Famiglia

Sulla carta d'identità le due mamme vanno indicate come genitore del minore

L'emissione della Cie per il minore attraverso la nomenclatura genitore è funzionale all'osservanza del principio di esattezza dei dati del Regolamento europeo

di Valeria Cianciolo

Il provvedimento capitolino ha accolto la richiesta di due mamme che chiedevano l'inserimento del termine genitore per entrambe, nella carta di identità elettronica del loro figlio minore.
L'ordinanza del Tribunale romano ha superato così la politica. Si può affermare, a buon diritto, che genitore 1 e genitore 2 sono una realtà.

Occorre, però fare un passo indietro per cercare di cogliere gli aspetti tecnici della lunga ordinanza.
Con il decreto 31 gennaio 2019, (pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 79, del 3 aprile 2019, in modifica al decreto del 23 dicembre 2015, recante modalità tecniche di emissione della Carta d'Identità Elettronica (CIE)), il Ministero dell'Interno, di concerto con il Ministero per la Pubblica Amministrazione e con il Ministero dell'Economia e delle Finanze, ha reintrodotto la nomenclatura "Madre" e "Padre", in luogo di "Genitori esercenti la responsabilità genitoriale", relativamente alla Cie (carta di identità elettronica) concernente i minori, sebbene il Garante della Privacy avesse espresso parere negativo nell'ottobre 2018, avverso la richiesta di parere del Ministero dell'Interno datata 10 settembre 2018.

Se il concetto di famiglia è declinabile in più modi, è di tutta evidenza che possano infatti esserci casi in cui non vi sia un reale riscontro tra chi è padre e/o madre con chi, invece, esercita la suddetta titolarità soggettiva di genitore. Si pensi ai casi in cui la responsabilità genitoriale discenda da provvedimenti di adozioni, trascrizioni di atti di nascita formati all'estero a seguito di Pma o rettificazione di attribuzione di sesso.
Gli appunti sollevati dal Garante riguardavano il vocabolario impiegato "limitatamente allo specifico profilo burocratico del rilascio della Cie e del suo contenuto" con la disciplina prevista dal Gdpr (Regolamento Europeo sul Trattamento dei Dati Personali). In particolare, sotto un profilo puramente normativo, si viola il principio di esattezza nel conferimento dei dati, oltreché di tutela della libertà personale, con particolare riferimento al principio di esattezza dei dati e alla tutela dell'identità personale. Infatti, quando viene richiesto il rilascio di una carta d'identità elettronica per un minore, ciò che importa è quale sia la posizione giuridica soggettiva dei richiedenti, ossia, chi ha la titolarità della responsabilità genitoriale. Si faccia l'esempio, della richiesta di rilascio di Cie da parte di esercenti la responsabilità genitoriale che non siano anche padre e madre del minore: si arriverebbe all'irrazionale soluzione che il minore non potrebbe conseguire né la trascrizione all'anagrafe né l'ottenimento del proprio documento d'identità.
Indicare il termine padre laddove il genitore intenzionale sia di sesso femminile, significherebbe dichiarare il falso, con ogni effetto penale conseguente, e nella medesima posizione il funzionario dello Stato civile che indicasse una condizione non veritiera. Ma neppure corretto sarebbe indicare il termine madre posto che madre è colei che partorisce e questo non può dirsi per il genitore sociale.

Insomma un vero rebus linguistico che necessiterebbe dell'aiuto di un accademico della Crusca.
Il tutto contro l'interesse del minore che, nel primo caso, non otterrebbe il documento di identità, mentre negli altri avrebbe il rilascio di un documento non identificativo giacché non corrispondente alla realtà.
Inoltre, i lemmi madre e padre violerebbero il principio di non discriminazione sancito sia dalla nostra Costituzione che dalla Convenzione Europea.

Il Garante, quindi, aveva espresso parere favorevole a condizione che in ordine alla posizione dei minori di anni 14 si aggiungesse nel documento tecnico, alla locuzione già presente di "padre" e "madre, quella di "genitore" nella composizione: "padre/ genitore e madre/genitore". (Garante Privacy, 31 ottobre 2018, n. 476, in www.garanteprivacy.it.), dichiarando che la modifica proposta è suscettibile di introdurre «ex novo, profili di criticità nei casi in cui la richiesta della carta di identità, per un soggetto minore, è presentata da figure esercenti la responsabilità genitoriale che non siano esattamente riconducibili alla specificazione terminologica padre o madre». Si voleva certamente contenere il tentativo, del Governo, di restaurare uno status quo, impossibile dopo il varo della legge Cirinnà (Legge 20 maggio 2016, n. 76).
Tuttavia, il Ministero dell'Interno, ha portato a termine la modifica al precedente Decreto del Ministero dell'Interno 23 dicembre 2015, senza tenere conto delle osservazioni del Garante, reintegrando i termini "madre" e "padre", in luogo di "genitori", che esercitano la responsabilità genitoriale.

Nel caso in esame, il Tribunale capitolino evidenzia l'inutilità delle varie norme codicistiche e non richiamate dalla difesa erariale e comunque, inconferenti ai fini della risoluzione della questione giuridica sottesa al caso in esame.
In primo luogo, il richiamo all'art. 5, L. n. 40/2004 non appare del tutto pertinente, posto che, nel caso di specie, la questione non riguarda se una coppia omosessuale femminile possa accedere o meno alla fecondazione assistita, ma si tratta, piuttosto, di stabilire se possa essere accolta la richiesta delle due donne di vedere inserita nella C.I.E. della bambina procreata da una di esse, l'indicazione della doppia maternità/genitorialità. Neppure il richiamo fatto dalla difesa erariale all'art. 30 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 è risolutivo.
Ora, se è vero che il riferimento alla "madre" presuppone il legame genetico o, quantomeno, biologico con il nato, è altrettanto vero che il termine "genitore" è espressione neutra, che, di per sé, non fornisce alcuna indicazione sul genere dell'altro componente della coppia, non potendosi per ciò escludere che, in astratto, quest'ultimo possa essere anche un soggetto dello stesso sesso della "madre". Anzi, se le parole non sono usate solo perché tradizionalmente considerate corrette (ma non veritiere), il Ministero avrebbe dovuto ricordare quanto affermato dalla Suprema Corte, secondo la quale, il concetto di "paternità" e quello di "genitorialità" devono essere tenuti distinti, dato che il primo riguarda il rapporto di discendenza genetica, riconosciuto soltanto al membro della coppia con il quale il bambino ha un rapporto di sangue, mentre il secondo può essere inteso "come relazione affettivo-familiare con il minore e come responsabilità e capacità di cura degli interessi dello stesso, che può trovare realizzazione anche attraverso altri istituti previsti dall'ordinamento" (Cass. civ., SS.UU., 8 maggio 2019, n. 12193).
Quel che preme evidenziare, comunque, è che lo status familiae condiziona il diritto dei cittadini europei di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Non a caso, l'Unione Europea ha adottato la direttiva n. 38/2004 CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che elenca tra i familiari il coniuge, il partner e i figli minori (art. 2), purtroppo, senza darne una definizione, creando fatalmente incertezze in quegli Stati membri più conservatori che si sono ben presto trovati a dover decidere se concedere il diritto di soggiorno al coniuge/partner same sex del proprio cittadino, e al figlio nato dal cittadino grazie a tecniche di procreazione medicalmente assistita vietate. È norma fondamentale, l'art. 21 TFUE (richiamata nel provvedimento capitolino in esame), che afferma "(i)l diritto di ciascun cittadino dell'Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza" (Considerando 5 dir. n. 38/04 CE).
Se è vero che l'Unione europea rispetta l'"identità nazionale" degli Stati membri "insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale" (art. 4, § 2°, TUE), in una chiave internazional-privatistica questa posizione corrisponde ad autorizzare gli Stati a invocare il limite dell'ordine pubblico in sede di riconoscimento di provvedimenti esteri. La Corte di giustizia ha peraltro precisato in più occasioni che, nelle relazioni tra Stati membri, il limite deve essere ricostruito in termini particolarmente restrittivi e applicato in casi assolutamente eccezionali: nello spazio giudiziario europeo, infatti, la regola è la libera circolazione degli atti e di conseguenza, delle persone.

Una indicazione che non tenesse conto dell'identità di sesso imponendo le qualifica di madre e padre, non fa che negare uno status personale, la cui attribuzione (come pure negazione) rimessa all'autorità dello Stato membro, ricade sul diritto del cittadino europeo di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri: in questo modo, pertanto, viene imposto agli Stati, anche nell'esercizio di proprie competenze esclusive, quali il riconoscimento dell'atto di nascita formato all'estero ovvero il rilascio di un documento d'identità, di adeguarsi alla dimensione effettiva della libertà di circolazione del cittadino europeo, fine cui potrà pervenirsi, in prima battuta, con un'interpretazione della normativa interna conforme al diritto europeo ovvero, laddove quest'ultima si rilevasse inidonea, con la disapplicazione delle norme interne contrastanti con l'art. 21 TFUE.
E' un dato ormai pacifico nella giurisprudenza comunitaria che si è formata sul punto che la relazione che lega una coppia omosessuale rientra nella nozione di "vita familiare" e di "vita privata" che uniscono una coppia eterosessuale. Se così è, giocoforza, dovrebbe dirsi contraria all'art. 21 TFUE una qualsiasi disposizione che disponga, seppur indirettamente, una limitazione alla libertà di circolazione che incida, parimenti, sulla vita privata e familiare delle coppie omosessuali.

Dalla normativa comunitaria discenderebbe dunque, il riconoscimento di un documento, (come pure il C.I.E. ) che affermi il rapporto di filiazione tra il minore e ciascuno dei due genitori omosessuali, attraverso una nomenclatura neutra come genitore, a prescindere dal fatto che quel rapporto abbia un fondamento biologico o giuridico: in questo modo, infatti, viene esteso, anche nei confronti delle coppie omosessuali, il diritto di accompagnare i minori rispetto ai quali sia stata accertata, pur da un atto di nascita formato all'estero, l'esistenza del legame genitoriale.

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