sebbene tale piattaforma non sia stata creata allo scopo di diventare un bazar della pornografia, in poco tempo l’assenza di censura da parte dei gestori sui contenuti prodotti dagli utenti l’ha resa nota per essere luogo di ritrovo virtuale per vendere ed acquistare fotografie e video a contenuto sessualmente esplicito, che si differenziano dalla tradizionale pornografia proprio per il loro carattere di personalizzazione. Tramite Only Fans quelli che un tempo avremmo chiamato vip forniscono ai loro fans la possibilità di accedere a materiale intimo esclusivo ed addirittura commissionarne la realizzazione dietro pagamento, superando l’obsoleta pratica dei calendari da appendere nelle officine ed offrendo anche un servizio in più: l’illusione di un’interazione personale con l’oggetto del desiderio sessuale.
Tizia, ad ogni modo, continua a ritenersi una vittima di revenge porn e risponde ai commentatori dicendo di essersi confrontata con i suoi legali che le avrebbero consigliato di sporgere querela proprio per il delitto di cui all’art. 612-ter c.p. rubricato “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”.
Per parte del pubblico social, a questo punto, la questione è conclusa; altri invece si mostrano meno inclini ad accogliere questa ricostruzione e ribattono che per avere la certezza della effettiva qualificazione del fatto è indispensabile che sulla questione si esprima un tribunale. Il dubbio allora rimane:
l’illecita diffusione delle immagini intime di Tizia integra la fattispecie ex art. 612-ter c.p. o è riconducibile alla cosiddetta pirateria?
Per dare una risposta a questa domanda sarà prima necessario analizzare la struttura del delitto di diffusione illecita di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, chiarire poi nello specifico il funzionamento della piattaforma di Only Fans ed infine analizzare gli approdi cui è giunta la giurisprudenza in casi analoghi.
L’art. 612-ter c.p. ed il revenge porn “di scuola”
Come noto, a seguito di un lungo dibattito parlamentare, l’art. 10 della legge 19 luglio 2019 n. 69 ha introdotto nel Codice penale il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti .
La collocazione sistematica del reato nella Sezione III del Titolo XII, dedicata ai delitti contro la libertà morale, non è stata largamente condivisa. È stato, invero, sin da subito osservato che tale sistemazione implichi l’inquadramento della norma nel novero dei delitti lato sensu di minaccia, sebbene il fine minatorio non appaia come elemento portante della fattispecie e non sia neppure riscontrabile nella maggior parte dei casi.
Sul punto, riprendendo i suggerimenti della dottrina maggioritaria , è stato eccepita nuovamente l’opportunità della creazione di un autonomo Titolo, da inserire dopo i delitti di violenza sessuale e rubricare “Tutela della riservatezza sessuale”, all’interno del quale avrebbe potuto trovare più adeguata collocazione la nuova fattispecie incriminatrice.
L’art. 612-ter disciplina un reato comune in cui il particolare status dell’autore – la sua qualifica soggettiva data da una relazione di vicinanza con la vittima – rileva solo ai fini dell’operatività della circostanza aggravante.
Il primo comma, dopo l’iniziale clausola di riserva, punisce le condotte di invio, consegna, cessione, pubblicazione e diffusione di immagini o video dal contenuto sessualmente esplicito, poste in essere senza il consenso delle persone rappresentate, da chi ha partecipato alla loro realizzazione ovvero le ha sottratte: tali soggetti vengono generalmente indicati come c.d. “distributori primari” .
Al secondo comma invece sono punite le medesime condotte realizzate dai c.d. “distributori secondari” ovvero coloro che, senza aver partecipato alla realizzazione del materiale e senza averlo sottratto, lo abbiano a qualsiasi titolo ricevuto o acquisito. La principale differenza tra le due ipotesi risiede nel fatto che quando la diffusione del materiale è posta in essere dal diffusore secondario il reato è retto dal dolo specifico di recare nocumento alle persone rappresentate nelle immagini.
Entrambe le fattispecie sono assoggettate alla medesima pena e il discrimine, che si riflette anche sul diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo dal reato, è dunque dato dalla modalità attraverso la quale l’agente è entrato in possesso del materiale successivamente divulgato.
Sul punto si rileva che il vulnus dell’incriminazione è senza dubbio costituito dalla disagevole punibilità delle condotte di diffusione che abbiano ad oggetto immagini sessualmente esplicite autoprodotte dalla persona offesa, nella sostanza tutte le ipotesi riconducibili al secondo comma. Ed infatti, se da un lato, un approccio cauto alla repressione di tali condotte potrebbe essere giustificato dalla necessità, in concreto, di circoscrivere la latitudine operativa della fattispecie (a causa dell’elevato numero di soggetti, estranei alla diffusione primaria, che a vario titolo possono essere coinvolti quando il materiale autoprodotto diventa “virale” ), non può sottacersi il dubbio circa la tenue persistenza, in capo al legislatore, di un atteggiamento paternalistico nei confronti dell’esercizio della libertà sessuale degli individui.
Quanto all’oggetto del reato, i.e. «immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati» vi è intanto da rilevare che la sua genericità, soprattutto ad una prima lettura, rischiava di ingenerare notevoli difficoltà interpretative al pari di quelle sorte a suo tempo per delineare la nozione di “atti sessuali” di cui all’art. 609-bis c.p., nonché di essere origine di contrasti giurisprudenziali a causa della difficile individuazione di criteri univoci, in presenza dei quali una raffigurazione possa qualificarsi come sessualmente esplicita. Fortunatamente, a distanza di pochi anni dall’introduzione della fattispecie, la giurisprudenza di legittimità si è già fatta carico della questione con due essenziali pronunce che hanno interpretato estensivamente la nozione di immagini a contenuto “sessualmente esplicito” ricomprendendovi anche la raffigurazione di parti del corpo erogene diverse dagli organi genitali capaci di richiamare, per il contesto e le condizioni concrete nelle quali vengono ritratte, l’istinto sessuale . Quanto all’inciso «destinati a rimanere privati», la cui interpretazione inizialmente non pareva poter destare dubbi, una più approfondita analisi verrà effettuata nei seguenti paragrafi, laddove ci si concentrerà sull’interpretazione che ne è stata data dalla suprema Corte in un caso analogo a quello oggetto del presente contributo.
Come anticipato, l’elemento soggettivo nel caso dei distributori primari è rappresentato dal dolo generico, occorrendo da parte dell’agente la semplice rappresentazione e volizione in ordine alla condotta complessivamente considerata. Con tale scelta il legislatore sembrerebbe aver voluto ricomprendere nel perimetro di operatività della fattispecie le diverse forme di pornografia non consensuale, a prescindere dal perseguimento di uno scopo specifico dell’autore del reato; in questo modo, l’efficacia della norma risulta svincolata dal fine vendicativo proprio del revenge porn in senso stretto, che tuttavia pare avere ancora una eco nella fattispecie di cui al secondo comma.
La disposizione in esame descrive una pluralità di condotte alternative: l’invio, la consegna e la cessione sembrano tratteggiare l’azione del passaggio del materiale dal primo soggetto ad uno o pochi altri destinatari determinati, mentre la pubblicazione e la diffusione sottintendono una distribuzione su larga scala delle immagini o dei video sessualmente espliciti.
Per quanto attiene, infine, alle circostanze aggravanti previste dalla norma, il comma terzo disciplina un’aggravante ad effetto comune, che opererà nel caso in cui il delitto venga commesso dal coniuge – anche separato o divorziato – o da persona legata alla vittima da relazione affettiva, ovvero nel caso in cui la diffusione sia realizzata con l’utilizzo di strumenti informatici o telematici. Il quarto comma prevede una circostanza ad effetto speciale, in presenza della quale la pena è aumentata da un terzo alla metà, ove il reato sia commesso in danno di persona che versa in condizioni di inferiorità fisica o psichica ovvero di donna in stato di gravidanza .
Il revenge porn di scuola
Il neologismo “revenge porn”, di origine anglosassone, è stato coniato in tempi non troppo recenti per indicare la condotta attraverso la quale viene perpetrata la diffusione, senza il consenso di chi vi appare, di immagini o video sessualmente espliciti ad opera di un individuo – spesso un ex partner – mosso dal fine di danneggiare il soggetto ivi ritratto e condannarlo al pubblico dileggio.
Il termine colloquiale, la cui prima apparizione online viene fatta risalire al 2007 , deve la sua diffusione alle note vicende di cronaca che hanno animato l’opinione pubblica negli ultimi anni, ed è divenuto così popolare da essere stato inserito financo nel prestigioso dizionario di Cambridge . In verità, parte della dottrina angloamericana protende per l’abbandono di tale terminologia, in favore di quella di “non consensual pornography ” o di “image-based sexual abuse ”. Sono state infatti evidenziate diverse problematiche legate all’utilizzo di questo neologismo, le quali discendono, in parte, dalla sua portata restrittiva che finisce per escludere molteplici ipotesi similari ma rispondenti a scopi eterogenei che esulano da quello tipico di “vendetta” ed, in parte, dalla difficoltà di individuare le esatte caratteristiche in presenza delle quali un’immagine possa essere definita pornografica.
In effetti, specie in riferimento al primo punto i rilievi della dottrina straniera colgono nel segno.
Nel fenomeno del “revenge porn” c.d. di scuola vi è infatti uno schema ben preciso: l’autore della condotta è una persona che è stata legata alla vittima da una relazione amorosa e decide di diffondere le immagini ed i video intimi scambiati e prodotti durante la detta relazione al fine ultimo di vendicarsi dell’ex-partner che ha posto fine alla liaison.
Ciononostante, tale definizione continua ad essere impropriamente utilizzata per far riferimento all’ampia casistica di diffusione non consensuale di immagini o video a contenuto sessuale. Si pensi ad esempio alle ipotesi in cui il materiale, venuto in possesso di un terzo estraneo alla coppia, venga da quest’ultimo reso pubblico per finalità ludiche, ovvero ai casi di c.d. sextortion, ove le immagini intime, fraudolentemente sottratte ai proprietari divengono oggetto di un ricatto a scopo estorsivo.
Si è parlato di “revenge porn” anche con riferimento alla nota vicenda che, qualche anno fa, ha coinvolto diverse celebrità americane che in seguito ad alcuni attacchi di hacking, hanno assistito alla diffusione online di tutta una serie di immagini intime custodite nel proprio cloud.
Alla luce di quanto sin d’ora esposto può evincersi come, in verità, solamente le condotte che propriamente appartengono al revenge porn siano riconducibili a quel preciso schema cui sopra si è brevemente accennato e sul quale appare adesso opportuno soffermarsi brevemente.
In primo luogo, deve essere considerato l’autore della condotta, che come anticipato è un soggetto qualificato dal suo particolare status di ex partner della vittima; nella maggior parte dei casi, gli autori di queste condotte sono uomini e la diffusione non consensuale delle immagini di natura sessuale avviene spesso nell’ambito di una serie più ampia di condotte inquadrabili nell’ampio spettro della violenza di genere . Ed infatti, la seconda importante caratteristica del fenomeno, logicamente connessa alla prima, riguarda la tipologia di materiale “pornografico” oggetto di divulgazione; ciò che difatti differenzia il revenge porn dal semplice vouyerismo attiene alla modalità di creazione delle immagini e dei video di natura sessuale, che contrariamente a quanto avviene nel caso di scatti rubati o registrazioni carpite fraudolentemente vede la vittima partecipe e consapevole nella realizzazione del materiale. Consapevole e dunque consenziente, si, ma a determinate condizioni, quelle implicitamente condivise nell’ambito di una relazione sentimentale e intima connotata da esclusività.
Tale caratteristica rivela precisamente il pregnante disvalore che connota la condotta in esame, in quanto l’atto di diffusione, non solo viene in luce come azione lesiva in sé e per sé ma rappresenta altresì la rottura di un patto fiduciario tra vittima ed autore del reato, consolidato durante la passata relazione, al tempo in cui il materiale stesso è stato creato.
Un’ulteriore particolarità dello schema d’azione sin qui delineato riguarda poi il veicolo di diffusione delle immagini o dei video, costituito principalmente – se non ormai unicamente – dalla rete internet; questo ultimo dato è connaturato alla severità delle conseguenze che patiscono le vittime di abuso sessuale per immagini, che proprio a causa delle caratteristiche tipiche del cyper-spazio (l’istantaneità d’azione che consente ai contenuti che vengono pubblicati online di raggiungere milioni di destinatari in pochi secondi e la perenne memoria del web) subiscono un pregiudizio che la medesima condotta, se posta in essere dalla mera azione umana nel mondo materiale e non virtuale, non potrebbe mai arrecare.
In particolare, la rete offre molteplici possibilità d’azione: file di ogni genere possono essere condivisi tramite social network, blog, caricati su siti pornografici o forum di settore, tuttavia, la modalità di diffusione più insidiosa è costituita dalle chat istantanee, come Whatsapp o Telegram. Questo genere di piattaforma permette infatti di trasferire tramite un unico inoltro in una chat di gruppo il materiale multimediale direttamente sui dispositivi di tutti gli iscritti, rendendo immediata la condivisione dei contenuti e favorendone, in tal modo, la viralità. Da ultimo, a completare il quadro dell’azione tipica, interviene l’ormai arcinoto movente vendicativo dell’autore.
Chi diffonde le immagini intime create o acquisite nell’ambito di una relazione amorosa, agisce allo scopo di punire e mortificare la vittima, la quale viene colpevolizzata e data in pasto alla pubblica gogna per aver posto fine alla relazione amorosa.
Ciò vale a spiegare il precedente riferimento alla violenza di genere; la volontà di colui che diffonde il materiale privato è indirizzata a distruggere l’immagine pubblica della donna ritrattavi, ad annientare la sua reputazione, e violentare la sua intimità offrendola alle folle affamate di scandalo che popolano il web. Il movente che anima l’azione del diffusore, in verità, altro non è che l’evoluzione moderna e speculare dell’antico animuspossidendi che stava dietro al delitto d’onore, il “se non posso averti io, non ti avrà nessuno” diventa oggi “se non posso averti io ti avranno tutti”, poiché nell’ottica dell’autore del reato pubblicizzare la sessualità della vittima e metterla alla mercè della collettività equivale a deprezzare il suo valore come essere umano.
La diffusione non consensuale di contenuti sessualmente espliciti destinati alla vendita privata
Dopo aver analizzato la fattispecie di cui all’art. 612-ter c.p. e delineato i tratti tipici del fenomeno del c.d. revenge porn è possibile, dunque, alcune conclusioni e concentrarci sul caso prospettato all’inizio.
Come si è potuto apprezzare il nuovo delitto introdottodal Codice rosso è chiaramente strutturato allo scopo di ricomprendere nel proprio perimetro applicativo anche condotte che si discostano dal revenge porn in senso stretto ma che comunque rientrano nel novero della c.d. pornografia non consensuale.
Ed infatti, certamente risponderà del reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti colui che dopo aver sottratto lo smartphone ad una donna conosciuta in discoteca, pubblichi online le fotografie o i video intimi in esso contenuti che ritraggono la sventurata proprietaria; al contempo sarà chiamato a rispondere del medesimo reato chi, dopo aver realizzato un filmino “hard” amatoriale con un partner decida di inviarlo ad un gruppo di amici per vantarsi della propria prestazione sessuale; ed ancora non ci sono dubbi circa la sussumibilità nella fattispecie de qua della condotta di colui che dopo aver fatto sexting con una persona conosciuta onlineinoltri ad altri le immagini erotiche autoprodotte dalla vittima (c.d selfie) allo scopo di schernirla.
Tutte le ipotesi sopra riportate sebbene eterogenee sotto il punto di vista dell’elemento soggettivo e degli antefatti della condotta criminosa sono, tuttavia, accomunate da un elemento centrale ossia la destinazione ad uso privato delle immagini illegittimamente divulgate.
Tale destinazione, riportata nell’inciso normativo «destinate a rimanere private» si pone come discrimine tra una diffusione non consensuale di materiale sessualmente esplicito sanzionabile ex art. 612-ter c.p. ed una diffusione illecita del medesimo tipo di materiale prodotto “professionalmente” e coperto da diritto d’autore punita dall’art. 171 della L. 633/1941 .
Il quesito che qui ci si pone è allora il seguente:
lo scopo di lucro che sorregge la produzione del materiale è di per sé sufficiente ad escluderne la destinazione privata e quindi la sussumibilità nella nuova incriminazione introdotta dal Codice Rosso?
Per addivenire ad una risposta in tal senso è necessario soffermarsi brevemente sulla struttura e sul funzionamento della piattaforma di Only Fans onde comprendere se ed entro quali limiti è possibile considerare il materiale pubblicato e condiviso tramite quest’ultima come materiale destinato a rimanere privato.
I creator di Only Fans, il cui identikit abbiamo sinteticamente tratteggiato nei paragrafi precedenti, hanno una propria pagina personale del tutto similare a quella degli altri social network come Instagram o Facebook ma a cui potranno accedere non tutti gli utenti bensì solo coloro disposti a pagare per farlo. Dobbiamo dunque figurarci una pagina che contiene tutta una serie di post pubblicati nel tempo dal suo titolare che sono però visibili solo previa sottoscrizione di un abbonamento mensile al prezzo stabilito dal creator. Tutti questi contenuti – come si è detto, generalmente immagini e video di natura erotica o esplicita – sono pertanto visibili ad una pluralità potenzialmente indeterminata di utenti, essendo variabile il numero (e l’identità) degli iscritti che di mese in mese acquistano o rinnovano l’abbonamento.
Se quindi, almeno ad una prima lettura, i contenuti pubblicati nel profilo del creator non paiono poter rientrare nella nozione di immagini «destinate a rimanere private» lo stesso non può dirsi per la seconda tipologia di materiale acquistabile su Only Fans ossia i contenuti commissionati dai singoli utenti e pagati al dettaglio direttamente al creator.
La piattaforma, infatti, oltre a permettere ai fans di abbonarsi alle pagine dei personaggi preferiti consente anche di potersi mettere direttamente in contatto con questi ultimi tramite chat private; tali chat rappresentano lo strumento attraverso il quale l’utente ha la possibilità di interagire in tempo reale con il creator e di commissionargli la realizzazione di uno o più contenuti sessualmente espliciti ad hoc, che avranno di volta in volta un costo diverso e specifico.
Alla luce di questa distinzione, messe da parte le facili critiche rigoristiche che potrebbero sollevarsi quando il tema della sessualità si accosta a quello del lucro, il quesito rimesso all’interprete sembrerebbe poter trovare una semplice soluzione: in relazione alla divulgazione non consensuale di immagini pubblicate dai creator di Only Fans, dovrebbero ritenersi destinate ad uso privato e dunque sanzionabili ex art. 612-ter c.p. quelle commissionatedirettamente dai singoli utenti in quanto destinate solo “ai loro occhi”, mentre andrebbero considerate come “opere” tutelate tuttalpiù dal diritto d’autore – ergo protette dalla L. 633/1941 – i contenuti pubblicati nei feed dei creator ed accessibili indistintamente a tutti gli iscritti.
Tale conclusione, frutto di un ragionamento lucido e scevro da pregiudizi, non è stata tuttavia condivisa dalla giurisprudenza di legittimità.
La pronuncia della Cassazione sulla diffusione di immagini sessualmente esplicite pubblicate dalla vittima su un sito di incontri per soli iscritti
Con pronuncia n. 25516 del 5 marzo 2024 la sezione V della Corte di Cassazione si è espressa sul caso che vedeva un uomo condannato, tra le altre cose, per il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti per aver diffuso senza il consenso della persona rappresentata delle fotografie erotiche che quest’ultima aveva pubblicato su alcuni siti di incontri accessibili, tuttavia, solo ad utenti regolarmente iscritti.
La sentenza, come ovvio, non riporta il nome dei siti web nello specifico, ma dalla descrizione delle modalità di accesso che ne viene fatta si può rilevare che trattasi di piattaforme analoghe a quella di Only Fans che consentono agli utenti iscritti e paganti di avere accesso alle fotografie e ai video caricati dalle persone che ivi promuovono i loro servizi.
Il ricorso della difesa dell’imputato, spiegato avverso la decisione dei giudici di merito, aveva censurato ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 612-ter, comma 2 c.p., in relazione alla sussistenza il delitto in esame, e ciò sull’assunto che il materiale divulgato sarebbe stato liberamente disponibile nei diversi siti in cui la stessa persona offesa lo aveva pubblicato, facendo così venir meno il vincolo della destinazione privata necessario ai sensi della norma incriminatrice e dunque escludendo la sussumibilità del fatto nella fattispecie de qua.
Gli ermellini hanno cionondimeno confermato la sentenza impugnata, rigettando la prospettazione della difesa in ordine all’assenza della privata destinazione delle immagini statuendo che: «proprio le caratteristiche dei siti web di incontri su cui le immagini erano state inviate dimostra l’infondatezza della tesi difensiva. Infatti, essendo l’accesso a tali siti e piattaforme limitato alle sole persone che vi si erano iscritte attraverso un’apposita procedura di registrazione, le fotografie (e le informazioni veicolate unitamente ad esse) non erano liberamente acquisibili e trasmissibili, essendo tale facoltà circoscritta, in virtù del consenso prestato dalla persona ritratta al momento dell’apertura dell’account, soltanto agli appartenenti alla comunità virtuale cui erano state originariamente inviate e unicamente all’interno di essa».
Conclusioni
Secondo i giudici di Cassazione può, dunque, dirsi sussistente una legittima pretesa di privatezza anche all’interno di una “comunità virtuale”, rimanendo indifferente che questa comunità sia soggetta a continua espansione e accessibile a chiunque si sottoponga alla regolare procedura di registrazione.
Secondo tale ragionamento sarebbe, quindi, la limitazione all’accesso alla piattaforma virtuale a far rientrare nella definizione di immagini e video «destinati a rimanere privati» anche quelli in essa pubblicati dalla persona offesa allo scopo di procacciarsi dei “lavori”, e ciò poiché in ogni caso il consenso alla fruizione del materiale fornito al momento della pubblicazione rimarrebbe circoscritto a quel determinato locus ed ai suoi residenti.
Sebbene l’intento di estendere la sfera di tutela della riservatezza sessuale perpetrato dai giudici di legittimità sia pregevole, il percorso attraverso il quale tale scopo è attuato non appare del tutto condivisibile agli occhi di coloro che conoscono più approfonditamente il funzionamento di queste piattaforme virtuali. Ed infatti, una simile circoscrizione del consenso non potrebbe essere in verità concretamente ponderata in relazione ad uno spazio e ad una comunità che per loro stessa definizione non possono avere limiti; con riguardo a un luogo virtuale in cui qualsiasi gruppo, anche se “chiuso”, può passare da cinque a cinque milioni di iscritti nell’arco di pochi minuti non è difatti sostenibile la tesi per cui colui che condivide un contenuto al suo interno possa prestare un valido e “vincolato” consenso alla sua diffusione. Se il titolare dell’immagine non può nemmeno astrattamente conoscere il numero esatto – e figurarsi l’identità – di tutte le persone che vi avranno accesso, come possono sussistere le condizioni per ritenere circoscritto il suo consenso? Come può a tali condizioni permanere una reale aspettativa di privatezza?
Secondo questo iter logico si finisce infatti per tutelare (e reprimere) allo stesso modo la lesione alla riservatezza sessuale patita da chi subisce la divulgazione coatta di immagini private create in ambiente “domestico” ed il pregiudizio di natura squisitamente economica che subisce un professionista che, al contrario, tale riservatezza sessuale non intendeva proteggere.
Portando agli estremi il ragionamento abbracciato dalla suprema Corte, potrebbe allora dirsi che anche un’attrice hard nel momento in cui firma le liberatorie per la distribuzione delle riprese sta fornendo il proprio consenso alla visione delle immagini “solo” ad un numero determinato di persone che acquisteranno il film originale: tutti coloro, dunque, che lo caricheranno su un sito pirata o lo diffonderanno in altro modo sarebbero responsabili ex art. 612-ter c.p.
Non vi è dunque chi non veda come una siffatta estensione applicativa della fattispecie in esame, specialmente trattandosi di un delitto “grave” posto a tutela della libertà morale, rischi di rivelarsi l’ennesima deriva giurisprudenziale di quel diritto penale totale tanto avversato dai più lungimiranti studiosi della materia.
Femminicidio e Patriarcato nell’ambito della violenza di genere
di Vincenzo Lusa e Matteo Borrini*