Casi pratici

Sopravvenienze: quali "effetti" oltre la risoluzione?

Il principio di autoresponsabilità

di Laura Biarella


la QUESTIONE
Qual è il rapporto tra sopravvenienze negoziali e risoluzione del contratto e come incide sul tipo contrattuale? Come può tutelarsi il contraente nelle ipotesi di impossibilità totale e parziale della prestazione? Come è stata inquadrata la sopravvenienza pandemica?


Il rimedio della risoluzione del contratto - diversamente da quel che accade in tema di nullità, di annullabilità o di rescissione - presuppone un'alterazione dell'equilibrio negoziale. Occorre chiarire maggiormente i termini della questione per poter appieno comprenderne le essenziali sfaccettature di fondo. Sulla scorta del principio dell'autoresponsabilità della dichiarazione contrattuale, ogni contraente, sottoscrivendo il contratto, si assume la paternità non soltanto dell'intero documento, ma anche di tutte le pattuizioni che in esso compaiono, dimodoché l'altro contraente possa legittimamente, fondatamente e giustificabilmente contare sulla serietà di quelle dichiarazioni, ovverosia sul fatto che la propria controparte debba sottostare al regolamento negoziale, pena l'attivazione di specifiche azioni giurisdizionali tese a sanzionare l'inadempimento. A volte, succede però che l'applicazione del principio di autoresponsabilità finisca per gravare oltremisura su una delle parti del contratto, ragion per cui si palesa indispensabile intervenire affinché il regolamento di interessi si moduli elasticamente al contenuto (successivo) della realtà effettuale. Il motivo per il quale è possibile intervenire legislativamente sul contratto ormai concluso non riposa - come qualcuno potrebbe essere indotto a credere - sul rilievo che il mutamento delle condizioni negoziali avrebbe spinto l'altro stipulante (quello al quale le novelle condizioni siano estranee) a non contrattare in quel determinato modo (e cioè che lo avrebbe spinto a contrattare a condizioni più favorevoli per il soggetto pregiudicato dal cambiamento dell'assetto degli interessi), bensì sulla circostanza che per il primo potere non può essere indifferente l'analisi del legame che unisce la conclusione del contratto al suo sviluppo. In altri termini, è lo stesso legislatore a pretendere (cfr. gli artt. 1366 e 1375 c.c.) che le parti tengano fede ai patti, ma qualora ciò non possa succedere la durezza normativa viene - per volontà del medesimo legislatore - sostituita e mitigata attraverso l'adozione dei correttivi che esamineremo.


La risoluzione per motivi diversi dall'inadempimento
In linea generale, può dirsi che la maggior parte della casistica inerente alla risoluzione del contratto riguarda l'inadempimento di una delle parti, al quale l'altra (quella non inadempiente) reagisce chiedendo al giudice di sciogliersi dal contratto e di ottenere il risarcimento del danno. Di fianco a siffatta forma risolutiva, il Codice civile (v. gli artt. 1463-1467) stabilisce altre due ipotesi (una propria e una impropria) nelle quali è possibile chiedere la risoluzione del contratto: la risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione (c.d. risoluzione impropria) e la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (c.d. risoluzione propria), fenomeni che costituiscono l'oggetto principale del presente commento. La locuzione impossibilità sopravvenuta della prestazione indica la possibilità di svincolo dal contratto qualora la prestazione pattuita divenga in tutto o in parte impossibile; la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione indica la plausibilità di venir meno alla parola originariamente data allorché si attualizzi un appesantimento della prestazione da effettuare verso l'altro contraente nei confronti della controprestazione da questi esigibile, tale che il valore della prima sia in peius sproporzionato rispetto al valore della seconda. La definizione offerta, ancorché lineare, non è da sola in condizione di sviscerare l'essenza degli istituti trattati, che abbisognano entrambi dell'analitica indicazione delle rispettive componenti portanti.
La distruzione del bene come causa di risoluzione del preliminare
Il Tribunale di Spoleto (27 marzo 2021, n. 219) ha affrontato una vicenda ove la parte attrice, dopo aver firmato un contratto di compravendita preliminare avente ad oggetto un compendio immobiliare in veste di promissario acquirente, domandava in seguito la risoluzione del medesimo, a causa del terremoto che ha interessato il centro Italia nella seconda metà del 2016, chiedendo altresì la restituzione della caparra confirmatoria già corrisposta. La domanda giudiziale si è fondata sulla sopravvenuta inservibilità degli immobili che avevano ricevuto, a dir dell'attore, irreparabili danni e per l'effetto, risultavano non più idonei ad assolvere alla funzione per la quale erano stati promessi in compravendita. La parte convenuta (promittente venditore) si costituiva in giudizio chiedendo la conclusione del contratto definitivo, quindi affermando che la prestazione fosse ancora possibile, e sostenendo che l'immobile non fosse andato interamente distrutto dal sisma. Secondo la tesi del convenuto, il promissario acquirente conservava ancora un interesse, anche considerato che l'attività agricola cui intendeva adibire gli immobili poteva essere interamente esercitata nonostante i danni patiti. La questione giuridica sottesa atteneva all'estensione della risoluzione ex art. 1463 c.c. ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare per sopravvenuta impossibilità della prestazione per fatto non imputabile alle parti, consistente nella parziale distruzione del compendio immobiliare oggetto di causa, in conseguenza del terremoto del 2016. La decisione del Tribunale è ruotata sul contratto preliminare di compravendita quale strumento di controllo delle sopravvenienze alla luce di eventuali variazioni delle circostanze di fatto che possono intervenire medio-tempore, tra il momento obbligatorio e quello traslativo. Per l'effetto, il Tribunale è stato chiamato a pronunciarsi se, nella specie, poteva essere ravvisata l'impossibilità della prestazione, ovvero se la stessa poteva risultare ancora possibile. Il Tribunale di Spoleto, rilevando come oggetto del preliminare di compravendita un compendio immobiliare a vocazione agrituristica, non agricola come asserito dal convenuto, e che l'interesse della parte promissaria acquirente fosse proteso all'acquisto di quest'ultimo, ha chiamato in campo il principio di interdipendenza tra la prestazione e la controprestazione che contraddistingue i contratti a prestazioni corrispettive, ritenendo che il promissario acquirente non avesse più interesse alla conclusione del contratto definitivo di compravendita, in virtù della circostanza che "la prestazione della controparte, sebbene ancora materialmente possibile, è divenuta inutile a soddisfare l'interesse dell'odierna attrice di acquistare un compendio immobiliare per ivi svolgere l'attività imprenditoriale agrituristica". Nella sentenza si legge "la distruzione integrale di una delle strutture immobiliari esistenti con danneggiamento dell'altra e quindi la loro complessiva inservibilità all'uso agrituristico cui erano destinate, vale senz'altro a rendere l'oggetto del contratto non più esistente nella conformazione che le parti avevano inteso ed il preliminare di vendita non più idoneo a realizzare la funzione economico-sociale che le parti si erano proposte di realizzare", con naturale conseguente risoluzione del contratto preliminare ex art. 1463 c.c. e restituzione della caparra confirmatoria versata".
Emergenza sanitaria da Covid-19 e contratti: la soluzione dell'Ufficio del Massimario
L'emergenza sanitaria scaturita dall'epidemia da Covid-19, ha costretto legislatore e giurisprudenza a rivedere l'approccio normativo e giurisprudenziale in ambito contrattualistico. L'Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione ha divulgato una relazione (n. 56 del 8 luglio 2020), tramite la quale ha approfondito le "Novità normative sostanziali del diritto "emergenziale" anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale", rilevando che nel "cimentarsi con le ripercussioni della pandemia sull'universo delle imprese e dei debitori civili, il Governo italiano ha fatto ricorso a più riprese allo strumento del decreto-legge […] Sul piano del diritto sostanziale, ne è venuta fuori una trama fitta di norme emergenziali e transitorie, tese, nel complesso, ora a sterilizzare alcune disposizioni di diritto societario e concorsuale avvertite come stridenti rispetto alla specialità della crisi, ora a concedere moratorie generalizzate, ora, infine, a congelare la situazione". In relazione alla fase esecutiva dei contratti sinallagmatici l'Ufficio del massimario ha esaminato le seguenti "problematiche interconnesse: quella della gestione delle sopravvenienze perturbative dell'equilibrio originario delle prestazioni contrattuali; quella dei correlati rimedi di natura legale e convenzionale", considerando che le misure di contenimento imposte dal Governo "hanno potuto sbilanciare, in via definitiva, l'economia del negozio, vuoi impegnando ultra vires una parte nell'esecuzione delle prestazioni che la gravano, vuoi impedendole di trarre dal rapporto le utilità in considerazione delle quali il contratto è stato concluso". Nell'ambito dei contratti il termine "sopravvenienza" indica una circostanza sopravvenuta alla conclusione del contratto che, pur non impedendone in toto l'esecuzione, incide sul programma contrattuale, perturbando l'originario equilibrio delle prestazioni contrattuali (ovvero quello esistente nella fase genetica del rapporto) e rendendo l'esecuzione medesima difficoltosa. Dalla prospettiva ontologica la sopravvenienza riguarda i contratti a esecuzione continuata o periodica (contratti di durata), nonché i contratti a esecuzione differita. La sopravvenienza negativa risulta passibile di minacciare l'equilibrio giuridico ed economico del contratto, comportando l'eccessiva onerosità della prestazione a carico di un contraente. Ove i contraenti non abbiano pattuito una clausola di adeguamento preordinata a vanificare gli effetti di una sopravvenienza negativa, emerge la questione tesa ad individuare lo strumento a disposizione del contraente svantaggiato dalla sopravvenienza, finalizzato quindi a impedire che l'altro contraente possa pretendere una prestazione divenuta eccessivamente onerosa per effetto di circostanze che avrebbero dovuto rimanere immutate. Gli strumenti predisposti dal codice civile, in deroga al principio di vincolatività del contratto (art. 1372 c.c.), sono la risoluzione per sopravvenuta impossibilità, totale o parziale, della prestazione (artt. 1463 e 1464 c.c.) e la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.). Ambedue gli istituti presentano lo scopo di porre rimedio all'intervenuta alterazione (funzionale ed economica) del sinallagma. Riguardo l'utilizzabilità di tali strumenti rispetto ai contratti resi squilibrati dall'emergenza sanitaria, l'Ufficio del massimario ha osservato che quello della risoluzione per impossibilità sopravvenuta risulta difficilmente praticabile poiché, in linea di principio, operativo "solo quando l'emergenza epidemiologica rende la prestazione dedotta in giudizio completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile", mentre le obbligazioni pecuniarie "tali non divengono mai, non essendo esposte ad una materiale o giuridica oggettiva impossibilità, ma solo ad una soggettiva inattuabilità, connessa all'indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa". Secondo lo stesso Ufficio la nozione di impossibilità della prestazione non ricomprende la cd. impotenza finanziaria, la quale, seppur incolpevole, risulta priva di "una vis liberatoria del debitore dall'obbligazione pecuniaria". Pure il secondo strumento è stato ritenuto, dal medesimo Ufficio, non adatto alla soluzione della problematica delle sopravvenienze in quanto "riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che, in teoria, avrebbe meno interesse al riequilibrio, in quanto da esso avvantaggiata". L'istituto di cui all'articolo 1467 c.c., tuttavia, si appalesa, secondo l'Ufficio del massimario, "dimostrativa di come l'ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto negoziale". Per l'Ufficio del massimario, l'esigenza "manutentiva del contratto" è soddisfatta tramite la rinegoziazione del contratto (divenuto) squilibrato, negoziazione che, nell'ipotesi ove i contraenti non abbiano, nella stipula del contratto, fissato pattiziamente le modalità di gestione delle sopravvenienze, è da intendersi come oggetto di un dovere specifico a carico delle parti che ha quale riferimento gli articoli 1175 e 1375 c.c., "espressione del principio solidaristico che innerva il nostro sistema". Tali disposizioni si riferiscono alla buona fede, con riguardo all'attuazione del rapporto obbligatorio da parte del debitore e del creditore e alla fase dell'esecuzione. La nozione di buona fede in questione risulta di tipo oggettivo, da intendersi quale regola di condotta nell'esecuzione del contratto, declinata in termini di dovere di correttezza. Secondo l'Ufficio del massimario, "la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. assume assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute" e risultando, nell'attuale contesto emergenziale "dilaniato dalla pandemia", suscettibile di assolvere "la funzione di salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale". La rinegoziazione è apparsa l'unica soluzione prospettabile con riguardo sia alle prestazioni contrattuali "concretamente interdette dalle misure di contenimento" sia alle prestazioni contrattuali che "si inseriscono nell'ambito di scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di materie e servizi". L'obbligo di rinegoziazione non si pone, secondo l'Ufficio del massimario, in conflitto con la libertà di autodeterminazione, "ma, al contrario, rispetta l'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso: l'obbligo infatti, assecondando l'esigenza cooperativa propria dei contratti di lungo periodo, consente la realizzazione e non la manipolazione della volontà delle parti". Per l'assolvimento di tale obbligo "la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto […] Si avrà, per contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell'accordo". Il rifiuto opposto dalla parte a rinegoziare "si risolve in un comportamento opportunistico che l'ordinamento non può tutelare e tollerare". Per quanto attiene alla possibilità di un intervento giudiziale in chiave sostitutivo-correttiva, l'Ufficio del massimario ha richiamato l'articolo 2932 del codice civile: "la parte che per inadempimento dell'altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza". Al giudice "potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario", fermo restando che "la decisione del giudice non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendo calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale". L'Ufficio del massimario ha quindi escluso che l'imposizione del dovere di rinegoziazione possa rivelare un "rimedio eccentrico al sistema": in realtà, dotando la parte "oberata dalla sopravvenienza" del potere di invocare la riduzione a equità del contratto divenuto squilibrato si attua una "rimodulazione estensiva" di un mezzo già contemplato dal diritto dei contratti.


L'impossibilità sopravvenuta
A detta dell'art. 1256 c.c. l'impossibilità sopravvenuta della prestazione estingue l'obbligazione quando essa sia totale, permanente e non dipenda dalla volontà o dal comportamento dell'obbligato. Se l'impossibilità è solo parziale, il debitore si libera dal vinculum iuris eseguendo la prestazione de residuo (art. 1258 c.c.).
Riprendendo i moniti delle disposizioni codicistiche or ora richiamate, l'art. 1463 c.c. prescrive aggiuntivamente che la parte che abbia ricevuto la corresponsione della prestazione a opera del contraente la cui obbligazione non sia divenuta impossibile da eseguirsi deve restituire quanto ricevuto, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito (artt. 2033 ss. c.c.). Questo, giacché non sarebbe richiedibile a latere debitoris la ricezione di una prestazione se essa, nel quadro complessivo della contrattazione, non trovi riscontro nella ricezione della corrispondente controprestazione, quando essa sia diventata impossibile. L'impossibilità di eseguire la prestazione, per essere rilevante in sede di risoluzione contrattuale, deve possedere i seguenti requisiti:
- deve essere sopravvenuta al contratto (dacché se fosse originaria si configurerebbe un'ipotesi di nullità per inesistenza dell'oggetto);
- deve essere totale (perché se è parziale il contratto deve essere eseguito per il rimanente, con conseguente riduzione della prestazione per l'altra parte e con possibilità aggiuntiva per essa di recedere dal contratto qualora non vi sia un apprezzabile interesse creditorio alla sua esecuzione parziale: v. l'art. 1464 c.c.);
- deve essere permanente (visto che l'impossibilità momentanea, temporale o transeunte farebbe rimanere il contratto in stato di quiescenza, ma non sarebbe in condizione di detronizzare gli effetti scaturenti dall'intercorsa stipula);
- non deve essere imputabile alla parte per la quale si è verificata l'impossibilità (altrimenti gli obblighi negoziali permarranno, per quella parte, in tutta la loro efficacia e validità).
L'eccessiva onerosità sopravvenuta
L'art. 1467 c.c. accorda la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto alla parte contrattuale la cui prestazione, da misurarsi in relazione alla controprestazione stabilita dal negozio giuridico venutosi a formare, sia divenuta, per motivi straordinari e imprevedibili, eccessivamente onerosa: ciò - si è osservato - tenuto conto delle condizioni economiche delle parti, nonché del contenuto del contratto stipulato.
Lo sbilanciamento registratosi - precisa la normativa - vale in riferimento ai soli contratti a esecuzione periodica o continuata (tipico esempio: il contratto di somministrazione) ovvero a esecuzione differita (es. l'appalto), applicandosi, per i contratti commutativi (il principe dei quali è il contratto di compravendita) la disciplina positiva generale, che prevede l'integrale addossamento degli oneri derivanti dall'impossibilità sopravvenuta della prestazione - pur se discendente da causa non imputabile al debitore - al contraente irrispettoso della singola pattuizione, vale a dire a quello che si è reso inadempiente rispetto agli obblighi assunti (assecondandosi - anche analogicamente ed estensivamente - il noto brocardo romanistico res perit domino : cfr. l'art. 1465 c.c., che nei contratti aventi effetti traslativi o costitutivi non libera il debitore/compratore dall'esecuzione della prestazione anche quando la cosa non gli sia stata consegnata).


Considerazioni conclusive
Le sopravvenienze che legittimano la risoluzione del contratto derivano dall'accertata sproporzione che ex post si viene a creare in virtù di profili non causalmente riconducibili alla condotta della parte che non possa più tener fede all'impegno preso nello stesso modo in cui essa vi avrebbe potuto tener fede ove la sproporzione non si fosse attualizzata. Diversamente (cfr. le ipotesi in cui la prestazione sia divenuta totalmente o parzialmente impossibile da porre in essere), sarà rimessa discrezionalmente alla volontà del creditore di tenere in piedi ovvero di far terminare la pattuizione. In tal caso, la tutela che la legge accorda alle parti vale solo per il soggetto la cui prestazione sia rimasta interamente possibile (ma cionondimeno non esigibile dalla controparte contrattuale). Il diritto potestativo in questione dovrà essere temperato dalla valutazione giudiziale circa l'interesse che il creditore conservi all'adempimento residuo della prestazione dedotta in contratto. L'apprezzamento in oggetto è un apprezzamento di merito e, se ben motivato e immune da vizi logico-giuridici, esso sarà incensurabile in sede di legittimità. L'interesse creditorio all'adempimento deve parametrarsi a esigenze (di natura oggettiva o soggettiva) da valutarsi in concreto, tenendo conto dell'importanza, del valore e del significato effettuale che la stipulazione rivesta sul versante del creditore. Parimenti, anche la valutazione giudiziaria dell'essenzialità della singola prestazione avvolta nel contratto plurilaterale deve essere condotta tenendo presenti i profili fondanti del negozio giuridico, ma in questo caso il giudice dovrà sforzarsi di accertare la pregnanza della prestazione della cui essenzialità si discute ponendo mente alla posizione di ciascuna parte contrattuale. Sia l'impossibilità sopravvenuta che l'eccessiva onerosità sopravvenuta devono ricollegarsi all'intima portata del vincolo giuridico inter partes, non potendo essere desunte in via automatica, vale a dire non potendo essere sganciate dalla funzionalizzazione degli interessi che la mutata contrattazione è chiamata a perseguire. I contratti aleatori rimarranno giocoforza al di fuori della dinamica risolutiva, a meno che vengano in rilievo situazioni giuridico-pratiche che sfuggano dall'ordinaria alea. Nell'ambito dell'emergenza sanitaria innescata dalla pandemia da Covid 19, la rinegoziazione è apparsa l'unica soluzione prospettabile con riguardo sia alle prestazioni contrattuali interdette dalle misure di contenimento, sia alle prestazioni contrattuali che si inseriscono nell'ambito di scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di materie e servizi. L'obbligo di rinegoziazione non si pone, secondo l'Ufficio del massimario della Corte di Cassazione, in conflitto con la libertà di autodeterminazione, bensì, al contrario, rispetta l'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso: l'obbligo, assecondando l'esigenza cooperativa propria dei contratti di lungo periodo, consente la realizzazione e non la manipolazione della volontà delle parti. Per l'assolvimento di detto obbligo, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto. Si avrà, per contro, inadempimento qualora la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa, ovvero si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell'accordo. Il rifiuto opposto dalla parte a rinegoziare, sempre secondo l'Ufficio in questione, si risolve in un comportamento opportunistico che l'ordinamento non può tutelare e tollerare. Per quanto attiene alla possibilità di un intervento giudiziale in prospettiva sostitutivo-correttiva, l'Ufficio del massimario ha operato un richiamo all'articolo 2932 c.c.: "la parte che per inadempimento dell'altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza". Al giudice "potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario", fermo restando che "la decisione del giudice non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendo calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale". L'Ufficio del massimario, infine, ha escluso che l'imposizione del dovere di rinegoziazione possa rivelare un "rimedio eccentrico al sistema": in realtà, dotando la parte "oberata dalla sopravvenienza" del potere di invocare la riduzione a equità del contratto divenuto squilibrato si attua una "rimodulazione estensiva" di un mezzo già contemplato dal diritto dei contratti.

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