Il CommentoPenale

Riforma Cartabia, focus su durata delle indagini preliminari e presupposto dell'esercizio dell'azione penale

Il "filo conduttore" della recentissima legge cd. "Cartabia" è costituito dall'esigenza introdurre misure ed istituti finalizzati ad accelerare il corso del procedimento penale, sia riducendone i "tempi" tecnici, sia mirando ad un reale ed effettivo filtro dei procedimenti destinati a transitare nella fase dibattimentale

di Francesco Giovannini*

Il "filo conduttore" della recentissima legge cd. "Cartabia" (D.L.vo n. 150 del 10.10.22), che rappresenta senza dubbio la riforma del sistema penale più articolata e pregnante dai tempi dell'entrata in vigore – ormai più di tre decadi orsono – del codice "Vassalli", è costituito dall'esigenza (anche legata ai benefici patrimoniali del P.N.R.R.) di introdurre misure ed istituti finalizzati ad accelerare il corso del procedimento penale, sia riducendone i "tempi" tecnici, sia mirando ad un reale ed effettivo filtro dei procedimenti destinati a transitare nella fase dibattimentale.

Fermo rimanendo che la via maestra per realizzare questo obiettivo sarebbe (o sarebbe stata) quella di operare sugli aspetti strutturali del "sistema Giustizia", potenziando e rafforzando le necessarie risorse, umane e materiali (più magistrati, più ausiliari e cancellieri, più personale di segreteria, più mezzi tecnici di supporto, etc.), alcune novità introdotte possono sicuramente considerarsi condivisibili e, almeno sulla carta, funzionali al raggiungimento dell'obiettivo. Tra queste ultime devono annoverarsi il nuovo regime di durata delle indagini preliminari e la nuova regola per l'esercizio (o meno) dell'azione penale all'esito delle stesse.

In base al nuovo testo dell'art. 405, comma 2, c.p.p ., i termini a disposizione del Pubblico Ministero per svolgere le indagini in seguito all'iscrizione del nominativo dell'indagato nel registro delle notizie di reato sono di sei mesi per i reati contravvenzionali e di un anno per i delitti, salvo i delitti (di maggiore gravità/rilevanza) previsti dall'art. 407, comma 2, c.p.p., per i quali il termine cd. iniziale di indagine è di un anno e mezzo.

La novità più importante in questo ambito è costituita, per la verità, dalla riforma del regime delle proroghe di indagine. Infatti, nel sistema pre-vigente una delle principali ragioni di ingiustificata dilazione dei tempi di durata delle indagini era senza dubbio costituita dalla facoltà riconosciuta al P.M. di ricorrere ad una pluralità di proroghe, spesso "giustificate" da formulette di stile (presunta "impossibilità" di concludere le indagini nei termini ordinari; sussistenza di "giusta causa", etc.) sulle quali, a volere essere onesti, praticamente mai i Giudici per le indagini preliminari (sollecitati ad autorizzare dette proroghe) effettuavano un vaglio critico, disponendo la proroga richiesta sostanzialmente in automatico.

In questo contesto, veniva ingenerato nel P.M. il convincimento di avere disposizione un lasso di tempo per indagare costituito, di fatto, non solo dal termine "base" previsto dalla legge, ma, bensì, da un periodo complessivamente esteso sino ai termini massimi consentiti dalle proroghe, spesso assolutamente non necessitate dall'effettiva complessità delle indagini o da altre ragioni oggettive.

Con il nuovo art. 406, commi 1 e 2, c.p.p ., viene oggi stabilito che il P.M. possa usufruire di una sola proroga (non superiore ai sei mesi), che, peraltro, non può più essere giustificata da una spesso impalpabile "giusta causa" ma che deve essere motivata dalla (reale) complessità delle indagini. L'innovazione è certamente condivisibile; spetterà ai Giudici per le indagini preliminari dare effettività a questo precetto, verificando che, in concreto, le indagini siano realmente così "complesse" da non potere essere effettuate nel termine ordinario di cui al secondo comma dell'art. 405 c.p.p.

Ancora più importante e significativa è la previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 407 bis c.p.p. , di nuova introduzione, con la quale si definisce (finalmente) una precisa durata per il cd. "termine di riflessione" a disposizione del P.M.. Infatti, un'evidente lacuna del sistema pre-vigente consisteva nel non stabilire un termine massimo entro il quale il P.M. dovesse, all'esito delle indagini, prendere la sua decisione circa l'esito del procedimento, esercitando l'azione penale (con le diverse modalità previste dall'ordinamento) o chiedendo l'archiviazione.

Questo faceva sì che, in molti casi (specie quelli che non avevano una particolare rilevanza o significativi riflessi mediatici), il fascicolo compiutamente istruito o, comunque, non più suscettibile di essere arricchito con nuove indagini, rimanesse in una sorta di limbo senza che il P.M. prendesse posizione circa la sua sorte.

Oggi questo non dovrebbe più accadere, perché la norma sopra menzionata stabilisce che la decisione (in un senso o nell'altro) del P.M. debba intervenire entro tre mesi. Ci si è espressi al condizionale perché il termine in parola appare meramente "ordinatorio", ossia il mancato rispetto di questo precetto non è assistito da sanzioni processuali, anche se il nuovo art. 415 ter c.p.p . prevede la facoltà, in favore sia dell'indagato che della persona offesa, di assumere iniziative per " sbloccare " questa eventuale inerzia.

Se le sopra indicate novità devono comunque essere salutate con favore e possono contribuire ad "accelerare" i tempi e l'esaurimento della fase delle indagini preliminari, è chiaro che l'innovazione più rilevante (che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe condurre ad un significativo "risparmio" dei tempi della Giustizia) dovrebbe essere costituita dal nuovo testo del primo comma dell'art. 408 c.p.p., in forza del quale il P.M., all'esito delle indagini, deve chiedere l'archiviazione del procedimento laddove constati che "gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna" dell'indagato.

La nuova previsione normativa è (potenzialmente) assai significativa, perché, fino a ieri, il P.M. doveva chiedere l'archiviazione quando riteneva infondata la notizia di reato perché gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non erano "idonei a sostenere l'accusa in giudizio".

Oggi, invece, il P.M. deve chiedere l'archiviazione se non ritiene che tali elementi comportino una "ragionevole previsione di condanna" dell'indagato.

È chiaro come quest'ultima regola appaia più rigorosa, nel senso che la prognosi chiesta oggi al P.M. per "andare avanti" con il procedimento richieda una valutazione più pregnante circa la probabilità (espressa in termini di "ragionevolezza") di condanna dell'imputato, mentre il criterio precedente faceva riferimento alla mera possibilità di "sostenere l'accusa in giudizio", locuzione che non richiedeva una previsione circa l'esito dello stesso.

Per quanto, ovviamente, anche con il vecchio precetto il P.M. non avrebbe dovuto esercitare l'azione penale in relazione a procedimenti penali evidentemente infondati, la nuova norma (se correttamente intesa ed applicata) dovrebbe portare ad una maggiore e più rigorosa selezione dei procedimenti destinati alla fase dibattimentale, perché con l'odierna regola dovrebbero essere destinati all'archiviazione anche procedimenti "traballanti", di cui, cioè, appaia non agevole immaginare un esito finale di condanna sulla base degli elementi raccolti dal P.M. nella fase delle indagini, e senza che il P.M. possa confidare (o semplicemente sperare) che lo svolgimento del processo possa compensare o "raddrizzare" la prova incerta o incompleta raccolta sino a quel momento.

E' chiaro come ridurre il numero dei processi celebrati dinanzi ai Tribunali rappresenti la vera sfida, così come è chiaro che solo in questo modo si realizzerebbe un'autentica svolta per decongestionare l'apparato della Giustizia e ridurne i tempi (soprattutto liberando tempo e risorse per quei processi che meritano davvero di essere celebrati); come di consueto, l'effettiva portata di questa significativa innovazione dipenderà da come la magistratura saprà e vorrà recepirla.

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*A cura dell'Avv. Francesco Giovannini, Head of White Collar Crimes di Eversheds Sutherland