Famiglia

Quando il «genitore di fatto» paga per i danni dei figli

La responsabilità scatta con una convivenza stabile e solo per minori incapaci

di Marisa Marraffino

Il nuovo marito non risponde dei danni cagionati dal figlio della moglie quasi quattordicenne, se non ha di fatto un ruolo paterno nell’educazione del minore. Lo ha stabilito la Corte di appello di Bari con la sentenza 1754, pubblicata il 19 ottobre scorso, che ha precisato i contorni della responsabilità dei “genitori di fatto” e confermato sul punto la sentenza di primo grado.

Il caso trae origine da una violenta ginocchiata all’altezza dei genitali sferrata dal figlio della moglie quasi quattordicenne a un ragazzo di dodici anni e mezzo che stava giocando con i suoi amici davanti casa. I genitori della vittima citano in giudizio sia la madre sia gli eredi del marito (deceduto prima del giudizio) che non era il padre naturale dell’autore del fatto.

Il ruolo e i limiti

La sentenza in realtà apre alla possibilità che anche i genitori non naturali e che non abbiano riconosciuto i figli del coniuge possano rispondere dei fatti illeciti commessi dai minori coi quali convivono, ma ne fissa i limiti. La responsabilità nascerebbe soltanto quando la convivenza è stabile, la cura del coniuge costante e il rapporto non conflittuale.

In questi casi il ruolo paterno assunto potrebbe far sorgere un dovere educativo nei confronti del minore che, ai sensi dell’articolo 2048 Codice civile, fissa anche una precisa responsabilità civile per i fatti commessi da quest’ultimo.

A fare la differenza è anche l’età del minore. Se le responsabilità sono maggiori quando i figli sono incapaci quindi molto piccoli, diminuiscono quando i ragazzi vengono considerati capaci di intendere e di volere, secondo l’accezione civilistica.

Non è la prima volta che la giurisprudenza sposta indietro la capacità di intendere e di volere dei figli minorenni. La soglia dei 14 anni fissata, salvo prova contraria, per l’imputabilità penale del minorenne, non vale per la responsabilità civile dove non esiste un limite di età fissato per legge, di conseguenza l’attuale emancipazione sociale fa sì che i figli siano considerati capaci di intendere e di volere anche prima dei 14 anni, come precisato dai giudici.

Nel caso di specie, quindi, a rispondere dei fatti commessi dal figlio è stata soltanto la madre. A nulla è valso il tentativo di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il fatto, compreso presentarsi ai colloqui scolastici.

Per i giudici non basta andare a parlare con gli insegnanti del figlio minorenne per escludere la responsabilità della madre per il fatto illecito commesso. Il ragazzo infatti non si era integrato, non si impegnava nello studio e manifestava costanti segnali di insofferenza.

La «culpa in educando»

Per i giudici è onere dei genitori impartire un’educazione adeguata al carattere dei figli in modo da impedire che diventino pericolosi per sé e per gli altri. Quello che si richiede non è una ininterrotta presenza fisica accanto ai figli minorenni, che coinciderebbe con un costante obbligo di sorveglianza, ma un controllo sull’educazione impartita che consenta al figlio di avere un rapporto equilibrato con i coetanei. Un onere dettato dall’articolo 2048 del Codice civile che consentirebbe la prova liberatoria dei genitori soltanto quando possano dimostrare di «non aver potuto impedire l’evento».

Negli anni i giudici hanno ridimensionato molto la possibilità dei genitori di liberarsi dalla responsabilità per i fatti illeciti commessi dai figli, limitandola a casi isolati di condotte accidentali o di difesa a fatti illeciti altrui.

Anche condividere video offensivi o non essersi dissociati da condotte sbagliate commesse da altri non salva i genitori dalla c.d. “culpa in educando”. Quando i genitori non sono in grado, da soli a gestire i figli - concludono i giudici - devono chiedere aiuto o sostegno, senza rinunciare al dovere di impartire un’educazione adeguata.

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