Comunitario e Internazionale

Sea Watch, fermo della nave solo se è provato il pericolo

di Marina Castellaneta

Controlli sì, ma dopo aver messo in salvo le vite umane. Gli Stati possono disporre un fermo di una nave che soccorre migranti ed effettuare controlli, ma devono dimostrare, in modo concreto e circostanziato, l’esistenza di pericoli per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro sulla nave e l’ambiente, e non giustificare il controllo solo per il numero elevato di persone a bordo. Lo ha chiarito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza Sea-Watch depositata ieri (cause riunite C-14/21 e C-15/21), accolta con soddisfazione dalla Commissione europea, intervenuta anche nel procedimento. «Assistere chi è in difficoltà in mare – ha dichiarato il portavoce della Commissione Ue, Eric Mamer - è un dovere morale e contemporaneamente un obbligo giuridico, anche alla luce del fatto che la rotta nel Mediterraneo continua ad essere tra le più attive. L’Ue fornisce il suo supporto ma le operazioni di salvataggio in mare sono competenza dei Paesi membri. Le Ong che svolgono assistenza umanitaria in mare non devono essere criminalizzate».

È stato il Tar Sicilia a rivolgersi a Lussemburgo per un chiarimento sulla direttiva 2009/16 sul controllo dello Stato di approdo, come modificata dalla 2017/2110. Al centro della controversia, due navi “Sea Watch” da un lato, che avevano impugnato il provvedimento di fermo e il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e le capitanerie di Palermo e di Porto Empedocle, dall'altro. Con l'aggiunta di una divergenza tra le autorità italiane secondo le quali le due navi presentavano carenze che mettevano a rischio la sicurezza e quelle dello Stato di bandiera ossia la Germania, secondo le quali non era presente alcuna carenza.

Prima di tutto, la Corte ha chiarito che la direttiva 2009/16, che ha come fine il miglioramento della sicurezza marittima, con l’applicazione di sistemi di controllo e di fermo basati su criteri uniformi, va applicata alle navi che fanno scalo o ancoraggio in un porto di uno Stato membro con l'esclusione, contenuta in un elenco tassativo, di pescherecci, navi di Stato usate per scopi non commerciali e imbarcazioni da diporto che non si dedicano ad operazioni commerciali. Le navi private – chiarisce la Corte - che si occupano di soccorso umanitario, anche se sono formalmente classificate come navi da carico da parte dello Stato di bandiera, rientrano nel campo di applicazione della direttiva.

I giudici nazionali, quindi, in forza del primato del diritto dell’Unione devono interpretare il diritto interno in modo conforme alla direttiva tenendo conto della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare e della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare. Pertanto, il comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso e salvare vite in mare, situazione che può portarlo a passare attraverso il mare territoriale di un altro Stato, con la conseguenza che l'obbligo di soccorso marittimo ha effetti giuridici sullo Stato di bandiera, ma anche su quello costiero. Quest’ultimo, quindi, può adottare un provvedimento di ispezione supplementare solo dopo le operazioni di trasbordo o di sbarco e solo se vi sono esigenze concrete di sicurezza, secondo il significato della direttiva, che devono essere provate dallo Stato costiero che procede al controllo, comunicando in via preliminare, per iscritto, le ragioni allo Stato di bandiera. È anche precluso allo Stato di approdo di chiedere certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera.

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