Valida la motivazione di una sentenza che riproduce tutto lo scritto difensivo
La sentenza, quale atto conclusivo del giudizio, deve avere una sua originalità e una sua specificità oppure il magistrato, nel decidere la causa, può attingere ad altre fonti riportando integralmente il contenuto di esse, facendole proprie, ma senza nulla aggiungere di suo?
E ancora, nel caso in cui il giudice utilizza nella decisione le ragioni esposte da una delle parti, viene meno al suo dovere di imparzialità?
Questi quesiti sono stati posti all'esame della Cassazione che, con la sentenza 642/2015, decidendo a sezioni Unite, ha fornito un'importante risposta non solo per la rilevanza delle questioni affrontate ma anche per le eventuali future ricadute che il principio affermato avrà sia nel processo tributario, come nel caso in esame, che in quello civile.
La vicenda all'esame del collegio di legittimità - Nella fattispecie, la controversia che ha dato origine ai suddetti interrogativi era di origine tributaria e le questioni si sono poste perché il giudice di appello, nel respingere l'impugnazione del contribuente, ha fatto proprie, nella decisione, le argomentazioni esposte dall'ufficio tributario; di qui la lagnanza del contribuente che, nel proporre ricorso per cassazione, ha eccepito la nullità della sentenza perché priva di motivazione, essendo quella esposta nella decisione meramente apparente, giacché riproduceva, senza alcuna autonoma valutazione, le deduzioni formulate dall'agenzia delle entrate.
La definizione del termine sentenza - La Corte, nel rigettare il ricorso, ha fornito intanto una definizione del termine sentenza.
Questa non è certamente un bene soggetto, secondo la disciplina civilistica, al diritto d'autore come le opere letterarie, musicali o cinematografiche, tant'è che essa può essere citata, riportata e richiamata senza che si pongano problemi di diritto d'autore. Nel contenuto di una sentenza, poi, può essere riportato, in tutto o in parte, sia il contenuto di altre sentenze che atti del processo, come nel caso di perizie o prove testimoniali, senza che si ponga il problema dell'individuazione della paternità dell'atto.
Invero, nel codice di procedura civile del 1865 si affermava che «i motivi si reputano omessi quando la sentenza siasi puramente riferita a quelli di un'altra sentenza», ma si deve ritenere che la norma di cui all'articolo 361 del Cpc dell'epoca avesse voluto stigmatizzare la motivazione per relationem in senso stretto, cioè la motivazione contenente un riferimento alla motivazione di un'altra sentenza senza, però, riportarne il contenuto. Con ciò il legislatore non ha voluto privilegiare l'originalità della decisione quanto evitare alle parti di effettuare una ricerca della motivazione al di fuori della decisione stessa.
Non necessaria l'originalità nell'esporre le motivazioni - Comunque, per la Corte, nel codice attualmente in vigore un'analoga norma non c'è, avendo il giudice l'obbligo di decidere la domanda sulla base della legge, salvo i casi di pronuncia secondo equità, in relazione ai fatti e alle prove addotte, senza far riferimento alla propria scienza privata.
In nessuna parte del codice viene richiesta al giudicante un'originalità nell'esposizione delle motivazioni e, anzi, non risulta neppure vietato riportare nella sentenza scritti che non sono attribuibili all'estensore della pronuncia.
La Corte ricorda che, nell'ottocento e anche nei primi decenni del novecento, in un mondo in gran parte rurale e segnato da un diffuso analfabetismo, il magistrato faceva sfoggio di cultura e, anzi, il bello scrivere segnava la differenza tra chi stava “nel palazzo” e chi, invece, ne era fuori; in quel periodo, pertanto, era inconcepibile che un giudice utilizzasse nelle proprie decisioni scritti frutto della fatica intellettuale altrui.
L'avvento della motivazione in forma abbreviata - Le successive riforme della procedura civile sono andate in una direzione diversa, mirando di più alla necessità di avere una motivazione più concisa. Il legislatore, anche nell'abrogata riforma del diritto societario, ha espressamente previsto che la sentenza potesse essere motivata in forma abbreviata, con il rinvio a elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa, con la concisa esposizione delle ragioni di diritto anche facendo riferimento a precedenti giurisprudenziali conformi.
Con la successiva legge 49/2009, il legislatore ha esteso a tutte le sentenze la previsione di una motivazione, perfino succinta, esposta anche con il riferimento a precedenti conformi.
Orbene, hanno ritenuto le sezioni Unite, se è vero che, recentemente, il giudice di legittimità ha ritenuto non sufficiente la motivazione della sentenza che si limiti a trascrivere e condividere la difesa di una delle parti senza spiegare le ragioni di tale condivisione (Cassazione 10033/2007), considerando nulla la sentenza la cui motivazione è costituita dalla adesione acritica alla tesi di una delle parti (Cassazione 12542/2001), è anche vero che il giudice di legittimità si è generalmente orientato sull'argomento verso un atteggiamento più possibilista.
Nell'ammettere, infatti, la possibilità di una motivazione per relationem, la Corte ha precisato che il rinvio deve essere fatto ad atti ben individuati, conosciuti e conoscibili dalle parti, senza necessità che siano trascritti (Cassazione 16277/2010). Inoltre, la mancanza formale della concisa esposizione dello svolgimento del processo non è motivo di nullità della sentenza se dalla sua lettura sia possibile individuare i passaggi essenziali della vicenda processuale e gli elementi di fatto considerati nella decisione (Cassazione 3066/2002).
In altre decisioni la Corte non ha ritenuto necessario che il giudice di merito dia conto di tutte le prove dedotte o acquisite, oppure di tutte le tesi prospettate, reputando sufficiente che egli esponga in maniera concisa gli elementi posti a base della sua decisione.
I moduli prestampati e l'adesione al Ctu - Addirittura la giurisprudenza della Corte, nell'ottica di semplificare il lavoro del giudice, si era spinta anche oltre quando ha ritenuto che la sentenza stesa su moduli prestampati non sia viziata per omessa o insufficiente motivazione quando, comunque, quest'ultima sia esposta in maniera aderente al caso concreto (Cassazione 24508/2006).
Inoltre, da decenni, la giurisprudenza è ferma sul principio secondo cui il giudice non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico, potendo limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate all'esito delle indagini svolte dal perito (Cassazione 28647/2013).
Né può essere addotto come motivo contrario il fatto che la Corte abbia ritenuto inammissibili quei ricorsi che contengono la pedissequa riproduzione degli atti processuali, mediante la tecnica dell'assemblaggio, in quanto, in tal caso, non viene in evidenza la mancanza di originalità del ricorso quanto la mancata soddisfazione dell'esposizione sintetica dei fatti, finendo per affidare al giudice di legittimità la scelta in ordine ai motivi d'impugnazione (Cassazione 5698/2012).
Sufficiente la correttezza delle ragioni giuridiche - Secondo le sezioni Unite, essendo la sentenza un atto pubblico e non un'opera letteraria, quello che rileva non è il fatto che la decisione contenga o meno motivazioni inedite, non ricavabili da altri scritti, quanto che le ragioni della decisione siano corrette ed esposte in maniera chiara ed esaustiva, in considerazione anche del fatto che la sentenza costituisce l'espressione ufficiale della volontà dello Stato.
Pertanto, una volta che vengano individuate le ragioni giuridiche e di fatto che sostengono la decisione, deve essere riconosciuto al giudice la possibilità di esporle in maniera chiara e univoca nel modo che egli reputi più idoneo, perché quello che conta nella decisione non è la paternità del testo nelle sue modalità espressive quanto la necessità di attribuire al giudice il suo contenuto.
Deve ritenersi ammissibile, pertanto, che il giudice, valutate le argomentazioni delle parti, abbia deciso la causa utilizzando le ragioni esposte nell'atto di una di esse in quanto ritenute idonee, corrette ed esaustive della decisione assunta.
Poiché il codice prevede solo che il giudice esponga le ragioni della decisione ma non stabilisce che vengano esposti anche i motivi per cui egli abbia condiviso le ragioni di una delle parti, l'unico problema che sembra porsi è quello legato al fatto se il contenuto dell'atto, riportato come motivazione, sia non idoneo o sufficiente a sostenere le ragioni della decisione giacché, in tal caso, la sentenza sarebbe censurabile.
Il rischio di perdere imparzialità e terzietà - Derivante dalla questione ora esaminata è quella secondo cui quando il giudice riporta nella sentenza il contenuto di atti di parte verrebbe meno al suo dovere di imparzialità o di terzietà.
Le sezioni Unite, negando l'assunto, hanno richiamato la pronuncia 155/96 della Corte costituzionale in tema di imparzialità, e hanno affermato che l'imparzialità del magistrato richiede due condizioni: l'inesistenza di un suo interesse personale nella causa e la sua estraneità rispetto alle parti del giudizio, l'inesistenza di precedenti decisioni assunte sulla questione in altri gradi o fasi del medesimo processo.
Orbene, nessuna di tali situazioni è ravvisabile quando il giudice, nel redigere la sentenza, utilizzi gli atti di parte, anche perché, osserva la Corte, sarebbe ipocrita chiedere al giudicante, per evitare l'inconveniente, di parafrasare, in nome di una originalità espositiva, le motivazioni estrapolate dall'atto di parte che lo hanno convinto ad adottare una certa decisione.
Infine, fermo restando il principio per cui nessuna sentenza o atto processuale costituisce opera letteraria o artistica, le considerazioni sopra esposte dovranno valere per i provvedimenti giurisdizionali civili e per quelli emessi dalle commissioni tributarie ma non anche per quelli emessi dal giudice penale, ciò in quanto il tema di indagine è stato limitato esclusivamente al codice di procedura civile, nei limiti della devoluzione del ricorso esaminato e delle attribuzioni delle sezioni Unite civili.
Le osservazioni conclusive - Al termine di questa esposizione ci sembra chiara la rilevanza della sentenza 642/2015 che, in un momento storico in cui si impone una maggiore celerità nello svolgimento dei processi, favorirà il lavoro dei magistrati i quali, nel redigere le sentenze, potranno liberamente attingere dagli atti che predisporranno i legali delle parti.
Siamo consapevoli anche del fatto che sono ormai remoti i tempi in cui il giudice scriveva le decisioni e poi il cancelliere, con la penna d'oca e il calamaio, le ricopiava, in quanto l'introduzione dell'informatica, la presenza dei computer e il recente ingresso del processo telematico consentiranno al giudice di avere sul proprio pc gli atti di causa, e, conseguentemente, ciò incoraggerà, senza alcun dubbio, il ricorso all'estrapolazione delle motivazioni delle decisioni dagli atti di parte.
Al momento si intravvedono due rischi al ricorso a tale procedura: il primo, dato dal fatto che un malaccorto uso della tecnica del collage, ovvero del «copia-incolla», potrebbe portare il giudice a omettere la pronuncia su tutte le domande o eccezioni, oppure a dare alle stesse delle risposte incomprensibili, il che esporrà la decisione al vizio di omessa pronuncia o di difetto di motivazione; il secondo, l'uso di questa tecnica potrebbe portare le pronunce a una sorta di uniformità o, per meglio dire, a una conformità di decisioni con il risultato di avere una sclerotizzazione della giurisprudenza.
Corte di cassazione - Sezioni Unite civili - Sentenza 16 gennaio 2015 n. 642