Interdittive antimafia, il giudice valuta le chance di bonifica dell’impresa
Il Consiglio di Stato delinea le differenze con il controllo deciso dal prefetto
Il Consiglio di Stato in adunanza plenaria ha chiarito le competenze del prefetto e della magistratura penale sui controlli antimafia che possono evitare l’espulsione dell’impresa dal mercato prevista dal Codice antimafia (Dlgs 159/2011).
La legge 152/2021 ha infatti accentuato il ruolo del prefetto e previsto percorsi utili ad evitare la paralisi dell’interdittiva: quando vi sono elementi spia di possibili contatti e tentativi di infiltrazione mafiosa, l’impresa viene ammessa ad un contraddittorio (20 giorni) e se il contatto mafioso è «solo occasionale», il prefetto prescrive un periodo (da sei mesi ad un anno) di controllo sull’impresa denominato «prevenzione collaborativa» che, in parte, utilizza i criteri di controllo previsti dal Dlgs 231 / 2001 (sulla responsabilità di enti e società), ed in parte ricorre ad esperti che coadiuvano il prefetto nel verificare se il contatto con l’ambiente mafioso sia occasionale o strutturale.
Solo in caso di sicura contaminazione, scatta l’interdittiva.
Questo meccanismo fornisce al prefetto uno strumento (definito «controllo collaborativo»), con caratteristiche simili a quello utilizzato dal Tribunale penale, sezione misure della prevenzione, sottoponendo l’impresa ad un periodo di vigilanza, da uno a tre anni, durante il quale il giudice, anche avvalendosi di soggetti esperti estratti da un apposito albo (amministratori giudiziari), sottopone a vigilanza l’impresa e, consentendo la prosecuzione dell’attività, verifica se sussista un’infiltrazione occasionale o strutturale.
Ora l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenze nn. 6-7-8 del febbraio 2023) chiarisce il rapporto tra vigilanza prefettizia e penale. Entrambe puntano ad evitare le contaminazioni mafiose dell’impresa, ma la prevenzione collaborativa (prefettizia) e il controllo giudiziario (penale) hanno percorsi autonomi, con diversi presupposti: mentre il prefetto valuta la storia dell’impresa, attingendo elementi registrati nella Banca dati interforze (indagini, informazioni, parentele, condanne), il giudice penale considera anche le possibilità future di bonifica, se cioè l’impresa può evitare contatti mafiosi.
In virtù di questa autonomia, i due controlli possono avere esiti diversi: il Tribunale della prevenzione, con l’ausilio dei propri esperti, può convincersi della trasparenza dell’impresa e della mera occasionalità di eventuali contatti mafiosi; ma contemporaneamente il Prefetto, consultando la Banca dati interforze ed altri elementi di indagine, può ritenere consolidata un’infiltrazione mafiosa nella stessa impresa.
Le divergenze con la prefettura, durante il controllo giudiziario disposto dal magistrato penale, sono risolte sospendendo l’interdittiva prefettizia, mantenendo cioè l’impresa operativa sul mercato. Ciò significa che un’informativa interdittiva emessa dal prefetto è sospesa in modo automatico se l’impresa propone ricorso al Tar e, nel contempo, chiede al giudice penale l’ammissione al controllo giudiziario.
Tuttavia, osserva il Consiglio di Stato, il ricorso amministrativo non è vassallo del controllo giudiziario penale, né deve attendere o adeguarsi a ciò che dice il Tribunale delle misure di prevenzione.
Autonomia significa anche che il controllo della magistratura penale può essere favorevole all’impresa, mentre il ricorso amministrativo avverso l’informativa può essere respinto, ritenendo l’impresa irreversibilmente contaminata. Le sentenze del Consiglio di Stato del 2023 accentuano l’autonomia tra le autorità che accertano la contaminazione mafiosa: ognuno dei due accertamenti segue la propria strada, senza interferenze.
Ciò perché mentre l’interdittiva prefettizia fotografa una situazione pregressa e già delineata, il controllo disposto dalla magistratura penale tende ad accertare le prospettive di bonificabilità, cioè di inversione di rotta nei rapporti tra l’impresa e le realtà mafiose.
Di fatto, le norme consentono un doppio salvagente alle imprese, attraverso il controllo giudiziale e quello prefettizio. Entrambe le strade evitano la paralisi aziendale causata dall’interdittiva: ad esempio, l’impresa può iniziare una collaborazione con la Prefettura, accertando in 6 o 12 mesi l’occasionalità di contatti mafiosi, oppure, in ipotesi di emanazione dell’informativa interdittiva, domandare volontariamente al Tribunale penale l’ammissione al controllo giudiziario pluriennale per accertare la possibilità di bonifica da contatti compromettenti.
In ambedue i casi, l’impresa entra in un periodo di sorveglianza e di “messa alla prova”, che dura fino ad una anno per il controllo prefettizio, e tre anni per il controllo penale. Durante questo periodo, le prescrizioni ed i controlli impartiti dagli amministratori dovranno escludere o qualificare come meramente occasionali eventuali contatti mafiosi: durante i controlli, tuttavia, permane la piena capacità dell’impresa ad operare nel mercato dei contratti pubblici mantenendo altresì la titolarità di permessi, autorizzazioni, licenze e contributi.