Casi pratici

Preliminare di cessione di quote di s.r.l.: efficacia e validità

Natura giuridica del preliminare e rapporto con il definitivo

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di Nicolino Gentile

la QUESTIONE
Le norme sulla vendita sono applicabili al contratto preliminare di cessione di quote di società a responsabilità limitata?

Con il contratto preliminare le parti si impegnano a stipulare un successivo contratto, detto definitivo, i cui elementi fondamentali sono fissati nello stesso preliminare.
Il preliminare è tipicamente un contratto a effetti obbligatori, facendo sorgere l'obbligo tipico di prestare il consenso necessario alla conclusione del contratto, mentre il contratto definitivo, in linea di massima, può essere un contratto di qualunque tipo, a effetti reali o a effetti obbligatori.
Nell'indagine volta ad individuare la natura preliminare o definitiva di un contratto di vendita, si tratta di ricercare l'effettiva volontà dei contraenti per accertare, se la stessa sia stata rivolta direttamente al trasferimento della proprietà ovvero a dar vita al mero obbligo ad una ulteriore manifestazione di volontà ad effetto traslativo. Il carattere preliminare o definitivo di una vendita, in effetti, non dipende dalla pattuizione relativa all'impegno a comparire davanti a un notaio per la formazione di un atto pubblico suscettibile di trascrizione bensì dalla circostanza che le parti abbiano inteso, nel primo caso, soltanto obbligarsi all'alienazione e all'acquisto futuri del bene oppure, nel secondo caso, dare senz'altro luogo alla trasmissione della proprietà.
Quanto al termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo, lo stesso non costituisce normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittima la dichiarazione di scioglimento del contratto. Tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell'articolo 1457 c.c., solo quando, all'esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell'oggetto del contratto (e, quindi, insindacabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivata in relazione a siffatti criteri), risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l'utilità economica del contratto con l'inutile decorso del termine.
Sulla natura del preliminare si contrappongono tre teorie: quella tradizionale, secondo cui il preliminare ha natura meramente preparatoria; la tesi del c.d. doppio contratto, che attribuisce al preliminare la funzione di controllo delle sopravvenienze; la tesi minoritaria, secondo cui il preliminare è un contratto definitivo a effetti solo obbligatori.
Secondo la prima tesi menzionata, il contratto preliminare sarebbe un contratto meramente preparatorio avente ad oggetto l'obbligo di prestare il consenso per la conclusione del definitivo. Nonostante nel preliminare sia già previsto l'oggetto del definitivo, l'assetto negoziale finale è frutto esclusivamente della volontà manifestata in sede di definitivo, mentre gli unici obblighi nascenti dal preliminare si esauriscono con la prestazione del consenso prodromico alla conclusione del definitivo.
Sul piano dei rapporti tra preliminare e definitivo, questa teoria distingue nettamente i due atti e le loro cause: il preliminare avrebbe funzione preparatoria e mirerebbe alla conclusione del definitivo, attraverso l'obbligo di un facere consistente nella previsione del consenso; il definitivo, invece, avrebbe funzione autonoma, consistente nella effettiva realizzazione dell'assetto d'interessi delineato dalle parti (consistente in un dare, un facere, non facere ecc.).
La predetta concezione è stata progressivamente superata dalla tesi del c.d. doppio contratto, che individua la duplice natura del preliminare; da una parte, promessa di consensi in vista della conclusione del futuro contratto, dall'altra, promessa di prestazioni finali, già determinate nel preliminare. Secondo tale tesi, pertanto, il definitivo assumerebbe una funzione di controllo delle sopravvenienze, cioè uno strumento che consente alle parti, pur vincolate alla realizzazione dell'assetto programmato, di valutare l'eventuale incidenza di fatti nuovi prima di determinare la definitiva realizzazione delle prestazioni finali.
Secondo la terza tesi, il contratto preliminare avrebbe natura giuridica di definitivo ad effetti obbligatori. Questa posizione, minoritaria sia in dottrina sia in giurisprudenza, attribuisce rilievo preminente al preliminare, che costituisce fonte di tutti gli obblighi giuridici volti a realizzare l'assetto programmato dalle parti. Il definitivo, invece, mirerebbe semplicemente a realizzare l'effetto traslativo previsto dal preliminare. In questo senso, il definitivo perderebbe la sua natura contrattuale per assumere esclusivamente una funzione solutoria con la conseguenza di un completo ribaltamento della visione tradizionale. Gli effetti negoziali, pertanto, sarebbero frutto di un procedimento negoziale che prevede un atto negoziale (il preliminare), i cui effetti sono differiti o subordinati alla realizzazione di un ulteriore atto non negoziale (il definitivo), avente natura meramente esecutiva.
Come anticipato, la tesi che privilegia l'individuazione di interessi di natura sostanziale quale fondamento causale tipico della scissione tra preliminare e definitivo è quella prevalente.
Corollario di tale impostazione, dunque, è che con la stipula del definitivo, le pattuizioni del preliminare rimangono superate, alla stregua del cosiddetto principio di assorbimento. Ed invero, secondo la più recente impostazione giurisprudenziale, nel caso in cui le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, siano addivenute alla stipulazione del contratto definitivo, effettivamente quest'ultimo costituisce l'unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al negozio voluto, in ossequio al cosiddetto principio di assorbimento, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l'obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare. Tuttavia, tale principio non può trovare applicazione nell'ipotesi in cui il contratto definitivo non esaurisca gli obblighi a contrarre previsti nel preliminare, occorrendo in tal caso accertare la volontà negoziale delle parti, valutando tra l'altro il contenuto di detto preliminare.
Pertanto, nel caso in cui le parti, stipulato un contratto preliminare, siano poi addivenute alla stipulazione del contratto definitivo, quest'ultimo costituisce l'unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l'obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare.
Ai fini del tema che qui ci occupa, deve evidenziarsi che il contratto preliminare deve avere un suo "contenuto minimo", cioè a dire, in esso, gli elementi essenziali della futura convenzione devono essere determinati o quantomeno determinabili. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza, deve comunque riconoscersi la validità del contratto preliminare allorquando l'oggetto possa determinarsi attraverso atti e fatti storici, anche successivi alla sua conclusione, e persino in base a elementi esterni o per relationem.
Con specifico riferimento al preliminare di quote, nella prassi contrattuale, il principio sopra richiamato assume particolare importanza nei casi in cui le parti abbiano la necessità di differire il contratto definitivo a una data successiva a quella del preliminare in relazione alla previsione di una clausola di determinazione del prezzo (price-adjustment).
In tali clausole, infatti, il prezzo, non essendo definitivamente determinato al momento del contratto preliminare, viene calcolato sulla base di una situazione patrimoniale o di un conto economico della società target sussistente alla data del definitivo.
Inadempimento del contratto preliminare
Deve evidenziarsi che l'inadempimento di una delle parti attribuisce all'altra il diritto di ottenere, ai sensi dell'art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto definitivo ovvero di ottenere una sentenza che produca gli stessi effetti del contratto definitivo non concluso.
Come è noto, ai sensi del secondo comma dell'art. 2932 c.c., trattandosi, come nel caso che qui ci occupa, di contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto (i.e.: contratti a effetti reali), la domanda non può essere accolta se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile. Quindi, in altri e più compiuti termini, la parte che ha proposto la domanda deve (i) aver adempiuto la propria prestazione ovvero (ii) aver offerto l'adempimento della stessa nei modi di legge.
La giurisprudenza si è più volte espressa sull'interpretazione della norma sopra citata, specificando che l'offerta della prestazione può sostanziarsi in una seria manifestazione di volontà di eseguire il pagamento, espressa in qualsiasi modo che escluda ogni perplessità sulla concreta intenzione di adempiere, senza che quindi sia indispensabile l'uso dell'offerta reale o di quella per intimazione. Molto spesso è stato ritenuto sufficiente anche il semplice invito rivolto dal promissario acquirente al promittente venditore di comparire presso gli uffici del notaio rogante per la stipula del contratto definitivo, così come è stata ritenuta sufficiente l'offerta della prestazione anche se formalizzata in giudizio dalla parte, personalmente a mezzo del suo procuratore prima della sentenza.
Occorre quindi evidenziarsi che la sentenza che accoglie la domanda di esecuzione produce l'effetto di rendere vincolante tra le parti il rapporto giuridico che queste avevano inteso porre in essere con la stipulazione del preliminare. Come noto, la sentenza di accoglimento ha natura costitutiva e, pertanto, è solamente con il provvedimento dell'autorità giudiziaria che si producono quegli effetti che le parti avevano inteso produrre nella loro sfera giuridica attraverso la stipulazione del contratto definitivo.
Inoltre, in presenza di contrapposte domande di esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare e di risoluzione del medesimo per inadempimento, il giudice deve procedere a una valutazione comparativa e unitaria degli inadempimenti che le parti si sono addebitati al fine di stabilire se sussista l'inadempimento che legittima la risoluzione. La valutazione della gravità dell'inadempimento, prendendo le mosse dall'esame dei fatti e delle prove inerenti al processo, è rimessa al giudice del merito ed è incensurabile in Cassazione se la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o giuridici.
La pronuncia di cui all'art. 2932 c.c. non è tuttavia evocabile allorquando il bene oggetto del contratto, in forza di eventi sopravvenuti alla stipula dello stesso, venga modificato, non essendo possibile, in sede giudiziale, costituire un rapporto giuridico diverso da quello voluto dalle parti.
Deve da ultimo evidenziarsi che il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c., al fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege.

Trasferibilità di quote di s.r.l.: clausole di non mero gradimento e prelazione
Definizione di partecipazione sociale e regime di trasferibilità: la clausola di mero gradimento
Occorre brevemente definire la nozione di "quota" o meglio, secondo la rubrica dell'art. 2468 c.c., di "partecipazione sociale". Secondo una nota definizione, essa rappresenta la «qualità di socio, nella sua considerazione quantitativa, data dal valore della frazione di capitale sottoscritto». In altri termini, la partecipazione sociale corrisponde, da un lato, alla frazione matematica da essa rappresentata rispetto al capitale sociale che si presume, salvo diversa pattuizione contraria, proporzionale al valore del conferimento; dall'altro, la quota riflette il complesso delle situazioni giuridiche del singolo socio così come risulta dall'insieme delle pattuizioni sociali nell'ambito del contratto associativo.
Il 1° comma dell'art. 2469 c.c., che detta la disciplina in tema di trasferimento di partecipazioni, sancisce il generale principio della libera trasferibilità (sia per atto tra vivi, sia mortis causa), rimettendo tuttavia alle parti la facoltà di inserire nell'atto costitutivo una clausola di intrasferibilità assoluta.
L'attuale 2° co. conferma esplicitamente la facoltà di introdurre una clausola d'intrasferibilità, senza indicare in alcun modo la necessità che ricorrano circostanze particolari, oggettivamente determinabili, temperando però la previsione con il riconoscimento del diritto di recesso, ai sensi dell'art. 2473 c.c.. Premesso che lo stesso diritto è riconosciuto nel caso della presenza di una clausola statutaria di gradimento senza condizioni o limiti (su cui si rinvia al successivo paragrafo), nonché nell'ipotesi di «limiti o condizioni che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte», si osserva che questa disposizione è posta a tutela dell'interesse dei soci a non trovarsi "prigionieri" della società, consentendo loro di smobilizzare l'investimento. In definitiva, la legge intende contemperare le esigenze di stabilità della compagine sociale, che possono essere legittimamente perseguite dai soci, e l'interesse del singolo socio al disinvestimento.
A sua volta, il disposto della norma viene parzialmente temperato attraverso la previsione della possibilità che lo statuto impedisca l'esercizio del recesso per un periodo di due anni, decorrenti dalla costituzione della società, ovvero dal momento in cui il socio sottoscrive la quota. Ciò consente alla società di organizzare al meglio la liquidazione della quota del recedente.
L'esplicitazione contenuta nel secondo comma rende non più attuale la problematica, affrontata sotto il vigore della precedente normativa, relativa all'applicabilità alla S.r.l. della disciplina della S.p.A. in materia di clausola di gradimento, ed in particolare all'utilizzo di una clausola di mero gradimento, che risulta oggi senz'altro legittima. Al riguardo, si nota peraltro una diversa formulazione tra le rispettive norme: l'art. 2355 bis c.c. parla di inefficacia delle clausole di "mero" gradimento ove non siano previsti dei rimedi a favore del socio che intende disfarsi della propria partecipazione; l'art. 2469 c.c., invece, fornisce una definizione, sia pure poco precisa e in negativo («senza prevedere condizioni e limiti») e attribuisce direttamente il recesso. Secondo autorevole dottrina, il riconoscimento del recesso tout court, sulla base della sola presenza in statuto della clausola di mero gradimento, e non nell'ipotesi concreta di negazione del gradimento, potrebbe finire per privare di interesse l'adozione di tali clausole «poiché gli operatori sono difficilmente disponibili ad accollarsi il rischio di un recesso ingiustificato o pretestuoso a fronte di regole organizzative il cui fine non è di chiudere a priori, bensì di selezionare l'ingresso in società».
Come osservato da seppur risalente (ma ad oggi condivisa) giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 7890 del 20.07.1995) la clausola di gradimento è volta a precludere l'ingresso nel capitale sociale ‘‘a persone o gruppi che, come concorrenti o speculatori, possano fare il danno e non l'interesse della società''.
In caso di trasferimento di partecipazioni sociali avvenuto in violazione della clausola di gradimento, giurisprudenza e dottrina dominante si sono orientate nella direzione di ritenere inefficace il predetto trasferimento, con conseguente impossibilità per il cessionario di esercitare i diritti sociali connessi alla partecipazione compravenduta.

La clausola di prelazione
In via generale, la prelazione è il negozio giuridico con cui un soggetto si impegna a preferire il beneficiario, a parità di condizioni rispetto ad altri contraenti, nel caso in cui decida di concludere un contratto. In capo al promittente non sorgono obblighi rispetto alla futura conclusione del contratto, rimanendo questi pienamente libero di determinarsi a contrarre o meno, ma, qualora decidesse di concludere il contratto, dovrebbe necessariamente informare il beneficiario della propria intenzione e preferirlo, a parità di condizioni nella stipula dello stesso.
Il diritto di prelazione può nascere dall'autonomia delle parti oppure da una previsione di legge. La differenza tra le due figure rileva con riguardo alla tutela fornita dall'ordinamento in caso di inadempimento dell'obbligazione: solo la prelazione legale, infatti, gode di tutela reale; viceversa, il mancato rispetto della prelazione viene sanzionato con gli ordinari rimedi risarcitori.
La clausola di prelazione concernente il trasferimento di quote sociali, contenuta nello statuto regolarmente pubblicato, opera, secondo la dottrina e la giurisprudenza più recenti, in modo reale, creando un vero e proprio vincolo obiettivo di intrasferibilità che, se inosservato, produce la nullità dei contratti stipulati in violazione di esso e rende ammissibile la condanna del socio alienante e del terzo al risarcimento del danno.
Ed invero, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, mentre il patto di prelazione contenuto nei patti parasociali ha efficacia meramente obbligatoria, con conseguenze meramente risarcitorie e limitate ai rapporti interni tra soci, il patto di prelazione inserito nello statuto di una società di capitali ed avente ad oggetto l'acquisto delle azioni sociali, essendo preordinato a garantire un particolare assetto proprietario, ha efficacia reale e, in caso di violazione, è opponibile anche al terzo acquirente.
Al riguardo, la S.C, ha avuto modo di affermare che clausole come quelle di prelazione (o di gradimento) sono tali da incidere sul rapporto tra l'elemento capitalistico e quello personale della società, accrescendo il peso del secondo elemento rispetto al primo, secondo quanto i soci valutino più adatto alle esigenze dell'ente. Il necessario corollario è che, allora, tali clausole possano assolvere anche ad una funzione specificamente sociale; da ciò la loro collocazione nello statuto organizzativo della società. Se così è, però, sotto diverso ed ulteriore profilo, deve ammettersi che, con un tale inserimento tali clausole cessino di esser regolate dai soli principi del diritto dei contratti, per rientrare, invece, nell'orbita più specifica della normativa societaria. In quest'ottica, pare meritevole di condivisione la tesi (peraltro per nulla pacifica in seno alla medesima giurisprudenza) secondo cui la clausola statutaria di prelazione avrebbe efficacia reale ed i suoi effetti sarebbero opponibili anche al terzo acquirente: perché, appunto, si tratta di una regola del gruppo organizzato, alla quale non potrebbe non conformarsi colui che intendesse entrare a far parte di quel gruppo.

Applicabilità della disciplina normativa sulla vendita
Il negozio di trasferimento delle quote assume rilievo su due distinti piani; da un lato, quello dei rapporti tra socio-cedente e socio-cessionario, dall'altro quello dell'organizzazione societaria in quanto l'atto traslativo è destinato a produrre i suoi effetti, sia pure mediati, nei confronti della società.
Il tema del rapporto tra cedente e cessionario rileva essenzialmente rispetto alla validità ed efficacia dell'accordo delle parti. Su questo punto ciò che deve evidenziarsi è che la normativa speciale si applica unicamente in materia di limitazione al principio di libera trasferibilità delle quote (i.e.: art. 2469 c.c.), mentre viene lasciata alla normativa ordinaria (i.e.: art. 1470 c.c.) la regolamentazione del vero e proprio negozio traslativo.
Ebbene, su quest'ultimo punto, la giurisprudenza ha pacificamente affermato il principio dell'applicabilità delle norme sulla vendita alla cessione. delle quote (o delle azioni) di una società di capitali ad ipotesi in cui venivano in considerazione (non le caratteristiche della quota o delle azioni della società, ma) la consistenza e le qualità dei beni sociali.
A conforto di tale impostazione, secondo autorevole dottrina, la quota potrebbe configurarsi come una sorta di «diritto reale su beni costituenti il patrimonio della società» e, del resto, la riforma societaria ammettendo che la quota possa essere oggetto di pegno, usufrutto o sequestro ha certamente convalidato la tesi della riconducibilità della quota al bene mobile.
Tale orientamento muove dalla considerazione che le azioni (e le quote della società) costituiscono beni ‘‘di secondo grado'', essendo rappresentativi di diritti su beni che, pur essendo ricompresi nel patrimonio della società, sono, in una certa misura, oggetto di ‘‘appartenenza" da parte dei singoli soci'',
Si è ormai chiarito, infatti, che le società, ancorché personificate, costituiscono centri di imputazione meramente transitori e strumentali, in quanto le situazioni giuridiche che ad esse vengono imputate sono destinate a tradursi in corrispondenti situazioni giuridiche facenti capo ai singoli membri, i quali finiscono quindi per esserne i titolari effettivi, sia pure ‘‘in una maniera specifica'', che vale a distinguerle dalle altre che ad essi competono come individui.
Sicché, pur dovendosi escludere che i beni sociali si trovino nella diretta disponibilità dei singoli soci, dal momento la loro posizione è di tipo corporativo e può esplicarsi solo per il tramite della organizzazione interna della società, deve riconoscersi che la costituzione di una società di capitali non dà luogo alla creazione di nuovi beni, ma costituisce il presupposto per l'istituzione di un diverso regime di utilizzazione dei beni conferiti, senza tuttavia recidere ogni collegamento con i soggetti che hanno loro impresso quella destinazione, in quanto detti soggetti - proprio in virtù di tale atto - diventano membri di una collettività organizzata, acquistando una posizione giuridica che li abilita a partecipare alla gestione collettiva dei beni in questione.
In conclusione, quand'anche non si voglia provvedere ad una piena equiparazione della quota di società ad un bene mobile, pare innegabile che nella relativa nozione siano ricompresi uno o più diritti, onde il trasferimento della quota comporta l'alienazione di tali diritti al cessionario. E ciò è sufficiente, in linea di principio, a giustificare l'attrazione del citato trasferimento di quota nell'alveo del contratto di compravendita, disciplinato dagli artt. 1470 e seguenti c.c., ogni qual volta l'alienazione abbia luogo verso il corrispettivo di un prezzo: ciò in quanto la nozione di compravendita, come definita dall'articolo testé citato, è comprensiva del trasferimento non solo della ‘‘proprietà di una cosa'' ma anche di qualsiasi ‘‘altro diritto''.
Essendo la quota qualificabile o assimilabile quanto al regime circolatorio al bene mobile, al negozio di trasferimento, si deve ritenere che la forma prescritta dal successivo art. 2740 c.c. non sia richiesta a pena di nullità, ma unicamente come requisito per l'iscrizione nel Registro delle imprese e, dunque, quale titolo per l'efficacia dell'atto traslativo nei confronti dei terzi e della società.

Cessione a titolo oneroso di partecipazioni sociali: efficacia e pubblicità del trasferimento
L'art. 2470 c.c., ai primi due commi, quanto alla cessione a titolo oneroso delle partecipazioni sociali di s.r.l., così recita: «Il trasferimento delle partecipazioni ha effetto di fronte alla società dal momento del deposito di cui al successivo comma.
L'atto di trasferimento, con sottoscrizione autenticata, deve essere depositato entro trenta giorni, a cura del notaio autenticante, presso l'ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. In caso di trasferimento a causa di morte il deposito è effettuato a richiesta dell'erede o del legatario verso presentazione della documentazione richiesta per l'annotazione nel libro dei soci dei corrispondenti trasferimenti in materia di società per azioni».
Trattasi di formalità che, come ribadito a più riprese dalla giurisprudenza, sono necessarie ai soli fini della opponibilità della cessione nei confronti della società e dei terzi, ma non ai fini della validità della cessione tra le parti. Al riguardo, la S.C. ha avuto modo di statuire, a più riprese, che l'art. 2479 c.c., nel testo anteriore al D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, disciplina (al pari dell'art. 2470 cod. civ., nel testo in vigore) la forma del trasferimento di quota di società a responsabilità limitata perché sia opponibile alla società, mentre, nei rapporti tra le parti, in forza del principio di libertà delle forme, la cessione medesima è valida ed efficace in virtù del semplice consenso manifestato dalle stesse, non richiedendo, la forma scritta né ‘‘ad substantiam'', né ‘‘ad probationem''.
Pertanto, la cessione di quote societarie costituisce un contratto a effetti reali e a forma libera, valido ed efficace inter partes, indipendentemente dal suo deposito nel registro delle imprese, il quale è invece necessario a norma dell'art. 2470 c.c. unicamente affinché il trasferimento sia efficace anche nei confronti della società e dei terzi.
La norma, come noto, è stata oggetto di importanti disposizioni legislative; in primo luogo il 1° comma dell'art. 3 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, così ha disposto: «L'atto di trasferimento di cui al secondo comma dell'art. 2470 del Codice civile può essere sottoscritto con firma digitale, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione dei documenti informatici, ed è depositato entro, trenta giorni, presso l'ufficio del registro delle imprese, a cura di un intermediario abilitato ai sensi dell'articolo 31, comma 2 quater, della legge 24 novembre 2000, n. 340». Deve essere evidenziato che la nuova modalità di deposito è comunque facoltativa e per così dire si aggiunge a quella tradizionale da effettuarsi per mezzo dell'intervento del notaio per l'autenticazione delle firme delle parti contraenti e il deposito a cura del pubblico ufficiale della scrittura privata autenticata.
La seconda novità è invece costituita dall'abrogazione, relativamente alla disciplina delle società a responsabilità limitata, dei riferimenti al libro soci e la sostituzione degli stessi con il solo deposito dell'atto di trasferimento presso il registro delle imprese; pertanto, con l'entrata in vigore delle disposizioni di cui al D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (convertito con modificazioni in legge 28 gennaio 2009, n. 2), a far data dal 30 marzo 2009, il libro soci (unicamente per le s.r.l.) ha cessato di essere un libro obbligatorio, mentre agli amministratori è stato imposto di depositare apposita dichiarazione relativa alla cessione presso il registro delle imprese.
In buona sostanza, nel regime previgente, affinché il trasferimento potesse acquistare efficacia anche nei confronti della società, occorreva l'iscrizione del trasferimento sui libri dei soci su richiesta del socio alienante o del socio acquirente attraverso l'esibizione del titolo. Nella disciplina attuale, di contro, il trasferimento delle partecipazioni ha effetto di fronte alla società dal momento del deposito dell'atto presso il registro delle imprese.
Tale novità ha suscitato notevoli perplessità da parte della dottrina e degli operatori economici. Infatti, come è noto, il deposito non coincide con l'iscrizione che avviene da parte del registro imprese all'esito dell'attività sia pure di mero controllo formale sull'atto da parte del conservatore. Inoltre, in basi alle prassi vigenti e considerato che il deposito è un atto di mera consegna, nel periodo antecedente all'iscrizione, l'atto non risulta noto ai terzi poiché gli atti depositati ma non ancora iscritti non sono verificabili con certezza attraverso le visure in quanto la vera e propria pubblicità nei confronti dei terzi si verifica unicamente con l'iscrizione.
Si pone quindi il problema di tutela dei terzi nei casi di soggetti che abbiano proceduto all'acquisto delle quote nelle more tra il deposito e l'iscrizione di un precedente atto di trasferimento delle stesse quote; così come si discute circa il trasferimento in violazione di clausole di intrasferibilità, gradimento, prelazione. Nel precedente sistema, gli amministratori potevano legittimamente rifiutare l'iscrizione nel libro soci e, conseguentemente, l'atto non sarebbe stato efficace nei confronti della società; nel sistema attuale, il notaio rogante non potrebbe rifiutarsi di ricevere l'atto stipulato in violazione di clausole limitative della circolazione delle quote né il conservatore del registro imprese potrebbe non procedere alla sua pubblicazione rientrando tra le sue funzioni il mero controllo formale.
La soluzione individuata da gran parte della dottrina per evitare le incertezze e le problematiche sopra richiamate è prevedere statutariamente il mantenimento del libro soci e subordinare, sempre in base allo statuto, l'efficacia delle cessioni di quote nei confronti della società e la legittimazione all'esercizio dei relativi diritti sociali all'iscrizione del libro dei soci. Va comunque segnalato che, in senso contrario, si è di recente espresso un giudice di merito (Tribunale di Verona) che ha ritenuto nulla, per contrasto al disposto dell'art. 2470, comma 1, c.c., la clausola statutaria che subordina e differisce l'esercizio dei diritti sociali del cessionario di una quota di s.r.l. al momento dell'iscrizione nel libro dei soci dalla società volontariamente istituito.

Considerazioni conclusive
Non è infrequente nella prassi che le parti procedano alla sottoscrizione di contratti preliminari aventi a oggetto la cessione a titolo oneroso di quote di società a responsabilità limitata.
Il contratto preliminare di cessione di quote deve avere un suo "contenuto minimo", cioè a dire che in esso gli elementi essenziali della futura convenzione devono essere determinati o quantomeno determinabili.
Il Legislatore prevede un principio di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali fatta salva l'applicazione di clausole di limitazione al trasferimento quali la clausola di gradimento o di prelazione.
Secondo il prevalente indirizzo della dottrina e della giurisprudenza, la quota di s.r.l. è qualificabile o assimilabile al bene mobile quanto al regime circolatorio; pertanto, al negozio di trasferimento della stessa troverà applicazione il disposto dell'art. 1470 c.c., dovendosi ritenere che la forma prescritta dal successivo art. 2740 c.c. non sia richiesta a pena di nullità, ma unicamente come requisito per l'iscrizione nel Registro delle imprese e, dunque, quale titolo per l'efficacia dell'atto traslativo nei confronti dei terzi e della società.

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Niccolò Medica e Niccolò Ballerini*

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