Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 9 e il 13 gennaio 2023

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d'Appello affrontano i temi dell'esecuzione di lavori extracontrattuali nell'appalto, dell'ambulatorietà delle servitù, della riduzione della clausola penale, dell'accreditamento sanitario e, infine, del danno da perdita del rapporto parentale.
Da parte loro i Tribunali trattano le materie della responsabilità medica, della natura giuridica dei messaggi inviati per posta elettronica certificata, della malattia del lavoratore, dell'investimento di un pedone e, infine, del conto corrente bancario.


APPALTI
Contratto di appalto - Lavori extracontrattuali – Pattuizione e corrispettivo
Adita in materia di contratto di appalto la Corte d'Appello di Campobasso si sofferma sull'esecuzione dei lavori cc.dd. extra contratto.

Si pone così la distinzione tra le nuove opere richieste dal committente – che costituiscono varianti in corso d'opera ove, pur non comprese nel progetto originario, siano necessarie per l'esecuzione migliore, ovvero a regola d'arte dell'appalto o, comunque, rientrino nel piano dell'opera stessa - e i lavori extracontrattuali ove gli stessi siano in possesso di una individualità distinta da quella dell'opera originaria, pur essendo ad essa connessi, ovvero ne integrino una variazione quantitativa o qualitativa oltre i limiti di legge.
Sicché, nel primo caso, l'appaltatore è, in linea di principio, obbligato ad eseguire le opere, mentre, nel secondo, le opere debbono costituire oggetto di un nuovo appalto.
Per lavori extra contratto di appalto si debbono intendere, dunque, tutte quelle opere diverse ed estranee rispetto al progetto originario che, ad esempio, possono venire eseguite – per convenienza in termini di tempo e costo – in concomitanza con i lavori preventivamente pattuiti.
Ne consegue che, per tutte quelle modifiche che alterano radicalmente l'oggetto originale del contratto d'appalto, è necessario che venga stipulato un nuovo contratto di appalto e, ancora, su tali basi di diritto, la ditta appaltatrice può eseguire (e, quindi, richiederne il pagamento) lavori extra contratto solo se questi risultino pattuiti ed autorizzati.
Tali coordinate ermeneutiche, elaborate nel contesto dell'appalto privato, valgono anche in riferimento al settore degli appalti pubblici giacché si è detto ricorrere l'ipotesi di variazioni extracontrattuali quando le opere nuove, in cui queste consistono, richieste o disposte dalla Pa, ovvero convenute tra le parti, importino sostanziali e notevoli modificazioni dell'opera contrattuale, in relazione al luogo dell'esecuzione, alla natura (diversa) del materiale da adoperare, alla ideazione ed attuazione dell'opera diversi per natura e per numero rispetto a quanto previsto. Debbono, altresì, essere considerati lavori extracontrattuali, anche negli appalti pubblici, le variazioni qualitative e quantitative richieste oltre i limiti in cui esse sono ammesse dalla legge.
Corte di Appello di Campobasso, sentenza 9 gennaio 2023 n. 10

DIRITTI REALI
Diritti reali – Servitù - Principio dell'ambulatorietà
(Cc, articolo 1079)
La Corte d'Appello di Brescia, in sentenza, interviene in tema di servitù di passaggio. In via generale, al fine di una valida costituzione negoziale di servitù non è necessaria l'indicazione espressa del fondo dominante, di quello servente e delle modalità dell'assoggettamento di questo al primo, ma è sufficiente che detti elementi siano con certezza ricavabili, mediante i consueti strumenti ermeneutici, dal contenuto dell'atto, non essendo per contro sufficiente la mera costituzione di un vincolo a carico di un fondo e l'indicazione dell'utilitas a vantaggio di un altro.
Con particolare riguardo alle servitù di passaggio, poi, non è richiesto, ai fini della loro costituzione, l'uso di formule sacramentali essendo sufficiente che dalla relativa clausola siano determinabili con certezza il fondo dominante, il fondo servente e l'oggetto, rappresentato dall'assoggettamento dell'uno all'utilità dell'altro.
E così, ai fini dell'accoglimento della domanda ex articolo 1079 c.c. non è necessario risalire al contratto originario istitutivo della servitù medesima, essendo sufficiente il richiamo di esso nei successivi atti di acquisto; il tutto sempre che l'atto abbia natura contrattuale, rivesta la forma stabilita dalla legge ad substantiam, e che da esso la volontà delle parti di costituire la servitù risulti in modo inequivoco, anche se il contratto sia diretto ad altro fine.
Orbene, l'adita Corte lombarda declina, in particolare, il principio dell'ambulatorietà delle servitù, che, quali diritti reali, seguono la cosa, e si trasferiscono a carico, e a favore, dei successivi proprietari dei fondi purché ne sia provata l'esistenza.
Precisamente, in virtù del menzionato principio di ambulatorietà delle servitù, l'alienazione del fondo dominante comporta anche il trasferimento delle servitù attive ad esso inerenti, anche se nulla venga al riguardo stabilito nell'atto di acquisto, così come l'acquirente del fondo servente - una volta che sia stato trascritto il titolo originario di costituzione della servitù - riceve l'immobile con il peso di cui è gravato, essendo necessaria la menzione della servitù soltanto in caso di mancata trascrizione del titolo.
Al contempo, ai fini dell'opponibilità del trasferimento al terzo acquirente è necessaria la trascrizione dell'atto costitutivo della servitù o, in mancanza, la menzione della servitù passiva nell'atto di trasferimento del fondo servente.
Corte di Appello di Brescia, sezione II, sentenza 10 gennaio 2023 n. 59

PROCESSO CIVILE
Clausola penale – Riduzione – Interesse del creditore
(Cost., articolo 2; Cc, articoli 1175, 1375, 1384)
Osserva la Corte di Appello di Milano che la domanda di riduzione della clausola penale può essere proposta per la prima volta in appello, potendo addirittura il Giudice provvedervi anche d'ufficio, sempre che siano state dedotte e dimostrate dalle parti le circostanze rilevanti al fine di formulare un giudizio di manifesta eccessività della penale stessa.
Ai fini dell'esercizio del potere di riduzione della penale, il Giudice non deve valutare l'interesse del creditore con esclusivo riguardo al momento della stipulazione della clausola - come sembra indicare l'articolo 1384 c.c., riferendosi all'interesse che il creditore "aveva" all'adempimento - ma tale interesse deve valutare anche con riguardo al momento in cui la prestazione è stata tardivamente eseguita o è rimasta definitivamente ineseguita, poiché anche nella fase attuativa del rapporto trovano applicazione i principi di solidarietà, correttezza e buona fede (articolo 2 Cost., 1175 e 1375 c.c.), conformativi dell'istituto della riduzione equitativa, dovendosi intendere, quindi, che la lettera dell'articolo 1384 c.c., impiegando il verbo "avere" all'imperfetto, si riferisca soltanto all'identificazione dell'interesse del creditore, senza impedire che la valutazione di manifesta eccessività della penale tenga conto delle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto.
Ed allora la valutazione dell'interesse che la parte ha all'adempimento va riferita non tanto al momento in cui si è concluso il contratto cui accede, bensì a quello in cui viene chiesto il pagamento della penale.
Con la precisazione che il riferito esercizio di ufficio da parte del Giudice del potere di riduzione ad equità della penale risponde alla finalità di tutela dell'interesse generale dell'ordinamento, così da ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l'obbligazione principale è stata parzialmente eseguita, giacchè in quest'ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.
Corte di Appello di Milano, sezione II, sentenza 10 gennaio 2023 n. 24

SANITA'
Attività sanitaria – Accreditamento sanitario – Limite di spesa - Eccedenza
(Cc, articolo 2041; Dlgs 502/1992)
Osserva in sentenza la Corte d'Appello di Napoli come, in tema di attività sanitaria esercitata in regime di accreditamento (Dlgs n. 502/1992), la domanda di condanna dell'azienda sanitaria pubblica al pagamento del corrispettivo per le prestazioni eccedenti il limite di spesa, proposta dalla società accreditata, rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario, trattandosi di controversia il cui petitum sostanziale investe unicamente la verifica dell'esatto adempimento di una obbligazione correlata ad una pretesa del privato riconducibile nell'alveo dei diritti soggettivi, senza coinvolgere il controllo di legittimità dell'azione autoritativa della Pa sul rapporto concessorio.
Con la precisazione che tale conclusione non viene meno qualora l'azienda sanitaria eccepisca il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario sul presupposto che la pretesa creditoria sia stata comunque incisa dalle deliberazioni autoritative adottate dall'ente pubblico, a meno che non siano le conseguenti repliche del creditore a concretizzare una richiesta di accertamento con efficacia di giudicato circa l'illegittimità del provvedimento posto a fondamento dell'eccezione sollevata dall'azienda sanitaria, perché in tale ipotesi il petitum sostanziale investe anche l'esercizio del potere autoritativo, e la giurisdizione appartiene pertanto al Giudice Amministrativo.
Peraltro, con il deliberare il tetto di spesa per le prestazioni sanitarie rese in regime di accreditamento, la Pubblica Amministrazione adempie ai suoi obblighi di legge di sana gestione delle finanze pubbliche, sicchè l'azienda sanitaria, comunicando alla singola struttura accreditata il limite di spesa determinato per l'erogazione delle prestazioni sanitarie, le viene, implicitamente ma inequivocamente, a manifestare il suo diniego a pagare una spesa superiore, ovvero la sua volontà contraria a prestazioni ulteriori rispetto a quelle il cui corrispettivo sarebbe rientrato nel limite di spesa; ciò che conferisce all'arricchimento che pure, obiettivamente, l'Amministrazione consegue dalla loro esecuzione quel carattere imposto ancora oggi rilevante ai fini dell'impossibilità di esperire l'azione ex articolo 2041 c.c. nei confronti della Pa.
Corte di Appello di Napoli, sezione V, sentenza 10 gennaio 2023 n. 40

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTTO
Perdita del rapporto parentale – Liquidazione del danno – Tabelle di Milano
(Cc, articolo 2059)
La Corte d'Appello di Bari afferma il principio di diritto secondo cui il danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto di un soggetto deceduto è necessariamente unitario (articolo 2059 c.c.).
L'accertamento dei profili di cui si esso compone, cioè l'interiore sofferenza morale soggettiva e quella che si riflette sul piano dinamico-relazionale, incide solamente sulla quantificazione del danno, commisurata alla sua gravità ed all'effettiva entità, non potendo dunque pervenire sino ad ipotizzare due distinte entità, suscettibili di autonoma valutazione sul piano economico.
D'altronde la congiunta attribuzione del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale comporta l'illegittima duplicazione del risarcimento del danno, in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita, e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita, altro non sono che due aspetti del medesimo pregiudizio, che va accertato ed unitariamente ristorato.
Ai fini del quantum del risarcimento – sottolinea ancora la Corte - le Tabelle milanesi, pur indicando dei valori che vanno da un minimo ad un massimo, non prevedono affatto un minimo garantito per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale.
Il Giudice deve valutare caso per caso le circostanze, non essendo il danno in re ipsa ed incombendo, a carico della parte, l'onere di allegazione e di prova del danno subito, ferma la possibilità di porre a fondamento della propria decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, nonché di ricorrere a presunzioni.
Le tabelle esprimono un valore equo in grado di garantire la parità di trattamento da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità: il valore monetario indicato nella prima colonna è quello base che determina l'uniformità pecuniaria di base; i valori massimi, indicati nella seconda colonna, vengono applicati solo laddove la parte alleghi, e rigorosamente provi, circostanze di fatto da cui possa inferirsi, anche in via presuntiva, un maggiore sconvolgimento della propria vita in conseguenza della perdita del rapporto parentale.
Lo stesso discorso vale anche nel caso in cui il Giudice liquidi un valore intermedio tra il minimo e il massimo, a seguito di allegazione, e prova, di circostanze specifiche e rilevanti.
Corte di Appello di Bari, sezione III, sentenza 11 gennaio 2023 n. 20

RESPONSABILITÀ MEDICA
Responsabilità medica – Limitazioni – Operatività
(Cc, articoli 1176, 2236)
Adito in materia di responsabilità medica e risarcimento danni il Tribunale di Latina in sentenza osserva (tra l'altro) come - con riferimento alla posizione del sanitario - la limitazione di responsabilità professionale ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'articolo 2236 c.c., attenga esclusivamente alla perizia nella soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che, in quanto tali, trascendono la preparazione media, o perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza o perché non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare.
Nel conciliare la fattispecie di cui al citato articolo 2236 c.c. con quella di cui all'articolo 1176 c.c., ove è prevista una particolare diligenza, da valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata, nei casi in cui l'adempimento rientri nell'esercizio di un'attività professionale, deve evidenziarsi come dette disposizioni codicistiche, apparentemente contrastanti tra loro atteso che l'una limita la responsabilità del professionista nei casi in cui l'altra gli impone una particolare diligenza, devono essere interpretate distinguendo tra i vari profili di colpa, ammettendo l'esenzione di cui all'articolo 2236 c.c. nei soli casi d'imperizia, dovendo il medico rispondere anche per colpa lieve in ogni caso di negligenza o imprudenza.
Spetta al medico superare, nel singolo caso concreto, la presunzione che le complicanze a carico del paziente siano state determinate dalla sua responsabilità, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento; ne consegue che il Giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l'accertata insorgenza di complicanze ma deve, altresì, verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l'insussistenza del nesso causale tra le cure prescelte e l'insorgenza delle predette complicanze, unitamente all'adeguatezza delle tecniche scelte dal medico per porvi rimedio.
Ove si tratti (incontestatamente) di una patologia nota e non rara, non può ravvisarsi tale imprevedibilità e inevitabilità, e men che meno l'insussistenza del citato nesso (con)causale, e deve essere quindi esclusa l'applicazione dell'articolo 2236 c.c..
Tribunale di Latina, sezione II, sentenza 10 gennaio 2023 n. 49

PROCESSO DIGITALE
Posta elettronica certificata – Messaggio – Allegati
(Dpr 602/1973, articolo 26; Dpr 68/2005, articolo 1)
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Roma affronta in sentenza il tema della nullità, o meno, dell'atto notificato a mezzo Pec ove contenga una copia per immagine della cartella di pagamento non firmata digitalmente, né dichiarata conforme all'originale (e, pertanto, asseritamente contrastante con le prescrizioni dell'articolo 26, II, Dpr n. 602/1973).
Il Tribunale sottolinea come, in caso di notifica a mezzo Pec, la copia su supporto informatico della cartella di pagamento, in origine cartacea, non deve necessariamente essere sottoscritta con firma digitale, in assenza di prescrizioni normative di segno diverso.
Il citato articolo 26 non pone, invero, alcun vincolo sul punto limitandosi a richiamare il rispetto delle modalità prescritte per l'invio di un messaggio di posta elettronica certificata dal Codice dell'Amministrazione digitale (CAD) istituito dal Dpr n. 68/2005 secondo cui, tra l'altro, il messaggio di posta elettronica certificata è definito (articolo 1, lettera f) come "un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati".
Si rammenta altresì che la lettera i-ter), dell'articolo 1 CAD definisce la «copia per immagine su supporto informatico di documento analogico» come «il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico» mentre la lettera lett. i-quinquies), dell'articolo 1 del medesimo CAD definisce il «duplicato informatico» come di quel «documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario».
Dunque, alla luce della citata disciplina positiva, secondo l'adito Tribunale la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio Pec un documento informatico che sia duplicato informatico dell'atto originario (il c.d. "atto nativo digitale"), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. "copia informatica").
Tribunale di Roma, sezione III lavoro, sentenza 10 gennaio 2023 n. 125

LAVORO
Lavoro subordinato - Malattia del lavoratore - Sospensione dell'attuazione del rapporto
(Cc, articoli. 1176, 1206, 1218, 2087; legge 300/1970, articolo 5)
Secondo quanto afferma il Giudice del Lavoro del Tribunale di Cosenza, quando il datore di lavoro, a seguito di un periodo di malattia del dipendente, disponga - in relazione ad un evento morboso con possibili riflessi non limitati ad una temporanea incapacità lavorativa – l'accertamento della idoneità fisica del dipendente ai sensi dell'articolo 5 L. n. 300/1970 e la sospensione dell'attuazione del rapporto per un periodo in cui da tale controllo risulti un quadro patologico incompatibile con l'espletamento dell'attività dedotta in contratto, il rifiuto delle prestazioni lavorative offerte può configurare, con riguardo al successivo accertamento in sede giudiziale dell'inesistenza di tale inidoneità al lavoro, una responsabilità per inadempimento contrattuale ex articolo 1218 c.c.; tale responsabilità può essere tuttavia esclusa quando sia dimostrato che l'adempimento è mancato a causa di un errore che non derivi da fattori puramente soggettivi ed appaia scusabile alla stregua del criterio della ordinaria diligenza di cui all'articolo 1176 c.c..
In altre parole, la sospensione è legittima laddove dall'accertamento della idoneità fisica del dipendente risulti, appunto, un quadro patologico incompatibile con l'espletamento dell'attività dedotta in contratto.
D'altronde, secondo i principi generali in materia di obbligazioni contrattuali si può configurare la mora del creditore soltanto qualora quest'ultimo rifiuti la prestazione offerta senza un legittimo motivo (articolo 1206 c.c.).
Fondamentale risulta in proposito l'incondizionato obbligo del datore di assicurare la sicurezza sul luogo di lavoro articolo 2087 c.c.. Poiché si tratta di norma che renderebbe automaticamente responsabile il datore di un'eventuale aggravamento o compromissione della salute del lavoratore addetto a mansioni a lui non confacenti sotto il profilo fisico, risulta giustificato, anche solo dal sospetto di poter cooperare nella lesione dell'integrità fisica del lavoratore la sospensione immediata dello stesso dal lavoro.
Tribunale di Cosenza, sezione lavoro, sentenza 11 gennaio 2023 n. 14

CIRCOLAZIONE STRADALE
Circolazione stradale - Investimento di un pedone – Responsabilità

(Cc, articoli 1227, 2054; Dlgs 30 aprile 1992, n. 285, art. 41)
Il Tribunale di Milano è chiamato a valutare quale sia l'incidenza, ai fini del risarcimento danni, dell'accertamento del comportamento colposo del pedone investito da un veicolo.
Tale accertamento – si sottolinea in sentenza - non è sufficiente per l'affermazione della esclusiva responsabilità del pedone, essendo pur sempre necessario che l'investitore (conducente del veicolo) vinca la presunzione di colpa posta a suo carico dall'articolo 2054, I, c.c., dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.
A tal fine, non rileva l'anomalia della condotta del pedone, occorrendo la prova che la stessa non fosse ragionevolmente prevedibile e che il conducente abbia adottato tutte le cautele esigibili in relazione alle circostanze del caso concreto, anche sotto il profilo della velocità di guida mantenuta.
Un tale presunzione di colpa, gravante a carico del conducente il veicolo investitore, non opera in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito, fondata sul rapporto di causalità fra evento dannoso e condotta umana, e, dunque, non preclude, anche nel caso in cui il conducente non abbia fornito la prova idonea a vincere la presunzione, l'indagine sull'imprudenza e pericolosità della condotta del pedone investito, che deve essere apprezzata ai fini del concorso di colpa, ai sensi dell'articolo 1227, I, c.c., ed integra un giudizio di fatto che, come tale, si sottrae al sindacato di legittimità se sorretto da adeguata motivazione.
Si è così osservato, sempre in caso di investimento pedonale, che la circostanza per la quale il pedone abbia repentinamente attraversato un incrocio regolato da semaforo per lui rosso (violando così il disposto ex articoo 41, V, lett. a, D.Lgs. n. 285/1992 - Codice della Strada) non vale ad escludere la responsabilità dell'automobilista, ove tale condotta anomala del pedone fosse - per le circostanze di tempo e di luogo, che avrebbero consigliato una maggiore prudenza e in particolare una minore velocità - ragionevolmente prevedibile.
Tribunale di Milano, sezione X, sentenza 11 gennaio 2023 n. 153

BANCHE
Conto corrente bancario – Decorrenza della prescrizione – Accesso alla documentazione
(Cpc, articolo 210; Dlgs 385/1993 , articolo 119)
Secondo il Tribunale di Pisa, intervenuto in materia di contratto di conto corrente bancario, poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un'apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento.
Ne discende che, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l'esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata.
Altresì la sentenza richiama il principio secondo cui il diritto spettante al cliente, a colui che gli succede a qualunque titolo o che subentra nell'amministrazione dei suoi beni, ad ottenere, a proprie spese, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, ivi compresi gli estratti conto, sancito dall'articolo 119, IV, Dlgs 10 settembre 1993, n. 385 (TUB) può essere esercitato in sede giudiziale attraverso l'istanza di cui all'articolo 210 c.p.c., in concorso dei presupposti previsti da tale disposizione, a condizione che detta documentazione sia stata precedentemente richiesta alla banca, che senza giustificazione non vi abbia ottemperato; la stessa documentazione non può essere acquisita in sede di consulenza tecnica d'ufficio contabile, ove essa abbia ad oggetto fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse.
Infine, il correntista che intenda far valere il carattere indebito di talune poste passive – assumendo essere le stesse il portato dell'applicazione di interessi usurari o di clausole contrattuali nulle o, comunque, dell'addebito di spese, commissioni o altre "voci" non dovute – ha lo specifico onere di produrre, oltre alla sequenza completa degli estratti conto analitici, anche il contratto costituente titolo del rapporto di conto corrente dedotto in lite e gli eventuali ulteriori contratti sul medesimo regolati o comunque intervenuti inter partes (ad es. apertura di credito, affidamenti, anticipi s.b.f., ecc.), le cui pattuizioni sono oggetto di contestazione.
Tribunale di Pisa, sentenza 11 gennaio 2023 n. 56

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