Salvi i commenti lapidari se legati a fatti veri e rilevanti
I giudizi negativi pubblicati sui social network non integrano il reato di diffamazione anche se sono espressi in maniera sintetica e icastica, poiché il mezzo lo richiede. Tuttavia, devono essere agganciati a fatti veri e riscontrabili e devono vertere su temi di rilevanza sociale.
Lo ha sottolineato da ultimo il Tribunale di Caltanissetta che, con l’ordinanza del 17 febbraio scorso (giudice Gilotta), ha affermato che non si possono considerare diffamatori i giudizi negativi pubblicati su un sito di un’associazione di consumatori ed espressi su richiesta di alcuni utenti. Tanto che il Tribunale ha respinto la richiesta di rimuovere alcuni commenti fatta da una società oggetto dei giudizi e che si riteneva diffamata.
Per decidere quando una condotta astrattamente diffamatoria possa essere giustificata dall’esercizio del diritto di critica, i giudici civili hanno applicato i principi elaborati in sede penale. Ma i social network pongono una questione ulteriore: si tratta di adattare criteri in passato utilizzati per la professione giornalistica anche ai comuni cittadini che, attraverso i social, possono intervenire nel dibattito pubblico e ottenere ampia diffusione per le loro opinioni.
Perché sia riconosciuto il diritto di critica occorre che l’opinione espressa sia correlata a un interesse sociale, sia agganciata a fatti veri e venga esposta senza trasmodare in gratuite e non necessarie aggressioni all’altrui reputazione (Cassazione, sentenza 31079/2017). La critica, inoltre, non deve avere solo finalità denigratorie ma deve servire almeno a rendere efficace la comunicazione di un fatto. Per questo va tenuto conto del contesto in cui viene formulata (Cassazione, sentenza 5633/2015).
La Cassazione civile ha poi considerato la rete internet un mezzo che può aggravare la valenza diffamatoria per la rapidità della diffusione delle notizie, ma anche perché induce i fruitori a un’informazione sintetica spesso limitata alla lettura dei titoli dell’home page (Cassazione, ordinanza 12012/2017).
Ma se questo vale per l’attività giornalistica, diversi devono essere i parametri riguardanti i social che hanno un più delineato percorso di circolazione e che comunque coinvolgono soggetti che si scambiano sinteticamente dati, opinioni e, nel caso affrontato dal Tribunale di Caltanissetta, veri e propri servizi informativi.
Il contenzioso era stato promosso da una Srl titolare di un social network, che prospettava ai suoi utenti possibilità di guadagno a fronte dell’acquisto di pacchetti pubblicitari e aveva citato un’associazione di consumatori che sul proprio sito aveva definito quella offerta «truffaldina», aggiungendo che la società era una piramide finanziaria di cui non fidarsi e nei confronti della quale sarebbe intervenuta la Consob. Secondo il Tribunale, l’associazione ha espresso i suoi giudizi molto critici non con finalità denigratorie ma nell’ambito di un’attività consulenziale pubblica basata su informazioni fornite dagli utenti e su loro legittime richieste. Rispondendo ai quesiti, l’associazione ha ravvisato un’offerta al pubblico di prodotti finanziari in violazione della disciplina del Testo unico bancario. Per questi motivi, la richiesta di rimozione urgente è stata respinta.