Penale

Messa alla prova e responsabilità ex 231, le SU mettono un punto (per ora) all'applicabilità dell'istituto agli enti

Dopo aver ripercorso i due opposti orientamenti sviluppatisi sul tema, gli Ermellini, hanno ritenuto di sposare quello più tradizionale, negando, con un ragionamento che valorizza la natura sanzionatoria di tale rito alternativo, la possibilità, per le persone giuridiche, di accedervi

di Andrea Puccio e Federico Moncada*

Con la pronuncia in commento, il Supremo Collegio ha posto fine al lungo dibattito in tema di applicabilità dell'istituto della messa alla prova nel contesto della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche ex D. Lgs. 231/2001.
In motivazione, gli Ermellini, dopo aver ripercorso i due opposti orientamenti sviluppatisi sul tema, hanno ritenuto di sposare quello più tradizionale, negando, con un ragionamento che valorizza la natura sanzionatoria di tale rito alternativo, la possibilità, per le persone giuridiche, di accedervi.

La questione

Con sentenza n. 14840 del 27 ottobre 2022 (motivazioni depositate il 6 aprile 2023), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate sull'ormai annosa questione circa la possibilità per l'ente, nei cui confronti si proceda per l'accertamento della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001, di accedere all'istituto della messa alla prova previsto dall'art. 168-bis c.p. per le persone fisiche.

Il caso posto al vaglio del Supremo Collegio traeva origine da un'ordinanza con cui il giudice di prime cure, dopo aver ammesso la società imputata dell'illecito amministrativo dipendente da reato a tale rito alternativo, aveva emesso, ai sensi dell'art. 464-septies c.p.p., sentenza di non doversi procedere nei confronti della stessa, dichiarando l'estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello, lamentando la violazione e falsa interpretazione degli artt. 168-bis e ss. c.p. e 62 e ss. D. Lgs. 231/2001 per inapplicabilità, nel contesto di tale Decreto, della disciplina della messa alla prova.

La Sezione assegnataria, ravvisando un contrasto giurisprudenziale in tema di ammissibilità del ricorso del Procuratore Generale avverso l'ordinanza di ammissione alla messa alla prova e la relativa sentenza di non doversi procedere, aveva rimesso la soluzione del quesito alle Sezioni Unite.

Per poter risolvere la questione sottopostagli, il Supremo Collegio ha dovuto preliminarmente affrontare il tema inerente all'ammissibilità dell'istituto della messa alla prova nel contesto della responsabilità dell'ente ex D.lgs. 231/2001, argomento che, invero, era già stato oggetto – come sottolineato dalla medesima Corte – di contrastanti pronunce di merito negli ultimi anni.

La querelle trova fondamento nel fatto che il D. Lgs. 231/2001 non contiene un esplicito riferimento alla messa alla prova, che, però, è stata introdotta nel nostro sistema processuale solo con la Legge n. 67/2014, e, dunque, in epoca ben successiva all'entrata in vigore del Decreto in parola.

Per tale ragione, l'applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova all'ente ha, sin da subito, dato luogo, sia nella dottrina che nella prassi applicativa, a soluzioni interpretative di segno opposto. Contrasti che, con la decisione delle Sezioni Unite, potrebbero non attenuarsi, data la sempre più sentita esigenza di perseguire, nell'attuale contesto normativo, le finalità di economia processuale e di extrema ratio della sanzione penale, di cui l'istituto ex art. 168 bis c.p. è espressione, che verrebbero così eccessivamente limitate nel contesto della responsabilità degli enti.

La tesi negativa

Secondo una parte della giurisprudenza di merito, il rito alternativo della messa alla prova non può trovare cittadinanza nel sistema della responsabilità amministrativa degli enti.

Un primo argomento a sostegno di tale conclusione, secondo un'ordinanza del Tribunale di Milano , deve ricercarsi nel necessario rispetto dei principi di riserva di legge e di legalità sanciti dall'art. 25, comma 2, della Costituzione.

Stante l'assenza di una normativa che raccordi l'istituto in questione con la disciplina processuale e sanzionatoria prevista dal D. Lgs. 231/2001, infatti, qualsiasi estensione analogica della messa alla prova al procedimento de societate aprirebbe ad una violazione del principio di riserva di legge, atteso che solo il legislatore potrebbe collegare determinate ipotesi sanzionatorie a specifiche categorie di illeciti.

Tale operazione ermeneutica comporterebbe, peraltro, anche una violazione del principio di legalità: la natura sanzionatoria degli adempimenti imposti dall'art. 168-bis c.p. non consentirebbe, invero, un'applicazione dell'istituto anche alle persone giuridiche, in assenza di un esplicito richiamo normativo.

L'impossibilità, per l'ente, di accedere alla messa alla prova è stata, altresì, affermata da una successiva pronuncia del Tribunale di Bologna , secondo cui il mancato coordinamento della Legge n. 67/2014 con la disciplina prevista dal D. Lgs. 231/2001 non può ritenersi casuale e costituisce, invece, l'espressione di una chiara intentio legis, che mira ad escludere l'applicazione di tale rito speciale alle persone giuridiche, posto che le esigenze rieducative e special-preventive che hanno ispirato l'introduzione della messa alla prova non possono trovare applicazione nel contesto degli enti.

Né, tantomeno, si possono ignorare le difficoltà nell'applicazione all'ente delle diverse prescrizioni previste dal Codice penale e da quello di rito, che parrebbero, secondo il giudice bolognese, calibrate con esclusivo riferimento alla persona fisica. In tal senso, sono ritenute ostative all'estensione applicativa della messa alla prova il richiamo operato, rispettivamente, dagli artt. 464-bis c.p.p. e 464-quater c.p.p., al coinvolgimento del "nucleo familiare" dell'imputato nel processo di reinserimento sociale di quest'ultimo e ai parametri di commisurazione della pena di cui all'art. 133 c.p.; altrettanto esplicito sarebbe il riferimento allo svolgimento di volontariato di rilievo sociale e alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, previsti dall'art. 168-bis, co. 1 e 2, c.p. per l'imputato che intenda accedere all'istituto premiale.

Tali disposizioni dimostrerebbero, pertanto, l'esclusiva attinenza della messa alla prova alla persona fisica, di talché non sarebbe possibile estendere la sua portata anche all'ente imputato per l'illecito 231, non potendo essere per questo applicabili le prescrizioni appena menzionate.

In termini ancora più perentori si è pronunciato il Tribunale di Spoleto , che, rigettando l'istanza di messa alla prova formulata dall'ente, ha ravvisato diverse ragioni ostative all'applicazione analogica dell'istituto nel contesto de societate.

In primo luogo, il Tribunale ha sottolineato come l'impossibilità di estendere analogicamente l'art. 168-bis c.p. alla persona giuridica sarebbe motivata non tanto dalla violazione del principio di legalità o di riserva di legge che potrebbe derivare da una sua applicazione – dati gli effetti favorevoli che l'istituto produrrebbe anche per l'ente – quanto da ragioni meramente operative: in assenza di una disciplina di coordinamento sarebbe, infatti, alquanto complesso individuare l'ambito operativo della disposizione e le concrete modalità di svolgimento, da parte delle persone giuridiche, delle varie attività prescritte dal giudice, non essendo definiti i presupposti che legittimerebbero l'ente a richiederne l'applicazione. In caso contrario, si finirebbe per violare il principio di autonomia stabilito dall'art. 8 del D. Lgs. 231/2001, atteso che si instaurerebbe un indebito collegamento tra la sanzione comminata per il reato presupposto e quella che punisce l'illecito amministrativo.

In secondo luogo, le esigenze di carattere special-preventivo e riparatorio, nel contesto della disciplina 231, sarebbero già soddisfatte dall'art. 17, che darebbe la possibilità per l'ente di ravvedersi attraverso specifiche condotte riparatorie, in via del tutto analoga a quanto previsto dall'art. 168-bis c.p. per la persona fisica.

Nondimeno, l'adempimento delle prescrizioni previste dall'art. 17 non produrrebbe i medesimi effetti previsti in caso di buon esito del programma di trattamento per le persone fisiche: la riparazione delle conseguenze del reato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ai sensi degli artt. 17 e 65 del D. Lgs. 231/2001, non comporta, infatti, l'estinzione dell'illecito amministrativo per l'ente, come previsto, invece, per i reati nel contesto della messa alla prova, ma solo una mitigazione del trattamento sanzionatorio.

Per tale ragione, qualora si ritenesse applicabile ex art. 168-bis c.p. anche per la persona giuridica, si genererebbe un'indebita elusione di quanto prescritto dagli artt. 17 e 65 del D. Lgs. 231/2001, dal momento che, adempiendo alle medesime attività prescritte da tali disposizioni, l'ente finirebbe per beneficiare non di una "semplice" mitigazione della pena, bensì di una vera e propria estinzione dell'illecito amministrativo.

La tesi affermativa

Non condividendo le argomentazioni di cui sopra, altra parte della giurisprudenza di merito ritiene applicabile, nel contesto della responsabilità 231, l'istituto della messa alla prova.

In primo luogo, vale la pena notare come la giurisprudenza favorevole alla probation della persona giuridica non ritenga decisiva l'assenza, nel sistema del D. Lgs. 231/2001, di una specifica disposizione di richiamo dell'istituto della messa alla prova ex art. 168 bis c.p.

La possibilità, per l'ente, di accedere a tale istituto, sarebbe, infatti, garantita dagli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 231/2001, secondo cui le norme del codice di rito – ivi comprese le disposizioni processuali relative all'imputato – sarebbero applicabili, in quanto compatibili con la disciplina della responsabilità dell'ente, anche alle persone giuridiche.

Non sarebbe, dunque, sostenibile la tesi, pure affermata dall'orientamento contrario, secondo cui l'istituto della messa alla prova, avendo natura meramente "sostanziale", non ricadrebbe nell'ambito applicativo degli artt. 34 e 35 D. Lgs. 231/2001.

A tal proposito, sia la Corte Costituzionale che le Sezioni Unite , chiamate a pronunciarsi sulla natura della messa alla prova, hanno sottolineato come tale istituto, pur producendo effetti sostanziali, sia caratterizzato da un'accentuata dimensione processuale, consistendo in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio.

Né potrebbe ritenersi, come pure viene argomentato, che l'applicazione dell'istituto all'ente comporterebbe un'estensione analogica contraria al principio di riserva di legge e di tassatività, dal momento che gli effetti favorevoli dell'istituto, tali anche per la persona giuridica, la renderebbero conforme al principio di legalità e al divieto di analogia – che opererebbe, invero, solo in caso di analogia in malam partem.

In secondo luogo, l'applicabilità della messa alla prova deriverebbe da ragioni di coerenza normativa. Nello specifico, una recente pronuncia del Tribunale di Bari , soffermandosi sulla ratio assolta dall'istituto in questione nel contesto processuale, cioè quella di contemperare le esigenze di deflazione processuale con quelle di reinserimento sociale dell'imputato, sottolinea come non vi sarebbero ragioni ostative ad una sua estensione anche alle società.

Il fine perseguito dalla disciplina della responsabilità amministrativa degli enti, difatti, risponde a particolari ragioni preventive, volte a "rieducare" l'ente nel cui ambito siano state poste in essere delle condotte delittuose. Tale considerazione, del resto, verrebbe sostenuta dalla presenza già nella disciplina de societate di condotte riparatorie, volte ad attenuare l'afflittività della sanzione pecuniaria o ad escludere l'applicazione di sanzioni interdittive .

Proprio sotto tale punto di vista, la tesi favorevole all'applicazione dell'istituto anche alla persona giuridica presupporrebbe l'adozione di un modello organizzativo da parte dell'ente, il quale manifesterebbe l'idoneità della persona giuridica a "ritornare" alla legalità attraverso uno specifico percorso rieducativo.

La natura special-preventiva propria dell'istituto, volto ad un "ritorno alla legalità" dell'imputato mediante specifici programmi di probation processuale, pertanto, si adeguerebbe perfettamente con l'esigenza di compliance previste dalla disciplina 231, intesa – come specificato dal giudice barese – come "funzionalizzazione delle procedure interne all'ente per prevenire la commissione dei reati, al fine di evitare il rischio di incorrere in sanzioni".

Né, tantomeno, osterebbe all'estensione dell'istituto il rilievo relativo alla natura della responsabilità dell'ente, dal momento che le esigenze preventive e di massima garanzia, caratteristiche del procedimento a carico della persona giuridica, sarebbero perfettamente compatibili con gli artt. 168-bis e 168-ter c.p. Sotto questo punto di vista, lo stesso Tribunale rileva come l'art. 168-bis c.p. non specifichi che l'imputato debba essere solamente la persona fisica, potendo perfettamente essere anche la persona giuridica.

Non sarebbe, infine, nemmeno decisivo il rilievo in merito al difetto di coordinamento rispetto all'art. 17 D. Lgs. 231/2001, il quale, disciplinando la riparazione delle conseguenze dal reato, avrebbe uno spazio applicativo differente rispetto all'istituto della messa alla prova: quest'ultimo, difatti, oltre a contemplare la riparazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, prevede che l'ente risarcisca il danno alla persona offesa – ove possibile –, svolga programmi di affidamento al servizio sociale e presti il proprio lavoro in attività di pubblica utilità.

La previsione di una tale forma di ravvedimento post factum, pertanto, si inserirebbe in maniera assolutamente conforme al contesto normativo previsto per la responsabilità delle persone giuridiche: in questo senso, si potrebbero, infatti, richiamare le numerose disposizioni previste dal D. Lgs. 231/2001 che prevedono, nel corso dell'iter procedimentale, diversi incentivi al ravvedimento dell'ente, finalizzati ad un vero e proprio ritorno della persona giuridica alla legalità e all'eliminazione delle proprie carenze organizzative .

Andrebbe, peraltro, rilevato – come pure ha fatto notare il giudice barese nella propria ordinanza – come l'istituto della messa alla prova non rappresenti una novità nel panorama internazionale della responsabilità amministrativa degli enti: l'idea di "mettere alla prova un ente", sottoponendo la sua attività di "risocializzazione" ad un controllo da parte di un organo di sorveglianza, risulta largamente utilizzata nei Paesi di common law, mediante la facoltà di imporre determinati obblighi a carico della società diretti a modificare la sua struttura organizzativa, al fine di eliminare i difetti di gestione che hanno reso possibile la commissione del reato.

La soluzione delle Sezioni Unite

Come anticipato in precedenza, nella sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno aderito al primo orientamento, ritenendo, attraverso un esame congiunto della disciplina sia del D. Lgs. 231/2001 sia degli artt. 168-bis e ss. e 464-bis e ss. c.p.p., che la messa prova non possa essere estesa alla persona giuridica.

Nell'affermare tale posizione, il Giudice di Legittimità si è soffermato, anzitutto, sull'analisi della natura della responsabilità introdotta dal "sistema 231". Aderendo all'interpretazione offerta in un proprio precedente , la Corte ha, infatti, ribadito come la natura della responsabilità dell'ente sia riconducibile ad un tertium genus sanzionatorio, che coniugherebbe i "tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo".

La Cassazione è, poi, passata ad analizzare la natura dell'istituto della messa alla prova, come prescritto dall'art. 168-bis c.p.

Partendo dal presupposto che il procedimento di ammissione a tale rito alternativo e di successiva estinzione del reato – ai sensi dell'art. 168-ter c.p. e 464-septies c.p.p. – rappresenterebbe una fase incidentale in cui si svolgerebbe un vero e proprio "esperimento trattamentale", sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati, la Corte ha ritenuto che l'istituto in parola, pur presentando effetti positivi per l'imputato che vi accede, abbia una natura indubbiamente sanzionatoria.

Tale dato emergerebbe, secondo le Sezioni Unite, dalla previsione di una prestazione non retribuita da parte dell'imputato in favore della collettività, dall'adozione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, dal risarcimento del danno – ove possibile –, nonché dagli obblighi derivanti dallo svolgimento di attività di rilievo sociale. Parimenti sintomatica della natura sostanzialmente afflittiva della misura sarebbe la necessaria proporzione tra la gravità della violazione posta in essere e le prescrizioni impartite nell'ambito del programma di messa alla prova, nonché la previsione, di cui all'art. 657-bis c.p.p., in caso di esito negativo del programma, di scomputare dalla pena comminata all'imputato quanto effettivamente eseguito dal reo nell'ambito delle prescrizioni impartitegli.

Tale tesi, del resto, si pone in continuità con numerose pronunce sia della Corte di Legittimità che della Corte Costituzionale , le quali, pur sottolineando – in coerenza con quanto affermato dalle Sezioni Unite S. – la duplice natura della messa alla prova, hanno rilevato come il nuovo istituto rappresenti un vero e proprio trattamento sanzionatorio, ancorché anticipato rispetto all'ordinario accertamento della responsabilità dell'imputato e rimesso comunque alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte del soggetto, il quale, in conformità con l'art. 27, comma 3, della Costituzione, partecipa ad un programma di "risocializzazione" sulla base di una propria libera scelta.

Sulla scorta di tali considerazioni – e riprendendo quanto già espresso da alcune delle sentenze di merito sopracitate -, il Supremo Collegio ha sottolineato come consentire agli enti imputati per l'illecito 231 di accedere a tale istituto comporterebbe una violazione del principio di riserva di legge, nonché del principio di legalità, dal momento che, in questo modo, si consentirebbe l'applicazione di un "trattamento sanzionatorio – quello della messa alla prova – ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge come destinatari di esso".

In conclusione, condividendo le argomentazioni formulate dal Procuratore Generale, le Sezioni Unite sottolineano come, dalla disciplina dell'istituto prevista sia dal Codice penale che da quello di rito, emerga che il destinatario dell'istituto sia prettamente la persona fisica, non anche quella giuridica. I vari adempimenti previsti dagli artt. 464-bis e 464-ter c.p.p., infatti, dimostrerebbero chiaramente come le prescrizioni impartite all'imputato abbiano, quale unico destinatario, una persona fisica, non essendo possibile traslare in capo all'ente i riferimenti relativi alla valutazione psicologica del reo ai sensi dell'art. 133 c.p., o, ancora, le disposizioni inerenti al reinserimento sociale dell'imputato o del suo nucleo familiare.

Conclusioni

La pronuncia delle Sezioni Unite segna sicuramente un rilevante punto di arrivo nel lungo dibattito inerente all'applicabilità dell'istituto della messa alla prova nei confronti della persona giuridica.

Le argomentazioni adottate dalle Sezioni Unite – fondate, in particolare, sui rilievi già dedotti dai precedenti di merito – evidenziano una lettura assai "restrittiva" dell'art. 168-bis c.p., il quale, stante la sua natura prevalentemente sostanziale, non potrebbe applicarsi alla persona giuridica in assenza di uno specifico intervento legislativo.

Tale conclusione, tuttavia, rischierebbe di valorizzare solamente il carattere sanzionatorio della messa alla prova, ignorando, invece, la natura premiale e deflattiva che caratterizza tale istituto e che ne ha ispirato l'introduzione nel 2014.

Circostanza che, peraltro, si pone in controtendenza con la direzione ormai intrapresa dal nostro ordinamento, sempre più orientato al perseguimento di finalità di deflazione ed economia processuale, nonché di riduzione del perimetro dell'intervento sanzionatorio penale, come del resto testimoniato dalla recente Riforma Cartabia.

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*A cura dell'Avv. Andrea Puccio, Founding Partner Puccio Penalisti Associati e del Dott. Federico Moncada


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