Penale

I nodi da sciogliere del 41 bis

di Andrea Pugiotto

Le esterrefatte reazioni seguite alla decisione della Cassazione penale sullo stato detentivo di Totò Riina hanno travalicato il suo perimetro giuridico, descrivendola come un placet alla scarcerazione del boss. Non è così. La Corte si è limitata a svolgere il suo mestiere di giudice del diritto, non del fatto. Ha annullato, per vizi di motivazione, il diniego al differimento della pena per ragioni di salute deciso dal competente Tribunale di sorveglianza. Quest'ultimo dovrà rivalutare il caso, nel rispetto dei principi della Costituzione e della CEDU, distillati – in modo ineccepibile – dai giudici di Cassazione.

Necessiterà seguire gli sviluppi della vicenda, il cui esito non è scontato: nel 2013 e nel 2014 analoghi ricorsi di Riina alla Corte di Strasburgo furono respinti, sia pure in relazione alle sue condizioni detentive e di salute di allora. Qui e ora, invece, sono proprio gli automatismi scattati nell'opinione pubblica a meritare un supplemento di riflessione, per ciò che rivelano. Ben oltre il caso in questione.

Innanzitutto, si è alzata l'invocazione a un uso simbolico del diritto penale nei confronti dei rei di grande spessore criminale.

Il simbolico e il diritto abitano mondi diversi: emotivo e irrazionale perché agìto da pulsioni profonde il primo; ragionevole perché frutto di scelte misurate e predeterminate il secondo. Non a caso - diversamente dai regimi autoritari - lo Stato di diritto è molto cauto nel plasmare norme in chiave simbolica, escludendole categoricamente in materia di reati e sanzioni. Un diritto penale liberale, infatti, persegue reati, non fenomeni criminali. Accerta responsabilità individuali, non collettive. Punisce persone, non gruppi. Sanziona secondo proporzione, non in modo esemplare.

Privato di questi connotati, si trasformerebbe in un diritto penale del nemico finalizzato al suo annientamento. Una logica bellica del tutto extra ordinem, perché il diritto serve a domare la violenza, non a scatenarla.

E' emersa, inoltre, l'idea che il divieto di pene contrarie al senso di umanità sia derogabile in base alla gravità delle colpe accertate.

Eppure solo pochi giorni fa, pronunciandosi sul regime di carcere duro per i reati associativi più gravi (il 41-bis dell'ordinamento penitenziario), la Corte costituzionale è stata chiara: lo stato di reclusione «non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali» del detenuto (sentenza n. 122/2017). Vale per il diritto alla salute che, se incompatibile con il regime carcerario, può giustificare il differimento della pena. Vale per il rispetto essenziale della dignità umana che, «come non si acquista per meriti, neppure si perde per demeriti» (il copyright è di Gaetano Silvestri, già Presidente della Consulta).

La condanna a un “fine pena mai” imposta da mostruose biografie personali rende irrealistica ogni prospettiva di reinserimento del reo. Ma non intacca quel divieto di trattamenti inumani e degradanti, che la CEDU considera generale e assoluto (art. 3), inderogabile anche in caso di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» (art. 15).

A molti, poi, è parsa incredibile e capziosa la richiesta della Cassazione di una verifica in concreto della pericolosità sociale di un boss mafioso.

Qui raccogliamo quanto seminato da tempo: ad esempio, con la trasformazione del 41-bis da misura temporanea a regime penitenziario immanente, perché immanente è considerata la criminalità organizzata. Un'emergenza quotidiana – vero e proprio ossimoro giuridico – che regge tutte le presunzioni legali di pericolosità dei suoi affiliati, e il conseguente divieto di accesso agli ordinari benefici penitenziari (art. 4-bis).

Così però è la funzione della magistratura di sorveglianza ad essere sfiduciata dal legislatore e dall'opinione pubblica plaudente: dei suoi accertamenti caso per caso si fa a meno, come pure di una verifica delle progressioni del detenuto nella sua vita carceraria, prodromo a possibili misure alternative al carcere.

Nel gioco della torre, il consenso popolare non ha dubbi: salva i pubblici ministeri, a scapito dei giudici chiamati ad assicurare una esecuzione penale costituzionalmente orientata.

Autorevolmente, si è anche prospettato un baratto: un regime carcerario meno duro e più umano, in cambio di una collaborazione con la giustizia.

E' la legge a prevederlo, per gli ergastolani senza scampo detenuti in 41-bis. Così disponendo, però, l'esecuzione della pena si svela strumento di pressione diretto all'ottenimento di informazioni, e l'apparato carcerario agisce come protesi aguzzina dell'azione investigativa. E' in ragione di tale scopo (mascherato) che il regime del carcere duro è stato progressivamente inasprito, spesso con restrizioni vessatorie estranee all'esigenza (dichiarata) di impedire collegamenti tra i capi dentro e chi delinque fuori.
Qui, davvero, la legge è sempre in bilico sul filo dell'incostituzionalità. Perchè «ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per ottenere da essa informazioni o confessioni», secondo l'art. 1 della pertinente convenzione ONU del 1984, ha un nome proprio: tortura.

Resta da dire del risentimento dei familiari di Abele contro Caino, cui andrebbe negata una morte dignitosa, avendola lui negata a tanti e troppe volte.

Il loro timbro sdegnato è spesso scivolato nei toni intimidatori. Più che comprensibilmente. Tuttavia - anche se è impopolare dirlo - la loro voce non va confusa con quella della legge. Soddisfare le aspettative della vittima non è lo scopo prioritario del diritto penale: non saremmo, altrimenti, molto lontani dal linciaggio. Lo Stato di diritto, infatti, nasce proprio per sottrarre il reo alla vendetta privata, affidandolo alla giustizia di un'autorità imparziale. Anche quando si tratta del peggior pendaglio da forca.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©