Giustizia

Giustizia sportiva, i nodi dei rimedi asimmetrici

Sulle questioni tecniche e disciplinari decide il giudice sportivo, mentre i problemi amministrativi sono affidati al Tar

di Andrea Giordano

Lo sport è, ancora, alla ricerca di un giudice. Dopo aver suggellato l’autonomia dell’ordinamento sportivo, la legge 280/2003 ha distinto tra questioni tecniche, disciplinari e amministrative, attribuendo le prime due ai giudici sportivi e le terze al giudice amministrativo; ha al contempo istituito un “vincolo di giustizia sportiva” che onera i tesserati al previo esaurimento dei rimedi domestici.

Tale cartografia è stata, da una parte, incisa dagli orientamenti della Corte costituzionale e, dall’altra, dal decreto legge 115/2018.

Le questioni disciplinari sono state interessate dalle sentenze 49/2011 e 160/2019, con cui la Consulta ha preservato i poteri caducatori del giudice sportivo, riconoscendo uno spicchio di giurisdizione “meramente risrcitoria” del giudice amministrativo nei soli casi di rilevanza della sanzione per l’ordinamento statale. Secondo la Corte, la riserva “domestica” sulle questioni disciplinari preserverebbe gli articoli 2 e 18 della Costituzione; la salvezza dell’azione risarcitoria avanti al giudice amministrativo garantirebbe il diritto di difesa delle posizioni soggettive lese dai provvedimenti degli organi sportivi.

Diversa sorte hanno subito le questioni amministrative. Contrariamente all’originario disegno del decreto legge 220/2003, la legge 280/2003 le ha rimesse alla giurisdizione del giudice amministrativo, senza distinzioni in punto di strumenti di tutela esperibili. Quindi, il decreto legge 115/2018, traslato nell’articolo 1, commi 647-650, della legge 145/2018, ha sensibilmente depotenziato il vincolo di giustizia in relazione alle controversie in materia di ammissione o esclusione dalle competizioni sportive professionistiche: a meno che lo statuto e i regolamenti del Coni e delle federazioni sportive non prevedano organi capaci di decidere anche nel merito e in unico grado entro il termine perentorio di 30 giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato, viene meno ogni competenza degli organi di giustizia sportiva.

Da una parte, la Corte costituzionale promuove, rispetto alle liti in materia disciplinare, l’autonomia dell’ordinamento di settore; dall’altra, il legislatore sembra riconoscere, per le questioni di carattere amministrativo, la maggiore idoneità della giurisdizione statale.

Se è vero che non esistono soluzioni preconfezionate e che l’“autonomia” può essere declinata secondo modalità cangianti, materie egualmente rilevanti per l’ordinamento statale devono essere trattate in modo omogeneo. Tanto quanto le questioni di carattere amministrativo, anche quelle disciplinari possono rilevare per l’ordinamento; e se, nel concreto, rilevano, incidendo sullo status di tesserato o affiliato e, quindi, spiegando effetti sul piano patrimoniale e morale, devono essere destinatarie di un omologo ventaglio di strumenti di protezione.

Trattare l’esclusione da un campionato diversamente da come si regola una sanzione disciplinare espulsiva, tanto “rilevante” quanto la precedente per l’ordinamento statale, è operazione di dubbia coerenza, che mina la stessa autorevolezza del sistema di giustizia, complessivamente inteso.

L’auspicio è che si ridisegni, organicamente, il sistema della giustizia sportiva, nell’ottica di una rigorosa simmetria dei rimedi, bilanciando il principio pluralista con quel predicato di inviolabilità che dovrebbe, indistintamente, connotare il diritto alla difesa.

L’autore è magistrato della Corte dei conti e componente del Comitato scientifico dell’Igs

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