Società

La liquidabilità in via giudiziale della società in house in crisi

Con l'ordinanza n. 7646 del 16 marzo 2023 i Giudici di legittimità si sono pronunciati sull'assoggettabilità a fallimento (oggi, liquidazione giudiziale) delle società in house in crisi, ribadendo principi già affermati con riferimento alla questione della natura delle società a partecipazione pubblica.

di Rossana Mininno

La genesi dell'istituto dell'affidamento in house providing

L'affidamento in house providing costituisce, quanto al profilo ontologico, un modello organizzativo opposto a quello dell'esternalizzazione e concepito quale deroga pretoria alla regola dell'evidenza pubblica, utilizzabile nell'ipotesi in cui la Pubblica Amministrazione decida di provvedere in proprio all'espletamento dei servizi pubblici, affidandosi a un'entità giuridica che, sebbene soggettivamente distinta, sia strutturalmente collegata all'Amministrazione e dalla medesima interamente controllata.

L'individuazione dei requisiti legittimanti l'affidamento diretto del servizio pubblico in deroga alle regole generali del diritto euro-unitario imperniate sul modello della procedura competitiva a evidenza pubblica è avvenuta ad opera della Corte di giustizia dell'Unione europea nel noto caso Teckal, costituente il leading case in materia di in house providing (cfr. Corte giust. U.E., Sez. V, 18 novembre 1999, Teckal S.r.l. contro Comune di Viano e Azienda Gas-Acqua Consorziale (AGAC) di Reggio Emilia, causa C-107/98).

Per quanto attiene ai requisiti di conio pretorio, secondo la giurisprudenza euro-unitaria, alla Pubblica Amministrazione è consentito procedere ad affidamenti diretti di appalti o concessioni a società dotate di personalità giuridica senza ricorrere alla procedura competitiva a evidenza pubblica per la scelta del contraente nelle ipotesi in cui tra affidante e affidatario ricorra una relazione tale per cui l'Amministrazione affidante eserciti sulla società affidataria un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (elemento c.d. strutturale) e la società affidataria svolga la maggior parte della propria attività in favore dell'ente pubblico affidante (elemento c.d. funzionale).

La positivizzazione del modello dell'in house providing ad opera del Codice dei contratti pubblici

I requisiti di conio pretorio hanno trovato una definizione positiva in sede di recepimento delle direttive adottate dall'Unione europea in materia di contratti pubblici (cfr. direttiva n. 2014/23/UE - c.d. Direttiva concessioni, direttiva n. 2014/24/UE - c.d. Direttiva appalti e direttiva n. 2014/25/UE - c.d. Direttiva settori speciali).

Con il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, recante il "Codice dei contratti pubblici", il legislatore nazionale, in linea con le corrispondenti previsioni delle direttive euro-unitarie, ha eccettuato il modello dell'in house dall'applicazione delle regole del Codice, positivizzando le condizioni che lo rendono configurabile: «a) l'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; b) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata» (art. 5, co. 1).

Il requisito del controllo analogo, secondo il Codice dei contratti pubblici, è da ritenersi sussistente nell'ipotesi in cui l'Amministrazione aggiudicatrice (o l'ente aggiudicatore) «eserciti un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata» (art. 5, co. 2): il controllo «può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore» (art. 5, co. 2).

Per quanto attiene alla compagine sociale il legislatore nazionale - al fine dell'esclusione dell'applicabilità delle disposizioni del Codice - ha fissato una condizione specifica ovvero che «nella persona giuridica alla quale viene aggiudicato l'appalto pubblico non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata» (art. 5, co. 3).

La tipizzazione del modello societario ad opera del TUSP

Con l'emanazione del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante il "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" (c.d. TUSP), il legislatore ha provveduto - in attuazione della delega di cui alla legge 7 agosto 2015, n. 124 ("Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" - c.d. Riforma Madia) - al riordino strutturale della disciplina delle partecipazioni pubbliche in società in capitali, riordino finalizzato ad «assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza» e da attuare mediante un intervento combinato contemplante la «razionalizzazione e riduzione delle partecipazioni pubbliche secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità», nonché la «ridefinizione della disciplina, delle condizioni e dei limiti per la costituzione di società, l'assunzione e il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche» (art. 18, co. 1, legge n. 124/2015).

L'obiettivo precipuo della riforma è consistito nella razionalizzazione delle partecipazioni al fine di contenere la spesa pubblica e di evitare - in un'ottica prettamente giuscontabile - che l'esternalizzazione diventi un mezzo per eludere i vincoli di finanza pubblica.

Alle società in house il legislatore del TUSP ha dedicato l'articolo 16, mediante il quale, positivizzando principi già enunciati a livello giurisprudenziale, ha approntato una "disciplina […] speciale e derogatoria" (Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6460), senza, tuttavia, disporre alcunché circa la (eventuale) assoggettabilità delle società in house alle procedure concorsuali.

La fallibilità delle società in house in crisi nel formante giurisprudenziale

La questione dell'assoggettabilità delle società a partecipazione pubblica, in generale, e delle società in house, in particolare, alla disciplina della crisi d'impresa e delle procedure concorsuali è strettamente interrelata alla questione della natura giuridica di dette società.

A livello di elaborazione giurisprudenziale entrambe le questioni sono state ampiamente dibattute; la prima, peraltro, risente dell'esclusione ex lege degli enti pubblici dall'ambito soggettivo di applicazione del diritto concorsuale.

La normativa di riferimento ante TUSP è costituita dall'articolo 2221 c.c., ai sensi del quale «[g]li imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti, in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali» e dall'articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ai sensi del quale «[s]ono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici».

Per quanto attiene alla questione della natura giuridica delle società a partecipazione pubblica nel regime vigente ante TUSP i Giudici di legittimità ritenevano che il ricorso, da parte del soggetto pubblico, allo strumento societario di diritto comune non fosse idoneo a incidere, snaturandola, sulla qualificabilità della società partecipata come soggetto privato ove il socio pubblico non disponesse, statutariamente, di poteri di ingerenza e di influenza ulteriori rispetto a quelli ordinariamente previsti dal diritto societario e, nel contempo, l'oggetto sociale non ricomprendesse attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. Un., 15 aprile 2005, n. 7799, 30 dicembre 2011, n. 30167, 20 febbraio 2013, n. 4217 e 19 aprile 2013, n. 9534; Cass. civ., Sez. I, 6 dicembre 2012, n. 21991).

In altri termini, secondo la giurisprudenza di legittimità, la pubblicità dell'interesse riferibile al socio pubblico non assumeva valenza a fini qualificatori, trattandosi di interesse di rilievo esclusivamente extrasociale (Cass. n. 7799/2005 cit.).

Secondo l'elaborazione giurisprudenziale post TUSP il rapporto tra la società e il socio pubblico è di «sostanziale autonomia» (Cass. civ., Sez. V, 29 luglio 2017, n. 21658), rimanendo i due soggetti distinti sul piano giuridico-formale: «la società di capitali con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché gli enti pubblici (comune, provincia e simili) ne posseggono, in tutto o in parte, le partecipazioni, in quanto non assume rilievo alcuno, per le vicende della società medesima, la persona dell'azionista, dato che la società, quale persona giuridica privata, opera comunque nell'esercizio della propria autonomia negoziale e non è consentito all'ente pubblico, mediante l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, di incidere sullo svolgimento del rapporto partecipativo e sull'attività della società, che restano assoggettati alla disciplina privatistica, così da non escludere la alterità soggettiva dell'ente societario nei confronti della pubblica amministrazione, il quale è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall'ente partecipante» (Cass. civ., Sez. Un., 14 marzo 2022, n. 8186. Conformi ex multis Cass. civ., Sez. V, 27 maggio 2022, n. 17195; Cass. civ., Sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196; Cass. civ., Sez. I, 22 febbraio 2019, n. 5346).

Per quanto attiene alla questione dell'assoggettabilità delle società a partecipazione pubblica alle procedure concorsuali secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi nella vigenza del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 la società a partecipazione pubblica, costituita in una delle forme previste dal codice civile e avente come oggetto sociale lo svolgimento di un'attività commerciale, è assoggettabile a fallimento, benché non eserciti effettivamente detta attività, essendo l'acquisto della qualifica di imprenditore commerciale - e la conseguente assunzione dei rischi connessi all'insolvenza - effetto della costituzione e non del concreto esercizio dell'attività sociale: «Le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un'attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, al contrario di quanto avviene per l'imprenditore commerciale individuale. Sicché, mentre quest'ultimo è identificato dall'esercizio effettivo dell'attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l'assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l'impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale» (Cass. n. 21991/2012 cit., massima rv. 624544-01).

Con riferimento alle società in house e alla specifica questione dell'assoggettabilità al fallimento i Giudici di legittimità sono pervenuti a conclusioni diametralmente opposte, attesa la ritenuta inconfigurabilità di un'alterità soggettiva - in termini di autonoma soggettività - tra società e Pubblica Amministrazione, ponendosi la prima quale longa manus della seconda e potendo il legame partecipativo essere assimilato a una relazione interorganica (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. Un., 25 novembre 2013, n. 26283 e 10 marzo 2014, n. 5491).

Con il TUSP il legislatore ha espressamente assoggettato le società a partecipazione pubblica alle disposizioni sulle procedure concorsuali (cfr. art. 14, rubricato "Crisi d'impresa di società a partecipazione pubblica"), senza, tuttavia, formulare expressis verbis alcuna previsione o esclusione per le società in house.

Con riferimento a queste ultime la questione dell'assoggettabilità alle procedure concorsuali assume una particolare valenza in virtù del connotato che le caratterizza - in senso distintivo - rispetto alle altre società a partecipazione pubblica: la peculiarità del legame partecipativo esistente tra il socio pubblico e la società partecipata, ritenuto assimilabile a una relazione interorganica con l'apparato organizzativo dell'Amministrazione partecipante, potrebbe indurre ad attribuire sic et simpliciter rilevanza dirimente agli elementi di matrice pubblicistica.

La giurisprudenza di legittimità maggioritaria - di recente confermata dalla Prima Sezione della Corte di cassazione con l'ordinanza n. 7646 del 16 marzo 2023 - ha concluso nel senso della fallibilità delle società in house, avendo in primis escluso che il profilo pubblicistico - apparendo «ispirato - in realtà - dal mero obiettivo di eccettuare l'affidamento diretto (della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate)» (Cass. n. 3196/2017 cit.) dall'applicazione delle norme concorrenziali - possa indurre a «dirsi nato, ad ogni effetto e verso i terzi, un soggetto sovraqualificato rispetto al tipo societario eventualmente assunto» (Cass. n. 3196/2017 cit.).

L'affermazione dell'esistenza di un'alterità soggettiva tra società partecipata ed ente partecipante «non è incisa dall'eventualità del controllo analogo» (Cass. n. 5346/2019 cit.), il quale «serve a consentire all'azionista pubblico di svolgere un'influenza dominante sulla società, se del caso attraverso strumenti derogatori rispetto agli ordinari meccanismi di funzionamento, così da rendere il legame partecipativo assimilabile a una relazione interorganica» (Cass. n. 5346/2019 cit.).

In altri termini, il controllo analogo - connotato caratterizzante la società in house - non comporta uno snaturamento dello strumento societario adoperato.

I due soggetti - id est, «quello pubblico e quello privato societario» (Cass. n. 5346/2019 cit.) - rimangono distinti sul piano giuridico-formale: «la società in house rappresenta pur sempre un centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall'ente partecipante» (Cass. n. 5346/2019 cit.), non essendo per essa prevista, nell'ordinamento nazionale, «alcuna apprezzabile deviazione rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali» (Cass. n. 5346/2019 cit.).

La scelta del paradigma privatistico comporta, in mancanza di specifiche disposizioni di segno contrario o di ragioni ostative di sistema, l'applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato.

Ciò rileva al fine dell'affermazione dell'assoggettabilità al fallimento delle società in house: all'opzione per lo strumento societario privatistico consegue, inevitabilmente, l'assunzione dei rischi connessi all'eventuale insolvenza della società.

L'assoggettabilità delle società in house in crisi alla liquidazione giudiziale

È ragionevole ritenere che le conclusioni cui è pervenuta la Magistratura di legittimità circa la fallibilità delle società in house siano estensibili - attesa l'eadem ratio - anche alla disciplina introdotta dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (cfr. decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in vigore dal 15 luglio 2022), nel senso di considerare l'opzione per lo strumento societario privatistico rilevante al fine dell'assunzione dei rischi connessi all'eventuale insolvenza della società e, conseguentemente, le società in house assoggettabili alla liquidazione giudiziale.

Con il detto codice il legislatore, riformando in maniera organica il sistema delle procedure concorsuali, ha approntato una disciplina finalizzata alla salvaguardia della continuità aziendale, nonché al risanamento dell'impresa, finalità per il perseguimento delle quali si appalesa indispensabile la diagnosi precoce dello stato di difficoltà dell'impresa e la creazione delle condizioni affinché l'imprenditore possa avviare, in via preventiva, le procedure di ristrutturazione con l'obiettivo di evitare che la crisi diventi irreversibile.

La ratio che ha ispirato l'intervento riformatore del 2019 è consistita non soltanto nella tutela della par condicio creditorum, ma anche nella conservazione dell'impresa in attività, intesa quale valore meritevole di essere tutelato, comunque in coordinamento con i diritti dei creditori.

Al detto fine la tradizionale procedura fallimentare è stata sostituita con la liquidazione giudiziale, la quale - nel complessivo disegno riformatore - ha assunto il ruolo di extrema ratio rispetto a tutti gli altri strumenti di soluzione della crisi d'impresa, i quali sono trattati in via prioritaria rispetto alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale (ovvero la procedura concorsuale maggiore).

Il legislatore della riforma è intervenuto anche a livello lessicale, avendo stabilito che «[n]elle disposizioni normative vigenti i termini «fallimento», «procedura fallimentare», «fallito» nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale» e «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» e loro derivati, con salvezza della «continuità delle fattispecie» (art. 349, rubricato "Sostituzione dei termini fallimento e fallito").

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