Civile

Tutto pronto per la definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi la Corte di Cassazione ma la definizione non sempre si rivela conveniente

Con la Legge 31 agosto 2022 n. 130, il legislatore, ha inteso "smaltire" il carico delle liti pendenti innanzi la Suprema Corte prevedendo la possibilità di una definizione delle stesse al ricorrere di determinate condizioni

di Beatrice Fimiani*

Il Legislatore, al fine di creare le migliori condizioni possibili volte a favorire un effettivo ed immediato miglioramento come rinnovato dalle disposizioni introdotte con la Legge 31 agosto 2022 n. 130, ha inteso "smaltire" il carico delle liti pendenti innanzi la Suprema Corte prevedendo la possibilità di una definizione delle stesse al ricorrere di determinate condizioni.

In particolare, l'art. 5 della citata legge prevede la possibilità di definire le controversie tributarie pendenti alla data del 16 settembre 2022 per le quali l'Agenzia delle Entrate risulti integralmente soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio ed il cui valore - determinato ai sensi dell'articolo 16, co. 3, Legge 27 dicembre 2002, n. 289 - non sia superiore a 100.000 euro, mediante il pagamento di un importo pari al 5% di detto valore.

Quando invece l'Agenzia delle Entrate risulti soccombente in tutto o in parte in uno dei gradi di merito e il valore della lite non sia superiore a 50.000 euro, ai fini della definizione è dovuto il pagamento di un importo pari al 20% del suo valore.

La citata norma – in linea con quanto già previsto in tutte le analoghe disposizioni che, in passato, avevano previsto e disciplinato una definizione agevolata delle liti fiscali pendenti (i.e. art. 16 della Legge 27 dicembre 2002 n. 289, art. 11 del DL 24 aprile 2017 n. 50 e art. 6 del DL 23 ottobre 2018 n. 119) – prevede che, ai fini della definizione, si tiene conto di eventuali versamenti già effettuati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio, ma che comunque la definizione non dà luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione stessa.

Nonostante l'importo delle somme dovute per la definizione della controversia in caso di soccombenza in almeno un grado di giudizio – pari al 20% della sola imposta oggetto di contestazione – appaia prima facie vantaggioso, nell'applicazione pratica la definizione può invece risultare di nessun interesse in quanto non conveniente.

Ciò occorre, in particolare, laddove il contribuente, dopo la sentenza favorevole in primo grado, sia risultato soccombente nel giudizio di appello. In questo caso, come previsto dalle disposizioni che disciplinano il pagamento del tributo in pendenza del processo il contribuente – salvo abbia ottenuto una sospensione in via amministrativa della riscossione ovvero in via giudiziale degli effetti della sentenza di appello ovvero dell'atto impugnato successivamente alla proposizione del ricorso innanzi la Suprema Corte - è chiamato a corrispondere integralmente quanto dovuto a titolo di imposta, sanzioni e interessi (ex art. 68, co. 1, del D.Lgs. n. 546/92).

In questa ipotesi, difatti, l'ammontare delle somme dovute per la definizione della controversia risulta ben inferiore a quanto già corrisposto per effetto della soccombenza nel giudizio di appello e non essendo detta eccedenza in alcun modo ripetibile in base alle disposizioni sopra richiamate, non vi sarebbe alcuna convenienza a definire la controversia pendente salvo ricorrano diversi e preminenti interessi a chiudere la partita con l'Erario quali, ad esempio, quello di scongiurare la statuizione di un principio o di un orientamento che possa alimentare e rinvigorire ulteriori contestazioni a carico del contribuente o anche, più semplicemente, eliminare il rischio di una condanna al pagamento delle spese di lite - unitamente ad un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già corrisposto - laddove si possa ritenere probabile, in base ad un sopravvenuto orientamento giurisprudenziale, una soccombenza.

Teoricamente la descritta ipotesi ricorreva anche per effetto delle analoghe disposizioni previste da ultimo dall'art. 6 del DL 23 ottobre 2018 n. 119, tuttavia merita considerare che le disposizioni in commento trovano applicazione anche, e si presume in larga parte, nelle liti aventi ad oggetto atti impoesattivi in relazione ai quali le modalità di riscossione degli importi dovuti a seguito della sentenza di secondo grado sono di gran lunga semplificati (poiché richiesti in base ad una mera intimazione di pagamento e senza la necessità di una previa iscrizione a ruolo e conseguente notifica della cartella di pagamento) a beneficio di una riscossione decisamente accelerata.

Ne consegue che attualmente – per effetto di un sistema più efficace basato sulla concentrazione in un solo atto della funzione impositiva e di quella esattiva – il contribuente, diversamente da quanto accadeva in passato, quasi mai sfugge al pagamento delle somme dovute per effetto della soccombenza nel giudizio di secondo grado ed anzi è invitato ad effettuare il pagamento in tempi relativamente brevi, pertanto saranno maggiori le ipotesi in cui la definizione della lite, salvo altre preminenti ragioni di opportunità di cui si è detto, non risulterà di interesse avendo già il contribuente versato più di quanto dovuto per la chiusura della lite senza possibilità di recupero dell'eccedenza, con conseguente vanificazione dell'obiettivo che la norma in commento, come premesso, ha inteso realizzare.

*a cura dell'Avv. Beatrice Fimiani, Partner Studio CMS

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