Separazione: dopo la conversione smette di cucinare e fare il bucato, rischia l'addebito
È quanto si legge nella ordinanza n. 19502 della Corte di cassazione che ha accolto (con rinvio) il ricorso di un ex marito
Il rifiuto di cucinare, di occuparsi della casa e persino di fare il bucato da parte della moglie ormai spiritualmente distante dopo aver sposato un credo religioso diverso da quello del marito può integrare quegli elementi di "disaffezione" che rendendo intollerabile la vita coniugale possono essere valutabili ai fini dell'addebito della separazione. Lo scrive la Corte di cassazione nell'ordinanza n. 19502 che ha accolto (con rinvio) il ricorso di un ex marito.
In primo grado, il Tribunale di Napoli aveva rigettato le reciproche domande di addebito, ponendo a carico del marito l'obbligo di contribuire al mantenimento della moglie e del figlio nella misura, rispettivamente, di 400 e 250 euro mensili. Proposto ricorso, la Corte d'appello ha ritenuto che la frequentazione di una congregazione religiosa da parte della ex, "di per sé, non potesse assumere rilievo determinante per la pronuncia di addebito, dato che non risultava dimostrato che un simile comportamento avesse comportato una violazione dei doveri coniugali e assunto rilievo causale nel provocare l'intollerabilità della convivenza".
A questo punto l'ex marito ha proposto ricorso in Cassazione affermando che il giudice del merito non avrebbe valorizzato, sempre ai fini dell'addebito, il fatto che la donna a causa dell'adesione al nuovo culto "avesse assunto un comportamento contrario ai doveri conseguenti al rapporto matrimoniale" (come testimoniato da un teste).
E la Prima sezione civile gli ha dato in parte ragione affermando che la situazione è bisognevole di un approfondimento che verrà fatto in sede di rinvio. È vero, argomenta la Corte, che il mutamento di fede religiosa e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, configurandosi come esercizio dei diritti garantiti dall'art. 19 Cost., non possono di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione"; a meno che però, precisa l'ordinanza, "l'adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge".
Ed è proprio questo il punto su cui gli ermellini chiedono un supplemento di indagine. Secondo la corte di merito infatti la violazione dei doveri coniugali, "in termini di atteggiamenti di indifferenza verso il marito (tanto da non occuparsi più delle faccende domestiche)" non trovava adeguata conferma nella deposizione testimoniale. Mentre la scelta "di dedicarsi alla congregazione religiosa o di trascorrere tempo davanti al computer non aveva avuto un'effettiva incidenza causale, intervenendo in un progetto di vita di separati in casa".
Ma se questo è vero, incalza la Cassazione, allora la Corte di merito avrebbe dovuto dar conto del fatto che la violazione dei doveri coniugali era soltanto la conseguenza di una rottura dell'unione già avvenuta e non la causa del fallimento della stessa. È invece mancata proprio la "sicura collocazione temporale in un'epoca idonea a giustificare la ravvisata esclusione del nesso di causalità".
Inoltre, il teste non si era limitato a riferire di atteggiamenti di disaffezione quali l'essersi "rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato, ma ha raccontato pure di continue denigrazioni e richieste di soldi". "Queste condotte – conclude la Corte -, del tutto ignorate dalla Corte di merito, ove fossero consistite in un comportamento moralmente violento dovevano essere considerate ontologicamente incompatibili con gli obblighi di assistenza morale e materiale e collaborazione nell'interesse della famiglia a cui ciascuno dei coniugi è tenuto ex art. 143, comma 2, cod. civ. ed assumevano incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi causa eventualmente preesistente di crisi dell'affectio coniugalis".