Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 12 e il 16 giugno 2023

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di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d’Appello affrontano i temi dell’accertamento del danno-conseguenza, della legittimità del canone cd. a scaletta nelle locazioni ad uso non abitativo, della ripartizione delle spese della bolletta dell'acqua nel condominio, del danno da mancato apporto del sostegno didattico ad un allievo in condizioni di disabilità e, infine, dei debiti dell’azienda ceduta e della tutela dei suoi creditori. Da parte loro i Tribunali sono chiamati a pronunciarsi in materia di rilevanza della coltivazione di un fondo ai fini dell’usucapione, di distinzione tra  comodato ordinario e precario, di preliminare di vendita immobiliare, di azione negatoria e, infine, di diritto al compenso degli amministratori delle società di capitali.

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RESPONSABILITÀ E RISARCIMENTO

Fatto illecito - Danno conseguenza - Danno ingiusto. (Cc, artt. 1223, 2056)

Chiarisce la Corte d’Appello di Firenze che l'accertamento di un danno-conseguenza (patrimoniale e non) ha valenza pregiudiziale nel giudizio di responsabilità, costituendo elemento costitutivo, non solo dell’obbligazione risarcitoria, ma anche della connessa responsabilità. E così, in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 c.c. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare, perché non vi è alcun danno da risarcire. La fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza: ciò vuol dire che la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056 c.c.. Secondo la Corte toscana dunque, il  “danno” di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 c.c. non è altra cosa dal “danno ingiusto” di cui si parla nella prima parte: se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto. Causalità materiale e causalità giuridica non sono così le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti divista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto, il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della consequenzialità immediata e diretta. Cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale: la distinzione è logica, non cronologica. Ne segue che l’individuazione di un danno risarcibile è elemento essenziale ai fini della responsabilità civile. Il danno conseguenza assume poi rilevanza giuridica non per la mera differenza patrimoniale fra il prima e il dopo dell'evento dannoso, ma solo in quanto cagionato da un evento lesivo di un interesse meritevole di tutela ad un determinato bene della vita; reciprocamente, l'evento di danno è giuridicamente rilevante solo se produttivo del danno conseguenza quale concreto pregiudizio al bene della vita. La nozione di danno ingiusto di cui all'art. 2043 c.c., rappresenta la sintesi di questi due reciproci vettori.
Corte di appello di Firenze, sez. II, 12 giugno 2023, n. 1236

LOCAZIONI
Immobili ad uso non abitativo - Locazione - Canone a scaletta.
(Legge 27 luglio 1978, n. 392, artt. 32, 79)

Si sofferma la Corte d’Appello di Messina sulla questione della validità della clausola determinativa del canone di locazione cd. a scaletta. Chiarisce così che, in base al principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola con cui viene pattuita l'iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto (a) mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo, oppure (b) mediante il frazionamento dell'intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione, ovvero (c) correlando l'entità del canone all'incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione delle parti, sull'equilibrio economico del sinallagma. Al contrario, la legittimità di tale clausola va esclusa qualora risulti - dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione è onerata la parte che invoca la nullità - che i contraenti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall'art. 32 L. n. 392/1978 e così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, I, della medesima legge. Si presuppone che nelle locazioni ad uso non abitativo non operino, quanto meno all'atto della conclusione del contratto, le esigenze di tutela del conduttore che sole giustificano l'imposizione di limiti alla facoltà del proprietario di richiedere il canone ritenuto più remunerativo. La natura commerciale o professionale degli interessi perseguiti dal conduttore, fanno sì che le parti si vengano a trovare in posizione di sufficiente parità di forze. Né vi sono indicazioni normative, o principi di logica interpretativa, che inducano a ritenere che una tale libertà di contrattazione sia limitata alla fissazione del canone relativo al primo anno di durata del rapporto, impedendo di pattuirne la variazione, ed in particolare l'aumento, per gli anni successivi (salvo l'adeguamento Istat).
• C orte di Appello di Messina, sez. II, 12 giugno 2023, n. 522

CONDOMINIO
Condominio negli edifici - Bollette dell’acqua - Ripartizione delle spese
. (Cc., art. 1123)
Sottolinea in punto di diritto la Corte d’Appello di Brescia come, nel condominio negli edifici, salva diversa convenzione, la ripartizione delle spese della bolletta dell'acqua, in mancanza di contatori di sottrazione installati in ogni singola unità immobiliare, debba effettuarsi (art. 1123, I, c.c.) in base ai valori millesimali, sicché è viziata, per intrinseca irragionevolezza, la delibera assembleare, assunta a maggioranza, che, adottato il diverso criterio di riparto per persona in base al numero di coloro che abitano stabilmente nell'unità immobiliare, esenti dalla contribuzione i condomini i cui appartamenti siano rimasti vuoti nel corso dell'anno. Il comma 1 della citata disposizione, infatti, detta un criterio per le spese di tutti i beni e servizi di cui i condomini godono indistintamente, basato su una corrispondenza proporzionale tra l'onere contributivo ed il valore della proprietà di cui ciascuno condomino è titolare. Lo stesso art. 1123, II, c.c., a sua volta, stabilisce che, se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può farne. Ora, è esatto che questo secondo criterio dal punto di vista pratico richiede un puntuale adattamento al caso singolo per una sua più compiuta specificazione, varie potendo essere le concrete modalità di attuazione del principio che rapporta la spesa all'uso, e che quando detto rapporto può essere tradotto in pratica con più sistemi che attuano, in modo più o meno soddisfacente riguardo alle circostanze del caso, il precetto di legge, la preferenza accordata, in concreto, ad uno di essi non è viziata da illegittimità e sfugge, pertanto, al controllo del Giudice. Ma la norma in questione ha riguardo al godimento potenziale che il condomino può ricavare dalla cosa o dal servizio comune, atteso che quella del condomino è una obbligazione propter rem che trova fondamento nel diritto di comproprietà sulla cosa comune, sicchè il fatto che egli non ne faccia uso non lo esonera dall'obbligo di pagamento della spesa. Sotto questo profilo, va considerato che anche in un appartamento rimasto non abitato possono tuttavia esservi altri usi dell'acqua, ad es. per le pulizie dell'appartamento o per l'annaffiamento delle piante, o perdite d'acqua.
Corte di Appello di Brescia, sez. II, 13 giugno 2023, n. 1005

FAMIGLIA E MINORI

Minore disabile - Diritto all’istruzione - Violazione - Risarcimento danni. (Cost., artt. 2, 3, 38; L. 5 febbraio 1992, n. 104, D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297)
La Corte d’Appello di Caltanissetta osserva che, ove sussista l’ipotesi di un allievo in condizione di disabilità ex L. n. 104/1992, e allo stesso sia stato assegnato un numero di ore di sostegno inferiore rispetto a quello di cui effettivamente necessita (risultante dal P.E.I.), il danno da mancato apporto del sostegno didattico deve liquidarsi come danno non patrimoniale, in astratto distinguibile in due tipologie: dinamico-relazionale (cioè da compromissione della finalità di inclusione, aiuto e facilitazione all’apprendimento a cui la figura dell’insegnante di sostegno è deputata in relazione al numero di ore accertate come necessarie rispetto ai bisogni educativi dell’alunno disabile) e da sofferenza, identificabile con lo smarrimento, se non con il patema d’animo, che l’alunno disabile prova nel ritrovarsi nell’aula privo di insegnante di sostegno. Tale tutela risarcitoria, lungi dal costituire ipotesi risarcitoria meramente sanzionatoria, trova il suo fondamento nel danno conseguenza, ovvero nel pregiudizio arrecato all’alunno disabile, certamente discriminato nel suo percorso educativo (e nel suo diritto di accedere all’istruzione con “pari armi” rispetto agli altri) per effetto della minore copertura delle ore assegnate per l’insegnante di sostegno. Precisamente, il diritto all'istruzione del disabile, ed in particolare del disabile grave, quale sancito dall'art. 38, III, Cost. e dai principi di solidarietà collettiva ex artt. 2, 3 e 38 Cost., costituisce un diritto fondamentale rispetto al quale il Legislatore (in primis) e l'amministrazione (in attuazione della legge) non possono esimersi dall'apprestare un nucleo indefettibile di garanzie fino anche a giungere alla determinazione di un numero di ore di sostegno pari a quello delle ore di frequenza, in caso di accertata situazione di gravità del disabile. In base a quanto disposto dalla L. n. 104 cit., e dal D.Lgs. n. 297/1994 (che, in via di sintesi, sancisce il diritto del disabile all'integrazione scolastica e allo sviluppo delle sue potenzialità), è illegittima la condotta dell'istituto scolastico che riconosca un monte-ore settimanali di sostegno inferiore, rispetto a quelle individuate come necessarie.
Corte di Appello di Caltanissetta, 14 giugno 2023, n. 235

SOCIETÀ E IMPRESE
Cessione d’azienda - Cedente e cessionario - Responsabilità solidale.
(Cc., art. 2560)
Presupposto formale per usufruire dell’esonero da responsabilità solidale della cessionaria per i debiti della cedente, ai sensi dell’art. 2560 c.c., è – secondo quanto afferma in sentenza la Corte d’Appello di Lecce - che tali debiti aziendali risultino annotati nelle scritture contabili dell’alienante. La norma, posta a tutela dell’acquirente rispetto a eventuali passività taciute in fase contrattuale, va interpretata nel senso che la prevista annotazione nei libri contabili non ammette equipollenti: la mera conoscenza in capo alla cessionaria, in ordine all’esistenza del debito (anche solo potenziale) della cedente, non è idonea a surrogare l’adempimento dell’obbligo formale dettato dall’art. 2560, II, c.c.. Tuttavia, al fine poi di integrare la protezione del cessionario, con l’effettiva salvaguardia dei diritti del creditore, il principio di solidarietà fra cedente e cessionario deve essere applicato considerando la "finalità di protezione" della richiamata disposizione codicistica, la quale permette di far comunque prevalere il principio generale di responsabilità solidale del cessionario qualora risulti, da un lato, un utilizzo della norma volto a perseguire fini diversi rispetto a quelli per i quali essa è stata introdotta e, dall'altro, un quadro probatorio che, ricondotto alle regole generali fondate anche sul valore delle presunzioni, consenta di assicurare una tutela effettiva al creditore. E così, laddove vi sia spazio per ritenere che la cessione di azienda sia stata utilizzata come strumento fraudolento per spogliare la società debitrice del proprio attivo, e precludere in tal modo il recupero del credito, il principio solidaristico prevale sul dato formale, purché il quadro probatorio consenta di assicurare tutela effettiva al creditore. Ed ancora, sempre n tema di cessione di azienda, alla stregua del regime fissato dall'art. 2560, II, c.c., con riferimento ai debiti inerenti l'esercizio dell'azienda ceduta anteriori al trasferimento, allorchè la cessione sia avvenuta nel corso di un processo al cui esito sia stata pronunciata una sentenza poi azionata in via esecutiva, è opponibile al cessionario il titolo conseguito dal ceduto nei confronti del cedente, relativo ad un rapporto contrattuale d'impresa non del tutto esaurito.
Corte di Appello di Lecce, sez. I, 14 giugno 2023, n. 527


USUCAPIONE
Coltivazione del fondo rustico - Rilevanza
. (Cc, artt. 1141, 1158)
È affermazione dell’adito Tribunale di Tivoli quella secondo cui, ai fini della prova del possesso di un fondo, utile per l’usucapione, la sua coltivazione è di per sé manifestazione di una attività corrispondente all'esercizio della proprietà; per cui, presumendosi ex art. 1141 c.c. il possesso in colui che esercita il potere di fatto sulla cosa, spetta a chi contesta tale possesso provare che il terreno è coltivato in base ad un titolo diverso dal diritto di proprietà. L’acquisto della proprietà per usucapione comporta che il possessore debba esplicare con pienezza, esclusività e continuità il potere di fatto corrispondente all'esercizio del relativo diritto, manifestando un comportamento rivelatore, anche all'esterno, di una indiscussa e piena signoria di fatto su di essa, contrapposta all'inerzia del titolare. Elementi costitutivi dell'acquisto della proprietà ex art. 1158 c.c. sono il possesso pacifico (determinato dal comportamento acquiescente e dismissivo del proprietario), pubblico (ossia acquistato in modo non clandestino ovvero a clandestinità terminata), continuo e non interrotto (con l'intenzione di esercitarlo per tutto il tempo all'uopo previsto dalla legge). Con l’espressione animus possidendi si indica non già la convinzione di essere proprietario o titolare di altro diritto reale sulla cosa, bensì l'intenzione di comportarsi come tale, esercitando facoltà corrispondenti a quel diritto e facendo in modo di apparire ai terzi come l'effettivo titolare. Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve provare tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del corpus, ma anche dell’animus. In materia di prova si precisa, invero, che la domanda di usucapione è soggetta alla dimostrazione quanto mai rigorosa in ordine all'inizio, alla durata ed alle modalità del possesso ad usucapionem. Ed allora, ai fini della prova degli elementi costitutivi dell'usucapione, la coltivazione del fondo – secondo diversi arresti della giurisprudenza - non è sufficiente, perchè, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l'intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta uti dominus.
• Tribunale di Tivoli, 13 giugno 2023, n. 758

CONTRATTO DI COMODATO
Comodato ordinario – Comodato precario
. (Cc, artt. 1803, 1809, 1810)
Il Tribunale di Milano si sofferma sulla distinzione tra il comodato ordinario, prevedente un tempo/uso determinato, con conseguente applicazione della disciplina di cui agli artt. 1803-1809 c.c., e il comodato precario, cioè senza determinazione di durata, con applicazione della disciplina di cui all’art. 1810 c.c.. Trattasi di distinzione di particolare rilievo in quanto è solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., ovvero nel caso del comodato precario, connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di eventualmente desumerlo dall’ uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito al comodante richiedere la restituzione secondo la sua volontà. L’art. 1809 c.c. disciplina, invece, la restituzione nel comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consenta di stabilire la scadenza contrattuale. Esso è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno (v. comma II). Ebbene, il comodato che abbia ad oggetto un’abitazione destinata a casa familiare del comodatario costituisce un contratto il cui termine finale è desumibile dall’uso per il quale l’immobile è stato consegnato, pertanto avrà durata fino a quando permangono le esigenze abitative della famiglia del comodatario. Difatti, sottolinea ancora l’adito Tribunale, anche se le parti non indicano espressamente una durata, la concorde volontà che l’immobile sia destinato al soddisfacimento delle esigenze abitative della famiglia, determina un vincolo di destinazione che conferisce all’uso dell’immobile un termine implicito. Tale inquadramento della fattispecie (nell’ambito del comodato a termine) comporta che il comodante non possa chiederne la restituzione ad nutum, ma, al contrario, debba dimostrare un bisogno urgente ed imprevisto. Con la precisazione infine che, ai fini della qualificazione qui in esame, assume un ruolo centrale l’intenzione delle parti in merito alla destinazione della res.
Tribunale di Milano, sez. XIII, 14 giugno 2023, n. 4949

VENDITA
Preliminare di vendita immobiliare - Ipotechi e trascrizioni - Cancellazione.
(Cc., artt. 1180, 1243, 2900, 2913, 2932)
Secondo quanto afferma in sentenza il Tribunale di Monza, nel preliminare di vendita immobiliare, l'inadempienza del promittente all'obbligo di provvedere alla cancellazione di pregresse ipoteche, ovvero la sopravvenienza di iscrizioni o trascrizioni implicanti pericolo di evizione, non osta a che il promissario possa decidere l'esecuzione in forma specifica (a norma dell'art. 2932 c.c.), e comporta che il promissario medesimo, ove si avvalga di tale facoltà, è dispensato dall'onere del pagamento, o della formale offerta del prezzo, potendo chiedere che il Giudice, con la pronuncia che tenga luogo del contratto non concluso, fissi condizioni e modalità di versamento idonee ad assicurare l'acquisto del bene libero da vincoli e a garantirlo dall'eventuale dell'evizione. Quanto innanzi fermo restando che, a questi fini, la parte interessata debba proporre apposita domanda, giacché, altrimenti, la volontà del Giudice si sovrapporrebbe all'autonomia negoziale ed al potere dispositivo delle parti. Né all'accoglimento della domanda ai sensi della richiamata disposizione codicistica osta l'art. 2913 c.c., secondo il quale non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento, riferendosi detta norma al trasferimento coattivo e non a quello volontario, ed essendo rispettati gli effetti derivanti dall'anteriorità delle rispettive trascrizioni. Il Giudice, quindi, ben può consentire al promissario di impiegare una somma di denaro per la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni gravanti sull'immobile attuando così un legittimo intervento riequilibrativo delle contrapposte prestazioni (e assicurando l'acquisto del bene libero da vincoli e tali da garantirlo da eventuale evizione). Con la precisazione che questa possibilità è fuori dello schema dell'azione surrogatoria dell'art. 2900 c.c. e rientra in quello della compensazione giudiziale (art. 1243 c.c.) del credito della promittente con il debito del promissario che adempie ex art. 1180 c.c., un'obbligazione altrui.
Tribunale di Monza, sez. I, 14 giugno 2023, n. 1395

PROPRIETÀ
Azione negatoria - Diritto di proprietà - Onere della prova.
(Cc., artt. 948, 949)
Il Tribunale di Rieti innanzi al quale sono avanzate tipiche domande di accertamento del diritto di proprietà, svolte da taluni soggetti e nei confronti di altri soggetti che sono (pacificamente) nel possesso dei beni oggetto delle domande medesime, si sofferma con riferimento al relativo onere probatorio. Chiarisce così  come, in linea generale, colui il quale agisca per ottenere il mero accertamento della proprietà (o comproprietà) di un bene, anche unicamente per eliminare uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto esercitato sullo stesso, è tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla probatio diabolica della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato erga omnes. In particolare, avuto riguardo al caso di specie sottoposto al suo giudizio, l’adito Giudice qualifica la domanda di giustizia alla stregua di actio negatoria servitutis ex art. 949 c.c. e, cioè, di domanda tesa ad accertare l’inesistenza di diritti di terzi sulla cosa che forma oggetto della pretesa di parte attrice. Ed osserva così che, in tema di azione negatoria, poiché la titolarità del bene si pone come requisito di legittimazione attiva, e non come oggetto della controversia, la parte che agisce in giudizio non ha l’onere di fornire la prova rigorosa del diritto di proprietà, come accade nell’azione di rivendica, essendo sufficiente la dimostrazione con ogni mezzo, anche in via presuntiva, del possesso del fondo in forza di un titolo valido, mentre incombe sul convenuto l’onere di provare l’esistenza del diritto di compiere l’attività lamentata come lesiva dall’attore. L'azione negatoria, in particolare, presuppone che il proprietario abbia motivo di temere che le iniziative altrui (i diritti affermati, o le turbative, o le molestie) possano recargli un pregiudizio e così la citata norma di cui all'art. 949 c.c. legittima il proprietario a chiedere la cessazione dell’attività altrui quale che sia (di fatto o di diritto) se quella attività limita il suo potere di godimento sul bene di cui è proprietario.

T ribunale di Rieti, 14 giugno 2023, n. 284

SOCIETÀ E IMPRESE
Società di capitali - Amministratore - Diritto al compenso.
(Cc., artt. 1709 , 2389)
Precisa il Tribunale di Roma come, dal contenuto dell’art. 2389 c.c., si desuma che l’ordinamento riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto al compenso per l’attività da essi svolta per conto della società in adempimento del mandato ricevuto. Deve quindi essere qualificata in termini di diritto soggettivo perfetto la pretesa dell’amministratore di una società di capitali al compenso per l’opera prestata, dovendosi presumere che l’attività professionale sia stata svolta a titolo oneroso. Legittimato passivo rispetto a tale domanda di determinazione del compenso è, naturalmente, la società nel cui interesse l’amministratore assume di avere agito mediante il compimento delle prestazioni, tipiche del rapporto gestorio, inerenti all’esercizio dell’impresa costituente l’oggetto della società. Tanto chiarito in via generale, il Tribunale osserva che in difetto delle manifestazioni formali per la determinazione del compenso (ex art. 2389 c.c.) quest’ultimo deve intendersi non definito, così che il compenso medesimo deve essere giudizialmente determinato, su domanda dell’amministratore, in applicazione dell’art. 1709 c.c., anche mediante liquidazione equitativa. In tale prospettiva, infatti, in mancanza di determinazione da parte dell’atto costitutivo, ovvero dell’assemblea, rimangono prive di effetti altre eventuali forme di determinazione, tra cui l'accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge. Con la precisazione, ancora, che non esiste un compenso minimo, tanto è vero che gli amministratori possono accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguato al lavoro svolto, anche se, in tali ipotesi, vi deve essere il loro consenso, ancorché tacito. Ove lo statuto nulla disponga in merito al compenso dell’amministratore, competente per la relativa determinazione è l’assemblea dei soci, che può provvedervi sia con la medesima delibera di nomina dei soggetti preposti alle funzioni gestorie, sia con autonoma e separata deliberazione. Sicchè, ove nulla disponga al riguardo lo statuto, ovvero l’assemblea si rifiuti o ometta di procedere alla relativa liquidazione o, ancora, lo determini in misura assolutamente inadeguata, l’amministratore ben può ricorrere all’Autorità Giudiziaria per la relativa determinazione.
Tribunale di Roma, sez. XVI, spec. in materia di imprese, 14 giugno 2023, n. 9537

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