Penale

Giustizia riparativa, quando il diritto va incontro alle persone

Una legge che ha trovato finalmente la sua via e pone al centro le persone più che le norme

di Niccolò Nisivoccia

Da quanti anni esiste in Italia la giustizia riparativa, intesa come modello di risoluzione dei conflitti diverso dalla pura e semplice celebrazione di un processo e dalla pura e semplice emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione? Da più di venti, dai primi Uffici per la mediazione penale minorile aperti a Torino, Milano e Bari verso la fine degli anni 90: ed era poco meno di un’utopia che cominciava a prendere forma. Nel corso degli anni quel modello sarebbe poi entrato sempre di più nel senso comune, nella cultura generale, e già questa sarebbe stata una piccola rivoluzione nel nostro sistema.

Ma fino ad oggi non esisteva una legge da cui la giustizia riparativa fosse regolamentata, che ne offrisse una disciplina organica e completa, e quindi in realtà mancava ancora un pezzo: una legittimazione definitiva, istituzionale. Ora questa legittimazione è arrivata, ora la rivoluzione è completa e, potremmo dire, l’utopia realizzata: perché oggi, in virtù di un decreto legislativo emesso nelle settimane scorse dal Governo e pubblicato in questi giorni sulla Gazzetta Ufficiale (a completamento del lavoro svolto per molti mesi da una Commissione presieduta da Adolfo Ceretti), la giustizia riparativa non è più solo una pratica ma è finalmente diventata anche una legge, a tutti gli effetti.

Ed è una legge bellissima. È una legge nella quale troviamo parole quali «riparazione dell’offesa», «riconoscimento reciproco», «responsabilizzazione», «legami con la comunità»: quasi come l’inveramento di un diritto finalmente fiduciario anziché impositivo, e cioè di un diritto che, anche nelle sue espressioni linguistiche, finalmente riesce a guardare oltre sé stesso, oltre i confini delle norme. Di un diritto che finalmente si ricorda che, dietro i propri elementi tecnici e formali, esistono vite incarnate, persone in carne e ossa – persone con le loro vite, le loro storie, i loro corpi, che desiderano altro che non essere solo sanzionate o minacciate, che chiedono anche di essere accolte, ascoltate, coinvolte. Accade di rado, e sembra allora perfino di più: quasi la materializzazione di un diritto che finalmente recupera la sua vera funzione, che dovrebbe essere quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva, di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze, anziché quella di pretendere solo obbedienza secondo una concezione puramente verticale e coercitiva dei rapporti. Un diritto “mite”, per usare una celebre formula di Gustavo Zagrebelsky: davanti al quale non ci si debba sentire per forza soli e disarmati, o addirittura sconfitti.

Perché questo è la giustizia riparativa, e la legge lo spiega molto bene (è una legge bellissima anche perché è semplice, chiara e precisa e si lascia capire da chiunque): è una giustizia dell’incontro, che offre ad autori e vittime dei reati un’occasione, che nessun altro luogo dell’ordinamento prevede, per superare insieme le conseguenze generate dal reato, al di là dei singoli ruoli processuali. Il senso della giustizia riparativa, se si vuole, è tutto qui: sembra forse poco ed è invece moltissimo, è la costruzione di un tempo e di uno spazio riservati e confidenziali all’interno dei quali, alla presenza di un mediatore imparziale ed “equiprossimo”, ciascuno si vede garantito un uguale diritto di parlare e di essere ascoltato.

Certo, la legge contempla la possibilità di un “esito riparativo”: ma questo esito può avere il contenuto più vario, simbolico o materiale, e non deve consistere a tutti i costi in una riconciliazione. Da parte sua l’autorità giudiziaria potrà sempre valutare liberamente l’esito raggiunto, quale che sia, senza esserne vincolata; così come la mancata adesione al programma o la sua interruzione anticipata o anche lo stesso mancato raggiungimento di un esito non potranno avere ricadute negative sull’autore del reato. A conferma del fatto, appunto, che la giustizia riparativa non intende sovrapporsi al processo né sostituire una sentenza con un accordo: il piano su cui opera è diverso, quel che le interessa è esattamente ciò che nel processo non entra – le ferite, i vuoti, le mancanze.

Qualcuno obietta: sono solo bei sogni, solo belle intenzioni. Ma la replica è facile. Sia perché è da più di vent’anni che alle belle intenzioni corrispondono già risultati concreti, e soddisfacenti. Sia perché è proprio questo che il diritto dovrebbe fare, o fare di più: coltivare sogni, e trasformarli in leggi.

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