Facebook può cancellare i post no vax e sospendere gli account
Di fronte alle situazioni di rischio, legittimo limitare il diritto di espressione
I social network possono sospendere gli account degli utenti no vax e rimuovere i contenuti che veicolano disinformazione sanitaria. Lo ha stabilito il Tribunale di Varese con l’ordinanza 1181 depositata lo scorso 2 agosto (giudice Recalcati), che fa il punto sulla complessa questione del controllo delle piattaforme sui contenuti pubblicati dagli utenti.
Una pronuncia che sembra andare controcorrente rispetto ai tanti precedenti giurisprudenziali intervenuti a tutela degli utenti ingiustamente bannati dal social network. In questo caso, però, il Tribunale è più rigido, perché – precisa – i diritti degli utenti trovano precisi limiti a fronte di situazioni di emergenza e di rischio.
La vicenda
Il caso trae origine dai post di una donna, che ha condiviso sul proprio profilo Facebook il video di una parlamentare che definiva i vaccini contro il Covid-19 come iniezioni letali e aveva incoraggiato gli altri utenti a rifiutare la somministrazione. La donna, che in precedenza aveva già condiviso contenuti contro i vaccini, non ha commentato il discorso della parlamentare ma lo ha condiviso anche nel gruppo che amministrava.
Il social network ha prima rimosso il post e poi sospeso l’account della donna per 30 giorni, bloccando la sua partecipazione ai gruppi. Per Facebook, infatti, i contenuti violavano le condizioni contrattuali (accettate dall’utente al momento della registrazione), che, tra l’altro,vietano la pubblicazione di contenuti dannosi e informazioni false sul Covid-19, perché pericolosi per la salute pubblica.
La donna si è rivolta al Tribunale affermando che le condizioni di utilizzo del social network sono norme unilaterali dal contenuto vessatorio e in contrasto con la libertà di espressione sancita dall’articolo 21 della Costituzione.
La decisione
La sentenza parte dalla valutazione della vessatorietà delle clausole. In base all’articolo 33 del Codice del consumo (decreto legislativo 206/2005), sono vessatorie le clausole che determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. La valutazione deve essere fatta caso per caso dal giudice, tenendo conto del servizio offerto e della natura della violazione.
Per il giudice, le condizioni contrattuali non possono ritenersi vessatorie perché possono essere ricondotte nell’alveo dell’ordinaria regolamentazione contrattuale. Inoltre, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero anche per gli utenti dei social network non è assoluto ma incontra dei limiti, dettati nel caso esaminato dal diritto alla salute degli altri iscritti. Quindi, le limitazioni alla libertà di espressione contenute nelle condizioni di utilizzo di Facebook non possono essere ritenute vessatorie e la decisione di sospendere l’account della ricorrente è proporzionata rispetto alle ripetute violazioni.
I precedenti
Già in passato i tribunali si sono occupati della legittimità delle decisioni dei social network, valutandone di volta in volta la proporzionalità e assumendo, spesso, decisioni favorevoli agli utenti. Così, la Corte d’appello dell’Aquila ha condannato Facebook a risarcire con 15mila euro di danni un utente ingiustamente bannato per aver pubblicato fotografie e didascalie con la caricatura di Mussolini (sentenza 1659 del 9 novembre 2021).
Invece, a Pordenone, il Tribunale ha condannato il social network a riattivare immediatamente il profilo di un utente, che era stato sospeso per aver pubblicato un estratto di una partita di tennis, poi immediatamente cancellato, protetto da copyright. In questo caso il giudice aveva disposto anche il pagamento di 150 euro di indennizzo per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell’account ingiustamente sospeso (ordinanza del 10 dicembre 2018).
La valutazione, quindi, dipende dal caso concreto e presuppone un delicato giudizio di bilanciamento che oggi impegna giudici di tutto il mondo, chiamati a destreggiarsi tra le richieste di utenti più o meno illustri. In sintesi, gli standard della comunità, sottoscritti e accettati al momento dell’iscrizione ai social network, hanno lo scopo di garantire i valori della sicurezza, della privacy e della dignità e dovrebbero quindi assicurare il rispetto della legge e dei diritti aventi rilevanza costituzionale, come per esempio la dignità della persona, la riservatezza, la sicurezza e, come nel caso ora deciso dal Tribunale di Varese, la salute collettiva. Se l’utente non rispetta questi standard, le sospensioni decise dai social network possono essere ritenute legittime.