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La Commissione UE (stavolta) "rincorre" nel dibattito sulla Green Competition Law: vecchi strumenti per un mondo nuovo?

Il progresso dei negoziati sul c.d. Recovery and Resilience Facility, ossia su quei fondi europei che serviranno a costruire una nuova UE "più verde, più digitale, più resiliente"

di Edoardo Gambaro e Pietro Missanelli*


Come ricordato il 16 novembre scorso dalla Vice-Presidente della Commissione europea e Commissaria alla concorrenza, Margrethe Vestager, le ultime settimane hanno portato all'Unione europea alcune buone notizie. Tra queste, figura sicuramente il progresso dei negoziati sul c.d. Recovery and Resilience Facility, ossia su quei fondi europei che serviranno a costruire una nuova UE "più verde, più digitale, più resiliente".

Gli aiuti di Stato saranno senz'altro uno strumento essenziale del nuovo corso dell'UE, ma la "svolta verde" sembra attraversare tutti gli ambiti del diritto della concorrenza, includendo anche l'enforcement antitrust ed il controllo delle concentrazioni tra imprese. In effetti, nelle intenzioni della Commissione, il diritto della concorrenza dovrà supportare stabilmente il nuovo Green Deal e, proprio al fine di stimolare il dibattito sul tema, lo scorso 13 ottobre è stata lanciata una call for paper.

Per una volta, l'iniziativa della Commissione non precede, ma segue le "fughe in avanti" di alcune autorità antitrust nazionali. Ad esempio, l'Autorité française de la concurrence ha recentemente dichiarato di voler perseguire più duramente quelle violazioni del diritto antitrust che mettono a repentaglio la protezione dell'ambiente, mentre la transizione verso un'economia low-carbon è stata posta tra le priorità dell'omologa agenzia britannica (CMA).

Ancora, il garante greco della concorrenza ha proposto di creare delle "sand-box", ossia di dare alle imprese la possibilità di sperimentare nuove forme di collaborazione volte a raggiungere scopi ambientali. Più avanti di tutte si è spinta l'autorità antitrust olandese, che ha pubblicato specifiche linee guida sull'applicazione del diritto della concorrenza ad accordi che promuovano la sostenibilità ambientale.

La pandemia, dunque, sembra aver accelerato i tempi di un percorso inevitabile.

Già nel 2019, il Ministero dell'economia tedesco aveva autorizzato una concentrazione inizialmente proibita, motivando la sua decisione con la riduzione delle emissioni nocive legate alle efficienze prodotte dalla stessa operazione. Per converso, nello stesso anno, almeno in un paio di occasioni, la Commissione aveva enfatizzato la delicatezza di alcune operazioni di concentrazione in quanto aventi ad oggetto mercati "sensibili" dal punto di vista ambientale.

Le opzioni sul tavolo sono molteplici e, come spesso accade, per lo più implicano l'utilizzo per problematiche nuove di strumenti già noti.

In particolare, se da un lato, per quanto concerne gli aiuti di Stato, la Vice-Presidente Vestager ha dichiarato di disporre già di un framework normativo efficiente, dall'altro lato, si avverte la necessità di ripensare il public enforcement del divieto di intese anticoncorrenziali (art. 101 TFUE).

Sul punto, seguendo l'esempio olandese, la Commissione europea potrebbe, in primo luogo, emanare nuove linee guida sulla valutazione di intese aventi a oggetto il raggiungimento di obiettivi ambientali, o dedicare ad esse una sezione delle linee guida sulla cooperazione orizzontale che a breve sostituiranno quelle attuali, entrate in vigore nel lontano 2010.

Del resto, la versione di tali linee guida entrata in vigore nel 2001 già conteneva norme specifiche (poi sparite nel 2010) che distinguevano tra:

(i) "environmental agreements" ai quali non si applicava il diritto della concorrenza (ad esempio, accordi non vincolanti tramite cui gli operatori si impegnino blandamente a rispettare obiettivi di settore);

(ii) accordi che potenzialmente violavano il diritto antitrust (accordi vincolanti che restringano ingiustificatamente la capacità delle parti di definire le caratteristiche dei loro prodotti):

(iii) accordi ambientali potenzialmente giustificati dalla circostanza che la riduzione della "environmental pressure" beneficiasse i consumatori.

La Commissione potrebbe anche decidere di promuovere un revival delle comfort letters, ossia di lettere che autorizzano preventivamente quegli "environmental agreements" che rispettino determinate caratteristiche. Anche in questo caso, si tratterebbe di un ritorno al passato: dopo l'adozione del regolamento (CE) 1/2003, che ha posto fine al sistema delle autorizzazioni preventive, la Commissione non aveva emanato comfort letters per circa due decadi, almeno fino all'aprile del 2020, quando il tabù è stato rotto nel contesto della pandemia di Covid-19.

Gli strumenti tecnici e procedurali, dunque, non mancano. Piuttosto, il dibattito riguardante le intese anticoncorrenziali sembra incentrato sulla diversa misura in cui scelte di politica ambientale possano influenzare le valutazioni antitrust.

In effetti, l'approccio seguito dalla Commissione nell'ultimo decennio è stato quello di considerare che gli obiettivi perseguiti dai Trattati UE (inclusi gli obiettivi ambientali) non possano essere presi in considerazione per giustificare un'intesa anticoncorrenziale ex art. 101(3) TFUE, e che essa possa essere eventualmente giustificata soltanto da guadagni di efficienza in senso stretto. Eppure, in passato, la Commissione, per decidere se giustificare o meno un'intesa anticoncorrenziale, aveva preso in considerazione anche i " benefici collettivi " per l'ambiente (si pensi alla celebre decisione CECED del 1999).

Oggi, alcuni commentatori giungono a chiedere che le considerazioni ambientali entrino stabilmente tra gli strumenti giuridici utilizzati per valutare a monte (ai sensi del paragrafo 1 dell'art. 101 TFUE) la natura anti-concorrenziale o meno di un'intesa, mentre altri evocano persino la possibilità che gli environmental agreements possano fuoriuscire tout court dall'applicazione del diritto della concorrenza, sulla scorta di quanto deciso nella sentenza Albany della Corte di giustizia con riferimento agli accordi collettivi di lavoro.

È certamente prematuro ipotizzare quali saranno le soluzioni prescelte dalla Commissione.

Sul punto, potrebbe avere un ruolo il timore di sottrarre allo scrutinio delle autorità competenti una vastissima ed eterogenea categoria di intese. D'altronde, un inserimento a pieno titolo delle c.d. valutazioni ambientali potrebbe essere interpretato come una "forzatura" del tenore letterale dell'art. 101(1) TFUE. Più prudente, forse, sarebbe tentare un "ritorno al passato", dettando criteri chiari e trasparenti per tenere conto di benefici ambientali e giustificare la collaborazione tra imprese ex art. 101(3) TFUE, come già fatto in CECED.

*a cura di Edoardo Gambaro e Pietro Missanelli, rispettivamente Partner e Senior Associate di Greenberg Traurig Santa Maria.

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