Sui derivati cassazione e l’Europa parlano due lingue diverse
La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 8770/2020 sulla validità dei contratti derivati (interest rate swap) rischia di travolgere il settore finanziario, imponendo rilevanti modifiche alla tecnica redazionale e alla prassi degli intermediari nella loro conclusione. È ragionevole attendersi, come è già stato annunciato, ulteriori contenziosi da parte di enti pubblici e soggetti privati, che tenteranno di liberarsi da vincoli finanziari ritenuti gravosi. La sentenza, risolvendo due questioni relative agli strumenti finanziari stipulati dagli enti locali prima del 2013, contiene un articolato obiter dictum sulla “causa concreta” perseguita da ogni contratto derivato e sull’esigenza che possa correttamente realizzarsi tramite la previa condivisione di tre elementi: (i) il cosiddetto mark to market (stima del valore di mercato effettivo attribuito allo strumento finanziario); (ii) gli asseriti costi impliciti gravanti sul cliente; (iii) gli scenari probabilistici di rischio al momento della stipulazione.
Secondo la Cassazione, prima di sottoscrivere i contratti, gli istituti finanziari devono aver fornito ai propri clienti informazioni chiare su questi elementi a pena di nullità. Si introducono così “nuovi” requisiti informativi, con efficacia retroattiva, che possono comportare problemi di coordinamento con norme e princìpi di diritto europeo prevalenti negli ordinamenti degli Stati membri e vincolanti per tutti i giudici nazionali. Ad esempio, l’introduzione di un rigoroso requisito informativo che impone di descrivere dettagliatamente gli scenari probabilistici, secondo modelli scientifici inevitabilmente opinabili, potrebbe violare il diritto fondamentale alla libera prestazione di servizi (art. 56 Tfue), anche considerando che un tale livello di dettaglio non è previsto dalle direttive europee in materia di strumenti finanziari (Mifid I e II). Gli Stati membri non possono imporre agli istituti finanziari obblighi di informazione più stringenti in materia, tranne in casi eccezionali e previa notifica alla Commissione europea. Anche la sanzione della nullità del contratto potrebbe essere ritenuta un limite indiretto alla libera prestazione dei servizi e, dunque, integrare un’altra violazione dell’art. 56 Tfue.
Spesso accade, inoltre, che i contratti derivati siano conclusi da intermediari finanziari esteri o, comunque, questi ultimi siano parti di accordi collegati ad altri disciplinati dal diritto italiano (back to back agreement). Ciò può determinare un conflitto tra i princìpi stabiliti dalla Cassazione e il diritto alla libera circolazione dei capitali nell’Unione europea (art. 63 Tfue) perché la nullità “seriale” dei contratti derivati stipulati con contraenti italiani potrebbe integrare un’indebita restrizione ai movimenti di capitali tra Stati membri. Gli intermediari potranno richiedere ai giudici nazionali di disporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Ue affinché si pronunci sulla compatibilità del diritto italiano (come interpretato dalla Cassazione) con le norme di diritto europeo. Dato che molti contratti derivati sono soggetti al diritto straniero (spesso inglese), la sentenza della Cassazione impone riflessioni anche sulla disciplina europea di diritto internazionale privato che i giudici devono applicare per individuare eventuali norme “imperative” o di “ordine pubblico”.
In base al Regolamento Roma 1 (applicabile anche nel Regno Unito ai contratti conclusi fino al 31 dicembre 2020), la legge scelta dalle parti non consente di eludere le norme inderogabili dello Stato a cui si riferiscano tutti gli altri elementi. Anche i giudici stranieri potrebbero così ritenere di dover applicare le regole interpretate dalla Cassazione (o disporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia) qualora concludessero che, in relazione a un contratto derivato a cui è applicabile una legge diversa da quella italiana, tutti gli altri elementi siano collegati all’Italia. In materia, comunque, esistono precedenti dei giudici britannici che si sono pronunciati a favore degli intermediari finanziari, escludendo di poter applicare inderogabili norme italiane a contratti derivati con enti locali italiani disciplinati dal diritto britannico.
Come accaduto in passato, è ragionevole attendersi che gli intermediari avvertano l’esigenza di agire “in prevenzione” dinanzi ai giudici degli Stati stranieri al cui diritto sono soggetti molti contratti, chiedendo di ordinarne l’esatta esecuzione e riducendo così il rischio di lunghi contenziosi in Italia. Non si può escludere il rischio, comunque, che gli intermediari possano incontrare difficoltà a eseguire in Italia pronunce straniere non conformi ai princìpi della Cassazione, salvo che la Corte di Giustizia le dichiari contrarie al diritto europeo.