L’autonomia della responsabilità dell’ente ex Dlgs 231/01
No a forme di responsabilità oggettiva, per cui se un reato è stato compiuto, allora ne sarà responsabile anche l’ente
Nella giurisprudenza e in dottrina si registra talvolta confusione circa la natura e il fondamento della responsabilità dell’ente ex Dlgs 231 (“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”), circostanza che può condurre (e, talvolta, conduce) a delle distorsioni applicative originate da fraintendimenti sull’effettiva ratio e sui presupposti logico-giuridici di tale peculiare forma di responsabilità.
Difatti, se i commentatori sono oggi generalmente concordi nel ritenere che questa responsabilità si configuri come una sorta di tertium genus, che mutua e ricomprende aspetti tipici di istituti di diritto amministrativo, penale e civile, è dato riscontrare ancora qualche oscillazione in ordine all’effettivo fondamento di questa responsabilità. Ancora oggi ci si imbatte (soprattutto all’interno di atti emanati dalle procure della Repubblica, quali richieste di misure cautelari interdittive o richieste di rinvio a giudizio) nella tesi secondo la quale l’ente risponderebbe per “fatto altrui” e non per “fatto proprio”. Questo fraintendimento trova origine, con ogni probabilità, dalla circostanza che la responsabilità ex Decreto 231/01 richiede necessariamente che sia accertata l’esistenza di un “reato presupposto” realizzato da un “apicale” o da un “sottoposto” dell’ente (anche se non identificato: cfr. infra), per cui, non potendo esistere la responsabilità dell’ente senza previo accertamento (anche solo in via incidentale) dell’esistenza di un reato compiuto da una persona fisica, risulta per taluni naturale immaginare che il fondamento della rimproverabilità dell’ente risieda in una colpa per fatto altrui, secondo uno schema non molto dissimile da quello descritto dall’art. 2049 del codice civile a carico dei “padroni e committenti” per i danni arrecati dai loro “domestici e commessi” nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
Secondo altra linea interpretativa (talvolta tuttora ravvisabile in qualche atto di un procedimento penale, sovente una richiesta di rinvio a giudizio), la responsabilità dell’ente sarebbe assimilabile a quella di cui all’art. 40, secondo comma, del codice penale, che prescrive che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. In sostanza, secondo questa tesi, in capo all’ente graverebbe una sorta di cd. “posizione di garanzia”; esso sarebbe punibile per non avere impedito (come era suo preciso dovere fare) che un suo dipendente qualificato abbia compiuto un “reato presupposto” nel suo interesse e/o vantaggio.
In alcuni altri casi (oggi più rari, per fortuna) viene addirittura configurata una sorta di responsabilità oggettiva cd. automatica dell’ente, che si pone “a cavallo” tra una responsabilità per fatto “proprio” o per fatto “altrui” ma che ha un preciso – quanto aberrante – presupposto logico: se un reato è stato effettivamente compiuto nell’interesse e/o a vantaggio dell’ente, è evidente come l’ente medesimo non abbia adottato e/o efficacemente attuato un sistema di compliance interno davvero idoneo ad evitare la commissione di reati “presupposto” ex Dlgs 231/01. Si configurerebbe, in sostanza, una sorta di presunzione iuris et de iure : se il reato è stato consumato, il Modello organizzativo (e rispettive procedure/protocolli attuativi), quand’anche esistente, è per definizione inidoneo e insufficiente, perché, in caso contrario, il reato non si sarebbe mai verificato. Secondo questa logica (che è ancora piuttosto diffusa, soprattutto tra alcuni Pubblici Ministeri), diventa un dettaglio di scarsa importanza stabilire se la responsabilità dell’ente si configuri “per fatto altrui” (si risponde del fatto dell’“apicale” o del “sottoposto”) o “per fatto proprio” (mancata adozione di presidi effettivi ed efficaci per evitare la commissione del reato presupposto).
Nonostante questi “sbandamenti” interpretativi, che possono comportare gravi conseguenze circa l’esito dei procedimenti intentati contro gli enti ai sensi del Decreto 231/01, occorre riaffermare l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella (inscindibilmente connessa) della persona fisica, poichè l’ente risponde dell’illecito “231” per un fatto proprio, che trova fondamento nella sua cd. “colpa di organizzazione”.
L’autonomia della responsabilità dell’ente, come è noto, è affermata in maniera esplicita dalla lettera della rubrica dell’art. 8 del Dlgs 231/01.
Il principio viene declinato nella previsione che la responsabilità dell’ente sussiste anche laddove l’autore del reato (persona fisica) non sia stato identificato o non sia imputabile, nonché quando il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia. Ciò vale a smentire l’ipotesi che l’ente risponda dell’illecito per fatto altrui, perché, se così fosse, la mancata identificazione dell’imputato, la sua non imputabilità o l’estinzione del reato per una causa diversa dall’amnistia (caso tipico: la prescrizione del reato) dovrebbero necessariamente comportare l’impunità (anche) dell’ente.
E’ noto come la disciplina dell’art. 8 abbia suscitato più di qualche legittima perplessità nei commentatori, soprattutto con riferimento alla scelta, molto discutibile, di mantenere ferma la punibilità dell’ente anche quando non sia stato possibile identificare la persona fisica autrice del reato. Infatti, al di là dell’estrema difficoltà (riscontrata anche nella prassi applicativa) di accertare incidentalmente la verificazione di un reato senza riuscire ad individuarne l’autore, il precetto desta molte perplessità perché, se non è possibile individuare chi ha compiuto il reato, ci si chiede come possa essere verificata la presenza di un requisito essenziale della fattispecie complessa dell’illecito “231”, ossia che il reato stesso sia stato realizzato da un “apicale” o da un “sottoposto” (giacché l’ente non è punibile nel caso in cui il reato presupposto sia stato compiuto nel suo interesse e/o vantaggio da una persona fisica non rientrante in queste due categorie soggettive).
Detto questo, è comunque chiara l’intenzione del Legislatore di svincolare, di rendere per l’appunto “autonoma”, la responsabilità dell’uno (persona fisica che commette il reato) da quella dell’altro (ente), anche se occorre sempre tenere fermo il principio che l’assoluzione della persona fisica comporta l’impossibilità di condannare l’ente, perché se il reato non è stato commesso o non sussiste (da un punto di vista oggettivo o soggettivo) viene meno uno dei requisiti necessari per la punibilità dell’ente.
Il fondamento logico-giuridico di tale “autonomia” della responsabilità dell’ente ex Dlgs 231/01 risiede, in sostanza, proprio nel fatto che esso risponde per un fatto proprio, derivante da una forma particolare di colpa: la cd. “colpa di (o per) organizzazione”.
Come precisato dalla Suprema Corte di Cassazione (sulla scorta dell’insegnamento fatto proprio dalla notissima sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 38343 del 24.4.2014, cd. “ThyssenKrupp”), “La responsabilità degli enti può dunque essere definita come una vera e propria responsabilità di colpa per organizzazione, caratterizzata dal malfunzionamento dalla struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere volta – mediante adeguati modelli – a prevenire la commissione di reati. Le Sezioni Unite hanno infatti al riguardo affermato che, in tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli […]. Ciò significa che la responsabilità amministrativo-penale da organizzazione prevista dal d.lgs. 231/2001 investe direttamente l’ente trovando nella commissione del reato da parte della persona fisica il solo presuppost o, ma non già l’intera sua concretizzazione. La colpa di organizzazione, quindi, fonda una colpevolezza autonoma dell’ente, distinta anche se connessa rispetto a quella della persona fisica” (cfr. Cass., IV Sezione Penale, n. 38363 del 23.5.2018).
Ne discende che il fondamento della responsabilità dell’ente non consiste in una responsabilità per fatto altrui, essendo viceversa costituito da un fatto proprio rappresentato dalle carenze gestionali/organizzative dell’ente, che hanno consentito, favorito o agevolato la perpetrazione del “reato presupposto” da parte dell’“apicale” o del “sottoposto”.
Ciò consente anche di respingere al mittente i sospetti di incostituzionalità nei confronti di questa speciale forma di responsabilità introdotta nel nostro ordinamento nel 2001, avanzati da parte di coloro che, ritenendo tale responsabilità di natura sostanzialmente penale, avevano lamentato la possibile violazione del principio di cui all’art. 27, comma 1, della Costituzione, che contiene il divieto di subire sanzioni penali per fatto altrui. Infatti, fermo rimanendo che la responsabilità a carico degli enti ex Dlgs 231/01 non è propriamente (o, perlomeno, non integralmente) di natura penale, essa certamente non comporta un rimprovero per fatto altrui, con conseguente inoperatività del precetto costituzionale sopra indicato.
Sono evidenti (e di grande rilievo) le ricadute di tutto ciò nella prassi applicativa.
Il fondamento della responsabilità dell’ente (cd. “colpa di organizzazione”) deve sempre essere oggetto di verifica nel corso del procedimento; l’accertamento della perpetrazione di un reato presupposto da parte della persona fisica è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’ente, perché o ccorre sempre capire se, in concreto, l’ente sia “rimproverabile”, ossia se sussistano le situazioni di carenza gestionale/organizzativa ipotizzate e se le stesse siano causalmente ricollegabili alla realizzazione del reato. L’onere della prova sul punto si atteggia, come è noto, in maniera diversa a seconda che il reato sia stato compiuto dall’“apicale” (art. 6) o dal “sottoposto” (art. 7); quel che è certo è che non sono ammissibili scorciatoie logiche volte a forzare natura e fondamento della responsabilità dell’ente.
Questo significa, ad esempio, che quest’ultima non potrà mai essere fatta coincidere, sic et simpliciter, con quella della persona fisica autore del reato ma richiederà sempre un quid pluris; la dimostrazione della sussistenza della “colpa di organizzazione”. Ne consegue l’impossibilità di utilizzare lo strumento di cui all’art. 40 capoverso del codice penale, giacché l’ente, oltre a non rispondere - ai sensi e per gli effetti del Decreto 231/01 - per il fatto altrui (come fa, viceversa, il “padrone o committente” di cui all’art. 2049 del codice civile), non assume alcuna “posizione di garanzia” nei confronti del suo “apicale” o del suo “sottoposto”, non essendo tenuto ad impedire l’evento rappresentato dal reato compiuto dalla persona fisica.
Per queste stesse ragioni, ovviamente, non può essere lasciato alcuno spazio a forme di responsabilità oggettiva come quelle ancora oggi talvolta invocate da qualche Pubblico Ministero, basate sul semplicistico (e, per quello che maggiormente rileva, giuridicamente scorretto) ragionamento secondo il quale se un reato è stato compiuto, allora “per forza” ne sarà responsabile anche l’ente, nel senso che la stessa verificazione del reato fornirebbe plastica ed innegabile dimostrazione della colpa di organizzazione dell’ente stesso (e, in caso di esistenza di un Modello organizzativo, della sua ontologica inefficacia).
Questo ragionamento, per quanto evidentemente erroneo ed esplicitamente censurato dalla Suprema Corte (si veda, ad esempio, Cass., VI Sezione Penale, n. 27735 del 18.2.2010), sembra duro a morire, il che appare sconcertante perché contrasta in maniera manifesta sia con la ratio della responsabilità dell’ente, sia con la lettera della legge.
Infatti il Decreto 231/01 prevede, come è a tutti noto, che l’ente possa andare esente da responsabilità qualora, prima della commissione del reato, abbia adottato ed efficacemente attuato un idoneo Modello organizzativo; è evidente che se la commissione di un “reato presupposto” dovesse inevitabilmente implicare la responsabilità dell’ente (e, ove esistente, una declaratoria di automatica insufficienza/inefficacia del Modello) non avrebbe avuto alcun senso prevedere che un ente possa evitare le sanzioni pecuniarie/interdittive previste dal Decreto (pur in presenza di un reato presupposto) qualora si sia dotato di un Modello che era potenzialmente in grado di evitare la verificazione del reato medesimo. Ciò che alcuni giudici devono comprendere ed accettare è che un reato presupposto può essere realizzato da un apicale o da un sottoposto pur in presenza di un Modello organizzativo perfettamente idoneo ed efficiente e pur in presenza di un Organismo di Vigilanza che adempia in modo corretto ai suoi doveri di controllo e di verifica. Questo perché il reo può avere agito aggirando e manipolando i precetti del Modello o i suddetti controlli/verifiche; ciò non toglie che, in casi come questi, l’ente andrà esente da responsabilità anche se un reato presupposto sia stato commesso nel suo interesse e/o a suo vantaggio.
* Avvocato in Milano