Penale

Spese “pazze” dei consiglieri regionali, c'è il peculato

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di Patrizia Maciocchi

Peculato per il consigliere regionale che utilizza i soldi pubblici per esigenze personali già coperte da altri compensi o indennità o usa una documentazione troppo generica per giustificare l’uso del denaro pubblico . Per la Cassazione (sentenza 53331) sono da considerare una “distrazione” non solo le spese “pazze” fatte da due consiglieri dell’Italia dei Valori (costituta parte civile) ma anche quelle che in teoria, sarebbero state collegate al ruolo svolto, come vitto, trasporti e alloggi. Voci per le quali i politici locali prendevano già un rimborso forfettario mensile.

La Suprema corte sul punto si muove nel solco tracciato dalla sezione controllo della Corte dei Conti. I giudici contabili, riguardo alla rendicontazione dei gruppi consiliari, hanno infatti escluso che i contributi pubblici possano «essere destinati ad attività dei consiglieri che già trovano copertura nel trattamento economico, il quale comprende la cosiddetta diaria mensile».

E nel caso esaminato c’era un’indennità mensile di 8.800 euro, oltre a un rimborso che oscillava dai 2.925 euro a 4.681 secondo la distanza tra il luogo di domicilio e il capoluogo della regione. A completare il tutto: un assegno di fine mandato, il vitaliazio e il rimborso spese di viaggio, vitto e alloggio per le missioni autorizzate dalla Presidenza.

Nello specifico, in ogni caso, mancava del tutto la prova che le spese sostenute dalla ristorazione, ai viaggi, all’acquisto di beni, fossero riconducibili a fini istituzionali, per la genericità delle ricevute. Dai “giustificativi” non era possibile risalire né all’identità degli ospiti nè all’occasionelegata all’attività politica.

I giudici respingono anche la tesi della difesa seconda la quale si poteva ipotizzare il reato di truffa. I ricorrenti si erano appropriati (concetto in cui rientra anche la distrazione) di somme che possedevano già, senza ricorrere ai raggiri necessari per la truffa. La produzione dei documenti non era lo strumento per conseguire le risorse ma per nascondere, in un secondo momento, la destinazione indebita: il che integra appunto il peculato.

Corte di cassazione, sentenza 23 novembre 2017, n. 53331

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