Il CommentoPenale

Reato di autoriciclaggio e gestione societaria, evoluzione della dottrina e orientamenti giurisprudenziali

Il contributo è tratto dal Dossier Diritto " Autoriciclaggio e gestione societaria " , 8 aprile 2022, a cura della Redazione PlusPlus24 Diritto

di Fabrizio Ventimiglia*


Il contributo è tratto dal Dossier Diritto " Autoriciclaggio e gestione societaria " , 8 aprile 2022, a cura della Redazione PlusPlus24 Diritto

Il delitto di autoriciclaggio è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge n. 186 del 15 dicembre 2014, "Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all'estero, nonché per il potenziamento della lotta all'evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio".

Con l'inserimento dell'art. 648-ter 1 c.p. il Legislatore ha aggiornato il Codice penale al precipuo scopo di punire il reato di riciclaggio allorché posto in essere dal medesimo autore del reato da cui sono originati i beni successivamente reimpiegati, introducendo, pertanto, una fattispecie di reato proprio.

Fino all'introduzione del reato di autoriciclaggio le condotte successive al reato presupposto poste in essere dal medesimo soggetto, ancorché volte ad agevolarne il profitto o a nascondere la provenienza illecita delle utilità da esso derivanti, non venivano ritenute penalmente rilevanti ai sensi delle fattispecie di riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.

Invero, prima dell'entrata in vigore della citata legge, i fatti di autoriciclaggio potevano essere perseguiti solo attraverso la contestazione dell'art. 12-quinquies co. 2 del D.L. 8 giugno 1992 n. 306 (dal 2018 inserito nel Codice penale all'art. 512-bis), che punisce il "trasferimento fraudolento di valori", ovvero la condotta di chi "attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter".

Con il D.Lgs n. 195/2021 , in vigore dal 15 dicembre 2021, la fattispecie in parola è stata oggetto di talune modifiche, avendo il citato D.Lgs. posto rimedio al mancato recepimento nell'ordinamento italiano della Direttiva UE 2018/1673 sulla lotta al riciclaggio, volta ad attuare una cooperazione tra gli Stati membri nell'ambito della lotta al riciclaggio.

Con specifico riferimento alla fattispecie di autoriciclaggio, il D.Lgs. n. 195/2021 ha eliminato dalla lettera della norma l'espressione "non colposo" riferita al delitto presupposto , previsto una circostanza attenuante comune (in luogo di quella ad efficacia speciale già esistente) nel caso in cui il denaro, i beni o le altre utilità provengano da delitto, per la quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni, introdotto un nuovo comma che ha esteso il novero dei reati presupposto anche alle contravvenzioni, prevedendo per tali ipotesi nuove ed autonome cornici edittali, ed apportato una modifica di coordinamento al terzo comma della disposizione de qua.

Il nuovo art. 648-ter 1 c.p. – che punisce chi "avendo commesso o concorso a commettere un delitto, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa" – contempla, dunque, le medesime condotte già oggetto degli artt. 648-bis e 648-ter c.p., estendendo, rispetto alle citate fattispecie, le possibili destinazioni dei proventi illeciti nonché i possibili circuiti di contaminazione.

Più nel dettaglio, ciò che differenzia il reato di autoriciclaggio dalle fattispecie di riciclaggio o di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita è il profitto del reato, il quale non può corrispondere ai medesimi beni derivanti dal reato presupposto, dal momento che tale coincidenza determinerebbe un bis in idem. Dunque, il delitto di autoriciclaggio, pur basandosi sui proventi del reato presupposto, mantiene una propria autonomia sostanziale e giuridica, dovendo, pertanto, ricercarsi il profitto della fattispecie in esame nei proventi conseguiti attraverso l'impiego delle utilità illecite per mezzo di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative (cfr. Cass. pen., Sez. II, 07/06/2018, n. 30401 ).

La condotta materiale di autoriciclaggio, attuabile da parte del medesimo soggetto autore o concorrente nel delitto presupposto, può consistere, ai sensi del primo comma dell'art. 648-ter 1 c.p., tanto nell'impiego quanto nella sostituzione o nel trasferimento in attività economiche di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita. Ai fini dell'integrazione della fattispecie in esame, per impiego deve intendersi un'attività di immissione di utilità derivanti dalla commissione di un reato nei circuiti economici, mentre per sostituzione e trasferimento qualsiasi condotta idonea ad ostacolare l'identificazione del denaro o di altre utilità di provenienza illecita.

Le suddette condotte possono essere commesse nell'ambito di un'attività economica, per la quale deve intendersi qualsivoglia attività finalizzata alla produzione di beni o servizi, ai sensi dell'art. 2082 c.c., o di un'attività finanziaria, la cui definizione la si ricava dall'art. 106 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, secondo cui debba
intendersi l'assunzione di partecipazioni, la concessione di finanziamenti o la prestazione di servizi di pagamento e attività cambiavalute. In ogni caso, qualsivoglia condotta – tra quelle testé citate – il soggetto agente ponga in essere, l'elemento imprescindibile dell'azione penalmente rilevante si identifica sempre nell'attitudine dell'operazione ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei suddetti beni.

L'elemento soggettivo del reato in parola è integrato dal dolo generico che consiste nella consapevolezza della provenienza delittuosa dei beni e nella volontà di sostituirli, trasferirli o impiegarli in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice si ravvisa, oltre che nell'amministrazione della giustizia, nell'ordine economico, rispondendo tale fattispecie all'esigenza di fiducia del sistema economico e di risparmio.

La norma in esame circoscrive, tuttavia, il proprio ambito di applicazione con la previsione di cui al primo comma e con la clausola di non punibilità ora prevista al comma quinto, richiedendo, da un lato, che la condotta sia idonea ad ostacolare "concretamente" l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di impiego, sostituzione o trasferimento e, dall'altro, che il soggetto agente non si limiti alla mera utilizzazione o al godimento personale dei beni in parola.

Come anticipato, il delitto di autoriciclaggio persegue un fatto autonomo e successivo al perfezionamento del delitto presupposto – idoneo ad impedire, o perlomeno a rendere difficoltoso l'accertamento dell'origine delittuosa dei beni da esso derivanti – che "non può coincidere con quella costituente elemento materiale di tale reato, in quanto ciò determinerebbe una sua duplice rilevanza" ( Cass. pen., Sez. II, 27/01/2021, n. 7074 ). Invero, la ratio della disposizione di cui al primo comma risiede nella volontà del Legislatore di scongiurare la violazione dei principi di offensività e del ne bis in idem.

La fattispecie di autoriciclaggio risulta, pertanto, un reato a forma libera e di pericolo concreto, dovendosi, ai fini dell'integrazione del delitto, preliminarmente valutare quale elemento oggettivo l'idoneità della condotta dell'agente, che non deve essere necessariamente volta ad impedire l'accertamento della provenienza dei beni, ma anche solo a rendere difficoltosa la loro identificazione (cfr. Cass. pen., Sez. II, 21/06/2019, n. 37606 ).

Nella lettera della norma citata l'avverbio "concretamente" ha la precisa finalità di circoscrivere il novero dei comportamenti punibili alle sole condotte effettivamente idonee ad impedire l'accertamento dell'origine delittuosa dei beni oggetto del reato presupposto. Si prevede, dunque, che la valutazione relativa all'oggettiva idoneità della condotta ad ostacolare l'individuazione della provenienza illecita dei beni debba essere effettuata per mezzo di un giudizio ex ante basato su approfondite indagini in relazione alla sospetta operazione imprenditoriale (cfr. Cass. pen., Sez. V, 14/11/2019, n. 1203 ).

Sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, infatti, "in tema di autoriciclaggio, il criterio da seguire ai fini della individuazione della condotta dissimulatoria è quello della idoneità ex ante, sulla base degli elementi di fatto sussistenti nel momento della sua realizzazione, ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del bene, senza che il successivo disvelamento dell'illecito per effetto degli accertamenti compiuti, determini automaticamente una condizione di inidoneità dell'azione per difetto di concreta capacità decettiva" ( Cass. pen., Sez. II, 18/12/2019, n. 16059 ).

Come detto, al fine di circoscrivere ulteriormente l'ambito di applicazione della norma ed evitare una sovrapposizione delle fattispecie criminose, il quinto comma dell'art. 648-ter 1 c.p. (originario comma quarto) prevede una causa di esclusione della punibilità, applicabile limitatamente ai casi in cui la condotta del soggetto agente, autore del reato presupposto, consista nella "mera utilizzazione e godimento personale dei beni provento del delitto presupposto".

Detta previsione esclude, dunque, la punibilità delle condotte volte alla mera utilizzazione o al godimento personale dei beni da parte del medesimo autore del reato da cui questi derivano, principio esplicitato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui "in tema di autoriciclaggio, l'ipotesi di non punibilità di cui all'art. 648-ter 1, comma 4 c.p. è integrata soltanto nel caso in cui l'agente utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa" ( Cass. pen., Sez. VI, 30/01/2020, n. 13571 ). Ai fini dell'integrazione della scriminante è, dunque, necessario che, a seguito di una specifica valutazione del Giudice a quo, emerga un diretto utilizzo da parte del soggetto agente delle utilità derivanti dal fatto di reato, in quanto la ratio di tale clausola si individua ancora una volta nella volontà di evitare che il soggetto agente venga punito due volte per il medesimo fatto di reato.

Il reato di autoriciclaggio può, altresì, concorrere, in presenza di determinati presupposti, con i reati fallimentari. Segnatamente, il delitto in parola concorre con il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione qualora "attraverso una valutazione operata in concreto, non emerga il mero impiego in attività imprenditoriali dei medesimi beni e somme oggetto di distrazione fallimentare, ma sia accertata l'attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene" ( Cass. pen., Sez. V, 14/11/2019, n. 1203 ).

Nel caso di cui alla citata sentenza ricorreva, infatti, il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, posto in essere attraverso la distrazione prefallimentare dei beni della società; distrazione finalizzata a costituire più società con sedi negli esercizi commerciali della fallita. Ricorreva, tuttavia, al contempo il delitto di autoriciclaggio in virtù della condotta posta in essere dall'amministratore di una delle neocostituite società, che aveva proseguito la medesima attività di impresa sotto altro nome, ancora prima che la società "madre" fosse dichiarata fallita, utilizzando a tal uopo parte dei beni oggetto di distrazione. La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto sussistere nel caso in esame entrambe le ipotesi di reato sulla scorta della rilevata capacità dissimulatoria della successiva condotta di reimpiego dei beni distratti, attuata dal concorrente extraneus nel reato presupposto di bancarotta.

Di contro, in un caso in cui un amministratore poneva in essere una distrazione simulando un contratto di affitto tra la fallita e una newco e reimpiegando i beni oggetto di distrazione nelle attività economiche della citata newco, i Giudici di legittimità non hanno ritenuto integrato il reato di autoriciclaggio. In tal caso non si ravvisava, infatti, secondo la Corte, una capacità dissimulatoria della condotta de qua in presenza della sola distrazione realizzata per mezzo di un contratto di affitto di azienda simulato, in quanto difettava l'attitudine dell'operazione ad occultare l'origine illecita dei beni (cfr. Cass. pen., Sez. II, 04/07/2019, n. 44198 ).

Sulla scorta di tale pronuncia, ne consegue che, anche laddove il reato presupposto sia un reato fallimentare, la condotta di autoriciclaggio debba essere sempre connotata da un quid pluris che ne denoti la capacità dissimulatoria rispetto alla provenienza illecita del bene, in quanto punendo il mero trasferimento di beni oggetto di distrazione si incorrerebbe nella violazione del principio del ne bis in idem (cfr. Cass. pen., Sez. V, 01/02/2019, n. 8851; Cass. pen. Sez. I, 01/10/2020, n. 33394).

Sempre in tema di concorso tra reati fallimentari e autoriciclaggio, la distrazione oggetto del reato presupposto, secondo i Giudici di legittimità, può avvenire tanto in un momento antecedente quanto in un momento successivo al fallimento. Invero, "il delitto di autoriciclaggio riguardante il provento del delitto presupposto di bancarotta fraudolenta è configurabile anche nell'ipotesi di condotte distrattive compiute prima della dichiarazione di fallimento, in tutti i casi in cui tali condotte siano "ab origine" qualificabili come appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 c.p., per effetto del rapporto di progressione criminosa esistente fra le fattispecie, che comporta l'assorbimento di tale ultimo delitto in quello di bancarotta fraudolenta quando venga dichiarato fallito il soggetto ai danni del quale l'agente ha realizzato la condotta appropriativa" (Cass. pen. 1203/2019 cit.).

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito, in un caso di trasferimento di quote tra Società a responsabilità limitata in presenza di un'interferenza illecita realizzata nell'ambito di una procedura fallimentare, come "il reato di autoriciclaggio si configura anche quando la titolarità del profitto cambia per effettuazione di un'operazione tracciabile" (cfr. Cass. pen., Sez. II, 10/11/2021, n. 45397). Da tale pronuncia si evince, pertanto, che il cambiamento della titolarità nel profitto del reato, sebbene esito di una operazione tracciabile, non escluda la configurabilità del delitto di autoriciclaggio, risultando comunque un'operazione preclusiva rispetto all'identificazione della provenienza illecita delle utilità conseguite.

Parimenti, viene attribuita connotazione dissimulatoria alla condotta di reinvestimento del profitto illecito attraverso l'intestazione ad un terzo, persona fisica ovvero società di persone o capitali, ritenendosi integrato il delitto di autoriciclaggio in ragione del fatto che "mutando la titolarità giuridica del profitto illecito, la sua apprensione non è più immediata e richiede la ricerca ed individuazione del successivo trasferimento" (cfr. Cass. pen., Sez. II, 18/12/2019, n. 16059).

Con riferimento al delitto di autoriciclaggio è, altresì, contemplata una responsabilità amministrativa da reato in capo all'ente nell'interesse o a vantaggio del quale l'autore del reato abbia agito. A seguito dell'entrata in vigore della legge 186/2014, il delitto in esame è stato, infatti, inserito nel catalogo dei reati presupposto all'art. 25-octies del D.lgs 231/2001.

In relazione al tema della responsabilità amministrativa derivante dalla commissione del reato di autoriciclaggio si pongono, tuttavia, alcune questioni di compatibilità con la disciplina prevista dal citato Decreto, tuttora oggetto di dibattito dottrinale e giurisprudenziale. In particolare, si discute se, ai fini dell'integrazione del delitto di autoriciclaggio quale reato presupposto della responsabilità degli enti, i beni illeciti oggetto di impiego, sostituzione o trasferimento possano derivare anche da un reato non colposo non espressamente contemplato nel catalogo di cui al Decreto 231.

In tal senso, parte della dottrina, in virtù del principio di tassatività, non ritiene configurabile una responsabilità in capo all'ente in caso di reimpiego dei proventi di un reato non contemplato nel novero dei reati presupposto, in quanto l'accertamento di detta responsabilità non potrebbe basarsi sul solo fatto illecito commesso dalla persona fisica, dovendo essere, altresì, valutata la capacità dell'ente di predisporre adeguati presidi finalizzati a prevenire la commissione dei reati.

Sul punto si è espressa anche Confindustria rilevando che "se il reato-base consistesse in un reato presupposto della responsabilità ai sensi del Decreto 231, il Modello Organizzativo dovrebbe già prevedere presidi di controllo ad hoc e quindi non necessiterebbe di uno specifico aggiornamento. Viceversa, qualora il delitto-base dell'autoriciclaggio non rientrasse tra quelli presupposto elencati nel Decreto 231, la sua inclusione nelle aree di rischio da considerare ai fini della costruzione del Modello Organizzativo contrasterebbe con i principi di legalità e determinatezza che il Decreto 231 (art. 6, co. 2) applica ai Modelli stessi laddove prevede […] che essi siano redatti sulla base di aree di rischio riferite ai soli reati presupposto, senza menzionare ulteriori reati ad essi ricollegabili in astratto" (Confindustria, Circolare n. 19867 del 12 giugno 2015, Il reato di autoriciclaggio e la responsabilità ex Decreto 231 ).

Di diverso avviso, un'altra parte della dottrina che considera plausibile ricomprendere qualsiasi fattispecie nel novero dei reati da cui possano derivare i proventi illeciti oggetto di autoriciclaggio, osservando che in tal caso l'ente non sarebbe tenuto ad occuparsi dell'area di rischio relativa alla prevenzione del reato base, bensì del controllo circa l'eventuale successivo investimento dei relativi proventi.

Sul tema la giurisprudenza di legittimità è altrettanto divisa. Nel 2014, in concomitanza con l'introduzione del reato di autoriciclaggio nel nostro ordinamento, la Suprema Corte aveva ritenuto sussistere il rischio di una violazione del principio di tassatività, nonché di legalità, in relazione ad una interpretazione estensiva del D.lgs. 231/2001. Nello specifico, era stata esclusa la configurabilità di una responsabilità in capo all'ente per il reato di autoriciclaggio avente ad oggetto beni provento del reato di associazione a delinquere, in quanto detta fattispecie non era espressamente prevista nel novero dei reati di cui al citato Decreto. Di fatti, ricomprendendo indiscriminatamente qualsiasi fattispecie di reato nel catalogo dei reati presupposto, secondo la Suprema Corte, si sarebbe incorsi nel "pericolo di un'ingiustificata dilatazione dell'area di potenziale responsabilità dell'ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i modelli di organizzazione e di gestione previsti dall'art. 6 del citato D. Lgs., scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione" (Cass. pen., Sez. VI, 24/01/2014, n. 3635).

Sennonché con un più recente orientamento giurisprudenziale la Cassazione ha ritenuto di non poter escludere tout court la configurabilità della responsabilità amministrativa in capo all'ente, qualora il reato base non sia espressamente previsto quale reato presupposto, sostenendo che tale interpretazione estensiva consentirebbe una più capillare prevenzione del fenomeno di reimpiego dei proventi di reato evitando, pertanto, la conseguente alterazione del mercato mediante l'introduzione di capitali illeciti (cfr. Cass. pen., Sez., II, 04/05/2018, n. 25979). Nella citata sentenza i Giudici di legittimità hanno, infatti, affermato che "l'imprenditore che costringe i dipendenti, con la minaccia larvata di licenziamento, a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate e a lavorare per un orario superiore a quanto contrattualmente previsto, commette non solo il reato di estorsione, ma anche quello di autoriciclaggio, delitto per il quale risponde anche la società in base al D.lgs. 231/2001".

Un'ulteriore problematica per quanto attiene alla configurabilità della responsabilità amministrativa degli enti si pone con riferimento all'applicabilità della clausola di non punibilità prevista al quinto comma dell'art. 648-ter 1 c.p.

Occorre, infatti, chiarire se la scriminante, per cui il mero utilizzo o godimento delle utilità derivanti da reato non è punibile, sia strettamente legata alla persona fisica – dovendo intendersi quale causa di non punibilità in senso stretto – oppure possa riguardare anche un soggetto collettivo. Ebbene, anche su questo punto – in attesa di una pronuncia giurisprudenziale che dirima la questione – la dottrina rimane divisa, in quanto secondo una interpretazione più rigida tale scriminante viene ritenuta ancora \, mentre secondo alcuni autori dovrebbe applicarsi anche all'ente quale persona giuridica operante nel mercato.

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* A cura dell'Avv. Fabrizio Ventimiglia, Studio Legale Ventimiglia, Presidente Centro Studi Borgogna