Responsabilità

Responsabilità medico-veterinaria: spetta al minore il ristoro per il danno non patrimoniale a seguito del decesso del cane "cucciolo"

Il Foro spezzino ribadisce che chi agisce per il risarcimento può provare il pregiudizio anche mediante elementi indiziari diversi tuttavia dal mero decesso dell'animale

di Federico Ciaccafava

Il danno non patrimoniale subito dal padrone in conseguenza di un’errata diagnosi che ha condotto al decesso dell’animale, non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge adidentificare il danno risarcibile con la lesione del diritto e a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa. Ne consegue che il danneggiato, il quale ne chieda il risarcimento, è tenuto a provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di sofferenza patita in dipendenza della perdita dell’animale d’affezione, potendosi a tal fine avvalere anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari diversi dal fatto in sé del decesso dell’animale. Tale il principio che può essere evinto dalla lettura di una recente pronunzia del tribunale di Spezia che ha parzialmente accolto la domanda risarcitoria avanzata dai genitori in proprio ed in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale sulla figlia minore nei confronti dei due titolari di uno studio associato di Clinica veterinaria in conseguenza del decesso del proprio animale d’affezione affidato per tre giorni consecutivi alle cure della struttura con un penoso strascico di ricoveri e dimissioni ( cfr., Tribunale di Spezia, Sezione civile, sentenza 31 dicembre 2020, n. 660 – Giudice Gabriele Romano).

 La decisione suscita interesse in quanto, con una trama argomentativa solida e coerente, costituisce l’occasione per ripercorrere una serie di questioni attinenti a tale particolare forma di responsabilità civile, nonché ai connessi profili del risarcimento del danno.

  La responsabilità medico-veterinaria

La pronuncia ribadisce in primo luogo che la responsabilità del veterinario per errata diagnosi, negligenza o imperizia è – al pari della responsabilità medica – di natura contrattuale. Ne consegue l’applicabilità tanto dei principi generali che governano siffatta responsabilità, quanto degli specifici principi dettati in materia di responsabilità medica. Sotto il primo aspetto, in punto di assolvimento dell’onere probatorio, il creditore deve provare la fonte del suo diritto, limitandosi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento.

Sotto il secondo aspetto, invece, incombe sul paziente danneggiato che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia – o l’insorgenza di una nuova malattia – e l’azione o l’omissione dei sanitari e, ove il danneggiato abbia poi assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’uso dell’ordinaria diligenza.  Ora, nel caso in esame, esperita Ctu medico-veterinaria, al fine di accertare la sussistenza degli inadempimenti allegati dagli attori ed il nesso di causa tra le omissioni addebitate alla clinica convenuta e il decesso del cane,  il perito, ricostruiti gli interventi diagnostici e curativi eseguiti sull’animale, con riferimento alla conformità della prestazione resa, ha concluso che l’attività diagnostica e terapeutica svolta dal personale sanitario operante presso la clinica convenuta non fosse stata svolta secondo la diligenza esigibile dal veterinario sulla base dello stato della tecnica e delle conoscenze scientifiche al momento in cui è stata effettuata, dovendosi necessariamente svolgere approfondimenti in grado di giungere ad una diagnosi di occlusione intestinale e quindi all’adozione di una terapia chirurgica con rimozione della causa costituita dall’ingestione di ben sei tettarelle di gomma.

 Quanto al nesso causale tra le omissioni riscontrate ed il decesso dell’animale, il medesimo CTU ha evidenziato che se il cane avesse ricevuto una corretta diagnosi di ostruzione intestinale da corpo estraneo ed una tempestiva terapia chirurgica di rimozione dello stesso il giorno della prima visita od il giorno successivo, “…la prognosi per il cucciolo si sarebbe rivelata buona, con un tasso di sopravvivenza fra l’83 ed il 99%...”.

 In definitiva, il perito ha concluso nel senso che “…il decesso del cane “…si sarebbe potuto evitare attraverso una corretta diagnosi e di conseguenza una corretta cura essendo la prognosi della patologia da cui il cane era affetto buona, con tassi di sopravvivenza elevati, in caso di presentazione precoce del paziente, diagnosi ed intervento tempestivi…” Da ciò consegue la responsabilità della struttura convenuta nella determinazione del decesso del cane, atteso che il procedimento corretto avrebbe previsto approfondimenti diagnostici, i quali avrebbero portato ad una diagnosi di occlusione intestinale e, pertanto, ad una tempestiva operazione di rimozione dei corpi estranei che avrebbe evitato l’evento letale, secondo il criterio del “più probabile che non”.

  Concorso colposo del danneggiato
Muovendo dalla pacifica circostanza che il cane è deceduto per una patologia cagionata dall’ingestione di ben sei tettarelle di gomma, il giudice ha tuttavia riconosciuto la sussistenza, in capo agli attori, di una responsabilità colposa, non avendo quest’ultimi sorvegliato adeguatamente il cucciolo, né avvedutisi della sparizione degli oggetti poi ingeriti dall’animale. In presenza di fatti imputabili a più persone, coevi o succedutisi nel tempo, osserva la decisione in esame in conformità a un indirizzo maturato nella giurisprudenza di legittimità, dev’essere riconosciuta a tutti un’efficacia causativa del danno, ove abbiano determinato una situazione tale che, senza l’uno o l’altro di essi, l’evento non si sarebbe verificato, mentre deve attribuirsi il rango di causa efficiente esclusiva ad uno solo dei fatti imputabili quando lo stesso, inserendosi quale causa sopravvenuta nella serie causale, interrompa il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti, ovvero quando il medesimo, esaurendo sin dall’origine e per forza propria la serie causale, riveli l’inesistenza, negli altri fatti, del valore di concausa e li releghi al livello di occasioni estranee. Ora, calando gli enunciati principi nella fattispecie concreta, il giudice ligure ha riconosciuto efficacia causativa del danno sia alla condotta colposa dei danneggiati, rilevante ex articolo 1227, comma 1, codice civile, sia alla condotta omissiva del personale della Clinica veterinaria convenuta, atteso che, senza l’una o l’altra, l’evento di danno non si sarebbe verificato. In tale indagine ha poi escluso che l’errore medico-veterinario potesse assurgere a causa sopravvenuta autonomamente sufficiente a determinare l’evento, stante la riconducibilità eziologica della patologia – per la quale il cane era stato affidato alle cure della convenuta – a fattori causali preesistenti, addebitabili a responsabilità dei danneggiati. Apparendo, pertanto, la produzione dell’evento dannoso riconducibile alla concomitanza di più fattori causali, osserva la decisione, ognuno di questi deve essere autonomamente apprezzato per determinare in che misura abbia contribuito al verificarsi del danno; inoltre, trattandosi di concorso colposo del danneggiato, deve essere altresì valutata la gravità delle rispettive colpe, ex articolo 1227, comma 1, del codice civile. Ora, nel valutare l’efficienza delle concause nel dinamismo eziologico del danno, il giudice ha imputato la morte del cucciolo in misura pari alla condotta degli attori ed a quella del convenuto: infatti, da un lato è palese la gravità della patologia cagionata dall’ingestione di numerosi corpi estranei addebitabile ai danneggiati; dall’altro lato, altrettanto palesi sono le elevate probabilità di esito fausto dell’intervento nel caso di tempestiva diagnosi, omessa per responsabilità della convenuta. Quanto ella valutazione dell’elemento soggettivo la gravità della colpa delle controparti, la stessa appare parimenti equivalente, stante l’evidente omissione di sorveglianza del cucciolo da parte degli attori e l’altrettanto evidente sottovalutazione del quadro patologico da parte dei sanitari. Dall’esame congiunto di tutti gli elementi suindicati, il giudice ha in conclusione stimato come equa una responsabilità paritaria delle parti nella determinazione del decesso dell’animale e dei conseguenti danni, non ravvisandosi un maggior grado di incidenza eziologica, né di gravità della colpa, a carico dell’una o dell’altra parte (nella misura del 50% per ciascuna parte.)

  Risarcimento danni

In ordine al quantum risarcitorio, secondo il giudice esso certamente comprende il danno patrimoniale, costituito in primis dal valore venale dell’animale conseguente all’intervenuto decesso. Tra le spese risarcibili figurano inoltre quelle affrontate dalla parte per gli accertamenti medico legali (perizia prodotta in corso di causa e consulenza resa dal CTP nel contraddittorio peritale). Tra le voci di danno risarcibili il giudice ha invece escluso quelle sostenute per il trattamento psicologico della figlia minore, difettando la prova del nesso di causa tra il decesso dell’animale e la necessità di affrontare gli esborsi in questione: non risulta infatti allegato ed appare in ogni caso francamente inverosimile, osserva la decisione, che la minore abbia subito un danno biologico permanente a seguito della morte del cucciolo, in considerazione sia dell’età della bambina al momento dell’evento (meno di due anni e quattro mesi), sia della limitata permanenza dell’animale in famiglia (circa un mese e venti giorni).

Quanto alla componente del danno non patrimoniale da perdita o lesione dell’animale d’affezione, muovendo dal principio, enunciato in seno alla giurisprudenza di merito, incline riconoscere nel rapporto tra padrone ed animale da affezione l’espressione di una relazione che costituisce occasione di completamento e sviluppo della personalità individuale e, quindi, come vero e proprio bene della persona, tutelato dall’art. 2 della Costituzione, il giudice, ne ha di conseguenza predicato in astratto la risarcibilità ove allegato, provato e dotato dei necessari requisiti di gravità.

Il medesimo articolo 2 della Costituzione, ha cura di precisare il giudice, è stato poi richiamato, in tempi più recenti, da pronunce che hanno condannato il veterinario al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal padrone in conseguenza di un’errata diagnosi che ha condotto al decesso dell’animale, sul presupposto che ritenere che la perdita de qua sia futile e “…non integri la lesione di un interesse della persona alla conservazione della propria sfera relazionale-affettiva, costituzionalmente tutelata, non sembra più rispondente ad una lettura contemporanea delle abitudini sociali e dei relativi valori…”.

Tanto premesso, sulla scorta della più recente giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice ha affermato che il danno non patrimoniale non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa. Ne consegue che il danneggiato che ne chieda il risarcimento è tenuto a provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di sofferenza patita in dipendenza della perdita dell’animale d’affezione, potendosi a tal fine avvalere anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari diversi dal fatto in sé del decesso dell’animale. Applicando tali principi alla controversia sottoposta alla sua cognizione, il giudice, se da un lato ha respinto la domanda risarcitoria avanzata dai genitori, in assenza di prova di un loro concreto pregiudizio patito, dall’altro ha invece ritenuto provato il danno non patrimoniale allegato con riferimento alla loro figlia minore, avendo gli attori prodotto una relazione psicodiagnostica di parte che, se pur non idonea, per i declinati motivi, a dimostrare l’insorgenza di un danno biologico permanente a carico della minore, risulta tuttavia sufficiente a fornire quegli elementi indiziari idonei a far ritenere presuntivamente provata la sussistenza di un concreto pregiudizio risarcibile. In sede di quantificazione del danno, conclude il giudice, dovrà poi tenersi conto sia della tenera età della bambina al momento del fatto (due anni e quattro mesi, laddove, notoriamente, i primi ricordi che resteranno vividi anche in età adulta incominciano a fissarsi nella memoria del bambino intorno ai tre anni di vita), sia della ridotta permanenza del cucciolo in famiglia (circa un mese e venti giorni, sicuramente sufficienti per affezionarsi alla bestiola, ma di durata troppo limitata perché possa dirsi instaurato un rapporto affettivo particolarmente intenso).

Responsabilità dei padroni e committenti

Un’ultima questione d’interesse scrutinata dalla pronuncia riguarda una contestazione mossa dai titolari dello studio associato i quali, in sede di costituzione in giudizio, avevano affermato l’insussistenza di una propria responsabilità, adducendo che la prestazione professionale era stata resa da un medico veterinario il quale non era alle dipendenze del predetto studio, chiedendo al contempo di poter effettuare la chiamata in causa, onde essere manlevati dall’eventuale accoglimento delle pretese avversarie.

Il giudice adito, non autorizzando la chiamata in causa per ragioni di economia processuale, ha disatteso l’assunto facendo corretta applicazione del principio, da ritenere consolidato nella giurisprudenza di legittimità, a mente del quale, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2049 cod. civ., è sufficiente che il fatto illecito sia commesso da un soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre non solo in caso di lavoro subordinato, ma anche quando per volontà di un soggetto (committente) un altro (commesso) esplichi un’attività per suo conto.

In altri termini, proprio com’è pacificamente avvenuto nel caso di specie, per la sussistenza della responsabilità dell’imprenditore ai sensi della richiamata disposizione, non è necessario che le persone che si sono rese responsabili dell’illecito siano legate all’imprenditore da uno stabile rapporto di lavoro subordinato, ma è sufficiente che le stesse siano inserite, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbiano agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell’imprenditore.

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