Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 16 e il 20 maggio 2022

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d’Appello sono state chiamate a pronunciarsi in tema di usucapione, di servitù, di responsabilità professionale dell’avvocato, di presenza di amianto negli edifici (e conseguenti obblighi per i proprietari) e, infine, di anatocismo. Da patre loro i Tribunali affrontano la materia della responsabilità per i danni causati da cose in custodia, della rilevanza del pagamento parziale al fine della interruzione della prescrizione ed ancora del danno cagionato da animali e da circolazione stradale .

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USUCAPIONE
Elementi costituitivi - Condotta del proprietario
. (Cc, articoli 1140 e 1158)
Richiama in sentenza la Corte d’Appello di Bari il generale principio di diritto secondo cui il fondamento dell'usucapione è da rinvenirsi nella particolare situazione di fatto esercitata, senza interruzioni, sulla cosa da parte di colui che, attraverso tale prolungata signoria, si sostituisce, in concreto, al titolare effettivo del diritto. Il possesso finalizzato all'usucapione deve caratterizzarsi, sotto il profilo oggettivo, dalla pienezza e dall'esclusività del potere di fatto, reso manifesto e non viziato da violenza o clandestinità. A tale manifestazione dell'usucapiente deve corrispondere il mancato esercizio del diritto da parte del titolare stesso. Elementi costitutivi dell'acquisto della proprietà ex art. 1158 c.c. sono dunque il possesso pacifico (determinato dal comportamento acquiescente e dismissivo del proprietario), pubblico (ossia acquistato in modo non clandestino ovvero a clandestinità terminata), continuo e non interrotto (con l'intenzione di esercitarlo per tutto il tempo all'uopo previsto dalla legge). La continuità del possesso, in particolare, postula la corrispondenza del potere di fatto esercitato al diritto reale posseduto e la sua conseguente manifestazione attraverso atti di possesso, conformi alla qualità ed alla destinazione della cosa, idonei a palesare un'indiscussa e piena signoria di fatto sulla stessa. Con l’espressione animus possidendi si indica non già la convinzione di essere proprietario o titolare di altro diritto reale sulla cosa, bensì l'intenzione di comportarsi come tale, esercitando facoltà corrispondenti a quel diritto e facendo in modo di apparire ai terzi come l'effettivo titolare. L'esistenza di quest'elemento psicologico si presume iuris tantum dalla presenza del corpus possessionis e prescinde dallo stato soggettivo di buona fede. Deriva, pertanto, che l'esercizio, da parte del proprietario, di taluna delle facoltà inerenti al suo diritto, oltre a rendere di per sé equivoca e non pacifica l'altrui situazione possessoria, fa sì che questa non aderisca al contenuto del diritto di proprietà (ai sensi dell'art. 1140 c.c.) che deve presentare i caratteri della pienezza e dell'esclusività e non possa, quindi, dare luogo all'acquisto del diritto stesso per usucapione. Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve provare tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del corpus, ma anche dell’animus; precisamente la domanda di usucapione è soggetta alla dimostrazione, quanto mai rigorosa, in ordine all'inizio, alla durata ed alle modalità del possesso ad usucapionem.
Corte di Appello di  Bari, sezione I, 17 maggio 2022 n. 784

SERVITÙ
Servitù apparente - Modi di acquisto.
(Cc, articolo 1027 e 1030)       
La Corte d’Appello di Cagliari è chiamata a pronunciarsi in tema di servitù ovvero in ordine a quel “peso” imposto al fondo servente che si traduce in un “vantaggio” per il fondo dominante, secondo quanto prevede l’articolo 1027 del Cc, norma caratterizzante del “tipo” servitù. La circostanza che il contenuto della servitù (rectius, il contegno dovuto dal proprietario del fondo servente) non possa consistere in un facere, come prevede l’articolo 1030 del Cc, rappresenta una conseguenza già implicita nella realità delle servitù. Il vantaggio, invero, deve provenire al titolare del fondo dominante, non da un comportamento attivo della persona, ma dalla cosa stessa, e cioè a dire dal fondo su cui grava il peso della servitù. Ed è questo, di segno negativo (servitus in faciendo consistere nequit), l’unico limite riguardante il contenuto delle servitù. Nei limiti dunque dell’utilitas rei, le parti sono libere di attribuire qualsiasi contenuto alle servitù volontarie. In sentenza l’adita Corte di Cagliari afferma in particolare il principio di diritto secondo cui per poter vantare un acquisto della servitù per usucapione, ovvero per destinazione del padre di famiglia, occorre pur sempre che si tratti di una servitù apparente.  Il requisito dell'apparenza della servitù, necessario ai tali fini, si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio rivelanti, in modo non equivoco, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile.  A tal fine non è quindi sufficiente la mera presenza materiale di una strada, o anche di una apertura su una recinzione o un cancello, trattandosi di opere che possono essere utilizzate anche solo per il passaggio del loro proprietario, ma occorre che le stesse mostrino di essere state realizzate al preciso fine di essere destinate all’esercizio della servitù, cioè al vantaggio di un dato fondo dominante, e pertanto un “quid pluris” che dimostri con chiarezza, attraverso la presenza di un segno di raccordo, quanto meno funzionale, con il fondo dominante, che il tracciato o l’apertura sono anche in funzione dell’utilità di questo.
Corte di Appello di Cagliari, 17 maggio 2022 n. 241

AVVOCATO
Responsabilità professionale - Onere probatorio. (Cc, articoli 1176 e  2236)

La Corte d’Appello di Cagliari osserva come l'avvocato sia tenuto all'esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto degli artt. 1176, II, e 2236 c.c., e della buona fede oggettiva o correttezza la quale, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale, imponendo il compimento di quanto necessario, o utile, a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio. In tal senso, in particolare, si afferma che il professionista deve fornire le necessarie informazioni al cliente, anche per consentirgli di valutare i rischi insiti nell'iniziativa giudiziale. Consegue da tali principi che, a fronte della pronuncia di inammissibilità di un ricorso amministrativo per non essere stato rispettato dall’avvocato incaricato il termine di impugnazione stabilito a pena di decadenza, compete a questi – quando il cliente abbia assolto l’onere, su di sé gravante, di provare di avere conferito l’incarico professionale, nonché l’esito sfavorevole determinato dalla violazione della norma processuale che consente l’avvio del processo - dimostrare di essere stato esente da colpa nell’espletamento dell’attività preparatoria e di instaurazione della causa davanti al giudice amministrativo. Le obbligazioni, siano esse "di risultato" o "di mezzi", sono sempre finalizzate a riversare nella sfera giuridica del creditore una "utilitas" oggettivamente apprezzabile, fermo restando che, nel primo caso, il risultato stesso è in rapporto di causalità necessaria con l'attività del debitore, non dipendendo da alcun fattore ad essa estraneo, mentre nell'obbligazione "di mezzi" il risultato dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da fattori ulteriori e concomitanti. Ne consegue che il debitore "di mezzi" prova l'esatto adempimento dimostrando di aver osservato le regole dell'arte e di essersi conformato ai protocolli dell'attività, mentre non ha l'onere di provare che il risultato è mancato per cause a lui non imputabili.
• Corte di Appello di Cagliari, 17 maggio 2022, n. 244

AMBIENTE E TERRITORIO
Amianto - Pericolosità - Rimozione.
(Dm 6 settembre 1994; legge 27 marzo 1992 n. 257, articoli 1 e 12)
La Corte d’Appello di Milano affronta la delicata questione della presenza di amianto negli edifici ed osserva in sentenza come la normativa di settore (ovvero la legge n. 257 del 1992, articoli 1 e 12 e il Dm 6 settembre 1994) non abbia imposto la rimozione generalizzata di tale materiale nelle costruzioni già esistenti al momento della sua entrata in vigore. Il divieto posto dalla legge ha ad oggetto le attività di estrazione, importazione, esportazione,  commercializzazione e  produzione  di  amianto,  di  prodotti  di amianto o di prodotti  contenenti  amianto. Il Legislatore, cioè, con la Legge del 1992 ha vietato per il futuro la commercializzazione e l'utilizzazione di materiali costruttivi in fibrocemento, prevendendo rispetto alle costruzioni già esistenti alla data della sua entrata in vigore, solo l'obbligo dei proprietari degli immobili di comunicare agli organi sanitari locali la presenza di amianto fioccato o friabile negli edifici (art. 12 – “Rimozione dell'amianto e tutela dell'ambiente”) e consentendo la conservazione delle strutture preesistenti che impiegano tale materiale a condizione che esse si trovino in buono stato manutentivo. Occorre dunque, al fine della rimozione, accertare in concreto la “pericolosità” dell’amianto - e comunque l’eventuale assenza di attualità del pericolo ove venga prescritto solo il monitoraggio - ferma restando, in ogni caso, la valutazione dell’incidenza del probabile deterioramento del materiale nel corso del tempo. Le operazioni di rimozione,  ove poste in essere, devono essere condotte salvaguardando l'integrità del materiale in tutte le fasi dell'intervento. La rimozione comporta poi la produzione di notevoli quantità di rifiuti contenenti amianto che devono essere correttamente smaltiti e comporta altresì la necessità di installare nuovi materiali (solitamente coperture) in sostituzione del materiale rimosso.
Corte di Appello di Milano, sezione IV, 17 maggio 2022, n. 1647

CREDITO E RISPARMIO
Anatocismo - Operatività - Limiti.
(Cc, articolo 1283)
La Corte d’Appello di Ancona nella sentenza (non definitiva) in esame tratta la disciplina dell’anatocismo (produzione di interessi sugli interessi scaduti) nel nostro ordinamento avuto particolare riguardo alla norma dell’articolo 1283 del Cc e all’interpretazione che della stessa, nel corso del tempo, ha fatto la giurisprudenza. Si sottolinea così come si sia superato il tradizionale orientamento secondo cui, in relazione alle condizioni contrattuali praticate dagli istituti bancari alla loro clientela, le norme bancarie uniformi integravano il rango di uso contrario evocato dall’art. 1283 c.c., sicché i medesimi istituti bancari – secondo detto orientamento  - sono sempre stati considerati legittimati a praticare la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, anche in deroga all’art. 1283 c.c. attesa la periodicità inferiore ai sei mesi previsti quale termine minimo. Il nuovo ed attuale orientamento interpretativo ha sancito che la normativa interna bancaria, disciplinante le condizioni contrattuali aventi ad oggetto anche gli interessi anatocistici trimestrali, sia da considerarsi esclusivamente alla stregua di uso meramente negoziale, in quanto carente dei requisiti propri degli usi normativi. Il che ha comportato l’inevitabile declaratoria di nullità delle clausole aventi ad oggetto gli interessi anatocistici trimestrali siccome contrarie al precetto di cui all’art. 1283 c.c. L’art. 1283 c.c., norma imperativa, ammette dunque l’anatocismo, cioè – come detto - la produzione di interessi sugli interessi scaduti, solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi, a meno che non si verta in materia nella quale vigano “usi contrari”: solo gli usi normativi -e non quelli meramente negoziali (ex art. 1340 c.c.) o interpretativi (ex art. 1368 c.c.) - possono derogare alla predetta rigida previsione normativa. È così necessaria l’esistenza di una vera e propria consuetudine, fonte secondaria di diritto, caratterizzata sia dalla uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento (diuturnitas) che dalla consapevolezza di prestare osservanza ad una norma giuridica (opinio iuris ac necessitatis).
Corte di Appello di Ancona, sezione I, 18 maggio 2022, n. 618

CONDOMINIO
Parti comuni  -  Cortile - Natura giuridica.
(Cc, articoli 1117 e 1117-bis)
La Corte d’Appello di Catanzaro, adita in materia condominiale, sottolinea come debba optarsi per una nozione omnicomprensiva di cortile ricomprendendovi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – che, sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c., devono comunque essere ritenuti comuni a norma della suddetta disposizione codicistica. In questa nozione risultano comprese anche le aree scoperte con funzione di accesso agli edifici, nonché quelle con ulteriori ed eventuali funzioni, quali quella di parcheggio o deposito temporaneo di materiali, ma anche il cavedio, altrimenti detto chiostrina, vanella, pozzo luce. In riferimento quindi ad una superficie esistente tra più edifici facenti parte di un più ampio complesso immobiliare che sia obiettivamente e strutturalmente destinata a dare aria, luce e accesso a tutti i fabbricati che la circondano opera la presunzione legale di proprietà comune prevista ex artt. 1117 e 1117-bis c.c.. In tale contesto interpretativo si pone il principio di diritto per cui né il regolamento di condominio in senso proprio, né una deliberazione organizzativa approvata dall’assemblea possono validamente disporre l’assegnazione nominativa, in via esclusiva e per un tempo indefinito, a favore di singoli condomini di posti fissi nel cortile comune per il parcheggio della loro autovettura, in quanto tale assegnazione parziale, da un lato, sottrae ad alcuni condomini l’utilizzazione del bene a tutti comune, ex art. 1117 c.c., e, dall’altro, crea i presupposti per l’acquisto da parte del condomino – che usi la cosa comune animo domini – della relativa proprietà̀ a titolo di usucapione, attraverso l’esercizio del possesso esclusivo dell’area.
Corte di Appello di Catanzaro, sezione I, 19 maggio 2022, n. 560

RESPONSABILITA’ E RISARCIMENTO
Danni cagionati da cose in custodia - Responsabilità civile - Natura giuridica.
(Cc, articoli 2043 e 2051)Osserva il Tribunale di Milano come la responsabilità in tema di danni cagionati da cose in custodia sia di natura oggettiva e si fondi non già su un comportamento (o un'attività) del custode, bensì su una relazione intercorrente tra questi e la cosa dannosa; conseguentemente il fondamento della stessa è costituito dal rischio che grava sul custode per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano da caso fortuito ed il profilo del comportamento del custode è del tutto estraneo alla struttura della fattispecie de qua (art. 2051 c.c.). Il predetto inquadramento normativo riflette peculiari conseguenze in punto di onere probatorio gravante sulle parti: invero, allorquando il danno è causato da cose dotate di un intrinseco dinamismo, l'attore ha il solo onere di provare il nesso di causa tra la cosa ed il danno, mentre non è necessaria la dimostrazione della pericolosità della cosa; quando, invece, il danno è causato da cose inerti e statiche (marciapiedi, scale, strade, pavimenti e simili), il danneggiato può provare il nesso di causa tra cosa e danno anche dimostrandone la pericolosità; diversamente, spetta al convenuto la prova liberatoria dell'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale, e, cioè, un fattore esterno (che può consistere anche nel fatto di un terzo o dello stesso danneggiato) che presenti i caratteri del fortuito e, quindi, dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità. Il fortuito, in particolare,  deve essere connotato da impulso causale autonomo, imprevedibilità nonché assoluta eccezionalità, in quanto fatto estraneo alla sfera di custodia del soggetto. L’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia (art. 2051 c.c.) è intrinsecamente diversa da quella fondata sul regime del neminem laedere (art. 2043 c.c.), sicchè è necessario stabilire, dal tenore della domanda giudiziaria, se l’attore abbia prospettato in via subordinata gli elementi di fatto che possano fondare l’accertamento della responsabilità ex art. 2043 c.c. in quanto l’applicabilità dell’una o dell’altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d’indagine, trattandosi di accertare, nell’ipotesi ex art. 2043 c.c., se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 c.c., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito.
Tribunale di Milano, sezione X, 17 maggio 2022, n. 4273

LAVORO E FORMAZIONE
Rapporto di lavoro - Retribuzione non dovute - Versamento di “anticipo” e “rata Tfr” - Effetti riconoscimento credito lavoratore - Prescrizione - Pagamento parziale - Interruzione - Idoneità.

Il Tribunale di Venezia – Giudice del Lavoro – interviene in una vicenda nel corso della quale, a fronte delle retribuzioni ancora dovute al lavoratore, la società (ex datore di lavoro) aveva versato spontaneamente varie somme a titolo di “anticipo” e “rata TFR”, ed attribuisce a tale condotta gli effetti del riconoscimento del credito (del lavoratore) e dell’interruzione del decorso del termine quinquennale di prescrizione. Precisamente - secondo il Tribunale - il pagamento parziale di un debito può costituire atto interruttivo della prescrizione, dovendo attribuirsi tale effetto a qualsiasi atto che presupponga l’esistenza del debito e che sia incompatibile con la volontà di disconoscere la pretesa del creditore. Il pagamento parziale, ove accompagnato dalla precisazione della sua effettuazione in acconto, può valere come riconoscimento del diritto, e, in particolare, il riconoscimento idoneo ad interrompere la prescrizione non deve necessariamente concretarsi in uno strumento negoziale, cioè in una dichiarazione di volontà consapevolmente diretta all’intento pratico di riconoscere il credito, e può quindi anche essere tacito e rinvenibile in un comportamento obiettivamente incompatibile con la volontà di disconoscere la pretesa del creditore. E quindi, sempre secondo il Tribunale di Venezia, a fronte di un credito certo del lavoratore per retribuzioni arretrate e TFR, i pagamenti parziali effettuati dalla ditta (ex) datore di lavoro, a titolo di acconto TFR o anche senza una specifica causale, costituiscono un suo proprio riconoscimento di debito, avendo la medesima ditta manifestato per facta concludentia la volontà di adempiere all’obbligazione retributiva nascente dal rapporto di lavoro.
Tribunale di Venezia, sezione lavoro, 18 maggio 2022, n. 334

RESPONSABILITA’ E RISARCIMENTO
Danno cagionato da animali - Condotta rilevante - Limiti.  
(Cc, articolo 2052; Cp, articoli 40 e 41)
Il Tribunale di Brescia, adito in materia di responsabilità ai sensi dell’art. 2052 c.c., sottolinea in sentenza come la responsabilità da animale risieda esclusivamente sul rapporto tra il soggetto e l’animale, e prescinde da qualsivoglia condotta commissiva o omissiva del proprietario. L’unico limite a tale ipotesi di responsabilità è il caso fortuito inteso, quest’ultimo, quale fattore avente i caratteri dell’imprevedibilità, inevitabilità de eccezionalità, potendo il caso fortuito essere integrato dal fatto colposo del danneggiato. È a tal fine necessaria la prova, gravante sul danneggiato, del rapporto causale tra la condotta dell’animale e l’evento lesivo. Quanto al detto rapporto, l’ipotesi di responsabilità ex art. 2052 c.c. non rinvia a quelle sole fattispecie di aggressione diretta dell’animale verso il danneggiato e conseguenti lesioni, essendo sufficiente che l’azione dell’animale si inserisca nel meccanismo causale (o concausale secondo i noti principi ex artt. 40 e 41 c.p.) all’origine dell’evento, salvo il fattore di rottura di questo dinamismo costituito dal caso fortuito. Invero, la limitazione dell’ambito di applicazione dell’art. 2052 c.c. alle sole ipotesi di aggressione diretta dell’animale è ritenuta dal Tribunale di Brescia estranea alla disposizione de qua e, più in genere, alla verifica del nesso eziologico nelle fattispecie di analoga responsabilità civile.  Con la precisazione che la responsabilità per i danni cagionati dall'animale grava ordinariamente sul proprietario perché questi ne “fa uso”: affinchè la medesima responsabilità gravi su un soggetto diverso occorre che il proprietario, giuridicamente o di fatto, si sia spogliato delle sue facoltà, mentre se il proprietario continua ad avere ingerenza nel governo dell'animale, egli continua a “fare uso” dello stesso e dunque rimane responsabile.
Tribunale di Brescia, sezione I, 19 maggio 2022, n. 1332

CIRCOLAZIONE STRADALE
Sinistri stradali - Dinamica del sinistro - Prova - Danni.
(Cc, articolo 2054)
Adito in materia di incidenti derivanti dalla circolazione stradale, il Tribunale di Catania precisa come, in base all'art. 2054, II, c.c., l'accertamento della colpa, anche se grave, di uno dei due conducenti, non esonera l'altro dall’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, osservando le norme della circolazione stradale ed i normali precetti della prudenza, al fine di escludere la configurazione di un concorso di colpa a suo carico.  Invero, ai sensi della richiamata disposizione codicistica, in caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso in egual misura a cagionare il danno subito dai veicoli coinvolti.  Ciascuno dei conducenti deve dunque provare non solo che la responsabilità sia tutta dell’altro soggetto coinvolto (o che lo sia in misura superiore alla metà), ma anche che egli stesso abbia fatto tutto il possibile per evitare il danno. La norma ha carattere sussidiario, operando solo quando non sia possibile accertare in concreto le cause ed il grado delle colpe incidenti nella produzione dell'evento dannoso. Consegue che entrambe le parti processuali che agiscono e resistono nel giudizio avente a oggetto il risarcimento dei danni derivati da uno scontro di veicoli, per superare la presunzione legale di pari concorso nella causazione del sinistro sono onerate non soltanto della prova della condotta dell'altro conducente violativa della regola che impone il principio del neminem laedere e delle norme che disciplinano la circolazione stradale, ma, altresì, della prova (positiva) della propria condotta, che deve risultare conforme alle prescrizioni del codice della strada e immune da colpa generica, dovendo essere improntata la condotta di guida sempre alla massima attenzione, ed essendo pertanto tenuto il conducente del veicolo a fare tutto quanto possibile per evitare il danno e a porre in atto le manovre di emergenza che, avuto riguardo alle concrete circostanze di fatto, erano esigibili.In merito, poi, al quantum del danno patito si rileva in sentenza, da un lato, che il preventivo è un’allegazione di parte e, trattandosi di un documento non formatosi nel contraddittorio processuale, non ha alcun valore di prova e, dall’altro lato, che il danno da fermo tecnico non può essere considerato in re ipsa, quale conseguenza automatica dell’incidente, e sussistente per il solo fatto che il veicolo non abbia circolato perché in riparazione, occorrendo, al contrario, la prova specifica della durata del fermo e del danno, posto che, al pari di qualsiasi altro danno, esso va allegato e provato.
Tribunale di Catania, sezione IV, 19 maggio 2022, n. 2280

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