Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 4 e l'8 luglio 2022

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d'Appello si pronunciano in tema di responsabilità degli istituti di credito, di revoca dell'incarico ad un avvocato, di responsabilità professionale medica, di responsabilità del CTU e, ancora, di rapporti tra farmacie e servizio sanitario.
Da parte loro i Tribunali trattano del danno non patrimoniale, dell'impugnazione delle delibere dell'assemblea condominiale, dell'usucapione, dell'azione revocatoria e infine dell'interesse del minore alla bigenitorialità.


ISTITUTO DI CREDITO
Istituto di credito – Attività bancaria – Responsabilità verso i clienti (Cc, articolo 1176; Dlgs 1 settembre 1993, n. 385, articolo 10)
Secondo quanto osserva in sentenza la Corte d'Appello di Firenze la banca è qualificabile quale soggetto addetto professionalmente all'esercizio dell'attività bancaria, definita ex articolo 10 Dlgs n. 385/1993 (Tub) come quella attività di raccolta e gestione del risparmio.
Nei rapporti con i propri clienti essa è tenuta ad adempiere alle proprie obbligazioni con una diligenza superiore a quella media del buon padre di famiglia e, pertanto, qualificata e definibile come diligenza dell'accorto o del buon banchiere.
Ne consegue che la banca nell'eseguire gli ordini inoltrati dai propri clienti non deve verificare la genuinità della firma con la diligenza dell'uomo medio bensì con quella di un osservatore attento e previdente, per il maggior grado di attenzione e di prudenza che la professionalità del servizio consente di attendersi.
Se è vero che si deve pretendere un'attenzione maggiore da parte dell'Istituto di credito nel vagliare la genuinità delle firme dei propri clienti è anche vero che tale attenzione non deve essere tale da imporre l'impiego di mezzi e risorse straordinari totalmente esulanti dall'attività bancaria.
E così, in caso di falsificazione di un assegno, spetta al Giudice del merito valutare la rispondenza al paradigma ex articolo 1176, II, c.c. della condotta richiesta alla banca in quel dato contesto storico e rispetto a quella determinata falsificazione, attivando così un accertamento di fatto volto a saggiare, in concreto e caso per caso, il grado di esigibilità della diligenza stessa; verifica che, di regola, verrà a svolgersi in base ad un apprezzamento rivolto a verificare se la falsificazione sia, o meno, riscontrabile attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile, dell'assegno da parte dell'impiegato addetto, in possesso di comuni cognizioni teorico/tecniche, ovvero pure in forza di mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo e di agevole utilizzo, o, piuttosto, se la falsificazione stessa sia riscontrabile soltanto tramite attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento e/o utilizzo o tramite particolari cognizioni teoriche e/o tecniche.
Corte di Appello di Firenze, sezione II, sentenza 5 luglio 2022 n. 1433

AVVOCATO
Contratto d'opera professionale – Avvocato – Revoca dell'incarico
(Cc, articolo 2237; legge . 31 dicembre 2012, n. 247, articolo 14)
Precisa in sentenza la Corte d'Appello di Napoli come, nel contratto d'opera professionale, il cliente abbia facoltà di recedere rimborsando al prestatore d'opera le spese sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta (articolo 2237 c.c.).
Di conseguenza non è configurabile alcun diritto del professionista a eseguire la propria prestazione che, semmai, è l'oggetto dell'obbligazione che egli assume nei confronti del committente, salva, a sua volta, la facoltà di recedere per giusta causa (articolo 2237, II, c.c.) ovvero, con particolare riferimento alla figura dell'avvocato, di recedere anch'egli ad nutum, pur con le cautele necessarie per evitare pregiudizi al cliente (articolo 14 legge n. 247/2012, contenente la nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense).
Peraltro, il conferimento da parte di un ente pubblico del patrocinio legale a un professionista esterno costituisce espressione di autonomia privata e non di una potestà amministrativa, così anche la successiva deliberazione di revoca dell'incarico ha natura non autoritativa, ma di recesso contrattuale, esercitabile ad nutum; ogni questione sulla legittimità del recesso (e, quindi, degli atti amministrativi coi quali l'ente abbia deciso di sostituire il proprio difensore) non può che rilevare unicamente nel rapporto contrattuale tra il professionista e la parte committente.
In ogni caso la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'articolo 1176, II, c.c., da commisurare alla natura dell'attività esercitata.
L'inadempimento del suddetto professionista non può comunque essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile cui mira il cliente, ma soltanto dalla violazione del dovere di diligenza adeguato alla natura dell'attività esercitata.
Corte di Appello di Napoli, sezione VI, sentenza 6 luglio 2022 n. 3190


RESPONSABILITÀ MEDICA
Responsabilità professionale medica – Omessa informazione al paziente
(Cc, articolo 2697; legge 22 maggio 1978, n. 194, articoli 4, 6, 7)
Adita in materia di responsabilità professionale medica la Corte d'Appello di Bari tratta il tema della mancata acquisizione da parte di una paziente dell'esistenza e della gravità delle lesioni riscontrate sul feto quando detta cognizione avrebbe potuto comportare la scelta di interrompere la gravidanza.
Si precisa, in merito, che solo ed unicamente la donna (gestante) deve assolvere all'adempimento dell'onere probatorio in ordine a tale aspetto (cioè la scelta dell'aborto).
I presupposti di tale fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna ex articolo 2697 c.c. (onus incumbit ei qui dicit), con un riparto che è ritenuto in sentenza rispettoso del canone della vicinanza della prova.
Una volta conseguita "piena prova in tal senso" graverà sul medico l'onere di provare, in senso contrario, che la donna non si sarebbe determinata comunque all'aborto per qualsivoglia ragione a lei personale.
La legge n. 194/1978 ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, nel rispetto di condizioni rigorose che sono espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza. Tale legge invero consente due sole ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza, che si distinguono a seconda del momento in cui essa avviene.
Ai sensi dell'articolo 4 entro i primi novanta giorni dal concepimento l'interruzione della gravidanza è consentita solo allorchè la donna "accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito".
Il successivo articolo 6 stabilisce che l'interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni può essere praticata: quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
La medesima legge prevede, inoltre, all'articolo 7, che quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nell'ipotesi in cui sussista un grave pericolo per la vita della donna: in tale caso il diritto di nascita del nascituro è ritenuto prevalente anche rispetto alla tutela della salute della gestante. La ratio è quella di salvaguardare la tutela del concepito e di preservare l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, escludendo che la gestante possa legittimamente autodeterminarsi all'interruzione della gravidanza allorchè venga a conoscenza di malformazioni del feto che non impediscano allo stesso di avere una vita autonoma e comunque gli possano consentire una sopravvivenza anche nella fase successiva al parto.
Corte di Appello di Bari, sezione III, sentenza 7 luglio 2022 n. 1152

CONSULENTE D'UFFICIO
Consulente d'ufficio – Responsabilità – Natura giuridica
(Cc, articoli 1176, 2236)
La Corte d'Appello di Milano si sofferma in sentenza sulla natura giuridica della responsabilità del consulente tecnico di ufficio (CTU), riconducendo tale fattispecie nell'ambito della responsabilità aquiliana.
Il consulente d'ufficio, invero, pur non esercitando funzioni giudiziarie in senso tipico, svolge nell'ambito del processo una pubblica funzione, quale ausiliario del Giudice nell'interesse generale e superiore della giustizia.
Trattandosi di un professionista la relativa responsabilità deve essere valutata alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale, in ragione della violazione della dovuta diligenza da parte del professionista ai sensi dell'articolo 1176, II, c.c., adeguata alla natura dell'attività esercitata e alle circostanze concrete del caso.
Il consulente d'ufficio può dunque rispondere anche per colpa lieve, cioè per difetto dell'ordinaria diligenza nello svolgimento dell'incarico, con la precisazione che al medesimo è comunque possibile invocare la limitazione della propria responsabilità ai soli casi di colpa grave, ai sensi dell'articolo 2236 c.c. (in base al quale "se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave"), purché fornisca la prova della particolare difficoltà della prestazione richiestagli, in relazione alle circostanze del caso concreto.
Il campo di applicazione di detta norma è limitato ai soli casi d'imperizia, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve ogni professionista che, nell'esecuzione della propria prestazione, provochi un danno per imprudenza o negligenza.
Spetta al professionista (quindi anche al CTU) fornire la prova di aver diligentemente adempiuto alla propria obbligazione, potendo inoltre contestare la richiesta di danni provando la sussistenza delle particolari difficoltà tecniche ex art. 2236 c.c. che non gli abbiano consentito - malgrado la scrupolosa attenzione - di adempiere in modo perfetto la propria obbligazione.
Corte di Appello di Milano, sezione II, sentenza 8 luglio 2022 n. 2428

FARMACIE
Farmacie - Assistenza farmaceutica – Rapporto con il servizio sanitario regionale
(Dlgs 9 ottobre 2002 n, 231; Dlgs 30 dicembre 1992 n. 502, articolo 8)
La Corte d'Appello di Salerno si sofferma (tra l'altro) in relazione alla possibile applicazione della disciplina ex Dlgs n. 231/2002 alle transazioni intercorse tra una farmacia e un'Asl.
Tale decreto legislativo – si sottolinea in sentenza - si applica alle transazioni commerciali e, cioè, ai contratti, comunque denominati, tra imprese o tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo.
Il rapporto che si instaura tra il servizio sanitario nazionale e le farmacie per l'erogazione di specialità medicinali non ha natura di transazione commerciale, perché trattasi di rapporto la cui disciplina non è affidata al contratto, ma alla legge ed al regolamento che rende esecutivo l'accordo collettivo nazionale stipulato in base ed in conformità alla legge: esso consiste, in buona sostanza, in un rapporto sottratto, nell'intendimento del Legislatore (articolo8, II, Dlgs n. 502/1992), all'autonomia privata, avuto riguardo alla natura del fenomeno, che è di erogazione dell'assistenza farmaceutica per conto delle aziende sanitarie locali.
Ed, infatti, lo Stato garantisce l'assistenza farmaceutica in favore dei cittadini mediante la rete delle farmacie distribuite sul territorio, che sono titolari di una concessione di pubblico servizio; l'erogazione dei medicinali e degli altri prodotti di interesse sanitario, in cui quell'assistenza si estrinseca, avviene in virtù delle norme che regolamentano il funzionamento del servizio sanitario nazionale, sulla scorta di attività disciplinate, quanto ai principi, dalla legge e, nel dettaglio e nell'alveo, ovviamente, di tali principi, dal regolamento che abbia recepito l'accordo collettivo nazionale.
In questa prospettiva, mentre rientra nella comune area contrattuale l'ordinaria vendita al pubblico di medicinali, è, viceversa, sottratta all'ambito della negoziazione privata l'erogazione dell'assistenza farmaceutica per conto delle aziende sanitarie locali, con la conseguenza che non è possibile ipotizzare la sussistenza di una transazione commerciale, nel senso fatto proprio dal Dlgs n. 231/2002, da cui deriva l'impossibilità di applicare la relativa disciplina.
Invero, quando effettuano prestazioni rientranti nell'ambito dell'assistenza farmaceutica le farmacie non operano quali imprenditori, né sono assimilabili alle strutture private accreditate.
Corte di Appello di Salerno, sezione I, sentenza 8 luglio 2022 n. 918

CIRCOLAZIONE STRADALE
Sinistri stradali – Risarcimento danni – Danno non patrimoniale
(Cc, articolo 2059; Cp articoli 185, 590; Dlgs 7 settembre 2005, n. 209, articolo 139)
Intervenuto in tema di sinistri stradali, l'adito Tribunale di Napoli si sofferma (tra l'altro) in punto di ristoro dei pregiudizi di carattere non patrimoniale subiti dalla vittima in base al combinato disposto degli articolo 2059 c.c. e 185 c.p.. Il fatto generatore del danno integrava, invero, nel caso concreto il reato di lesioni personali colpose (articolo 590 c.p.).
Osserva il Giudice come tra le conseguenze negative di carattere non patrimoniale che, in via astratta, possono derivare dalla lesione della salute debbano essere annoverati i pregiudizi all'integrità psicofisica del danneggiato e la sofferenza, fisica e morale, da essi causata (danno biologico permanente e temporaneo, danno morale).
Il danno biologico è un danno avente natura dinamico relazionale, che comprende sia il dolore fisico derivante dalle lesioni, sia le conseguenze negative causate dai postumi nell'ambito della vita di relazione del danneggiato.
Il danno morale è, invece, un pregiudizio attinente alla sfera interna del soggetto e consiste nella sofferenza interiore, nella vergogna, nella disistima di sé, nella fiacchezza causata dal dolore fisico; esso, sviluppandosi su di un piano diverso rispetto a quello dinamico relazionale e non essendo compreso nel danno biologico, è risarcibile in via autonoma, fermo restando il principio secondo cui le suddette tipologie di pregiudizio hanno una funzione descrittiva di risvolti negativi dell'illecito, che si manifestano nell'ambito della categoria unitaria del danno non patrimoniale.
Il ristoro della sofferenza morale è previsto, in caso di lesioni di lieve entità, dall'articolo 139, III, Dlgs n. 209/2005, ma la sua esistenza deve essere allegata e provata dal danneggiato, non sussistendo in materia alcun automatismo risarcitorio.
Con la precisazione che il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma deve essere debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici.
Ne consegue che il danneggiato è tenuto a provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza dell'altrui inadempimento/fatto illecito, potendosi sì avvalere, a tal fine, di presunzioni gravi, precise e concordanti, ma sulla base di elementi indiziari diversi dal fatto illecito in sé considerato.
Tribunale di Napoli, sezione X, senrenza 4 luglio 2022 n. 6623

CONDOMINIO
Condominio negli edifici – Delibere dell'assemblea condominiale – Impugnazioni
(Cc, articolo 1137)
In tema di condominio negli edifici - osserva in sentenza l'adito Tribunale di Lecce - si devono qualificare nulle le delibere dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto.
Possono così distinguersi due categorie di delibere invalide: da un lato, le delibere inesistenti e nulle, aggredibili in ogni tempo da chiunque dimostri di avervi interesse; dall'altro lato le delibere impugnabili (o annullabili) che possono essere portate innanzi all'Autorità Giudiziaria Ordinaria entro 30 giorni (ex articolo 1137 c.c.).
Aggiunge ancora l'adito Giudice che, in tema di condominio negli edifici, se debbono qualificarsi nulle le delibere dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, secondo quanto già detto, di contro, debbono qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
In materia di condominio dunque la categoria della annullabilità è stata elevata dal Legislatore a "regola generale" delle deliberazioni assembleari viziate; la categoria giuridica della nullità, invece, ha una estensione del tutto residuale rispetto alla generale categoria della annullabilità, attenendo essa a quei vizi talmente radicali da privare la deliberazione di cittadinanza nel modo giuridico.
Tribunale di Lecce, sentenza 5 luglio 2022 n. 2070

USUCAPIONE
Usucapione – Requisiti
(Cc, articoli 1141, 1158)
Il Tribunale di Roma si pronuncia in tema di acquisto del diritto di proprietà per usucapione soffermandosi in particolare sul requisito del possesso con riguardo al quale la prova da parte dell'attore deve avere ad oggetto soltanto l'elemento di fatto (relazione materiale con la cosa) perché sia per il codice civile vigente (articolo 1141), sia per quello abrogato, si deve sempre presumere il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato ad esercitarlo come detenzione, con la conseguenza che, provato il potere di fatto del soggetto che vanta il possesso ad usucapionem, fa carico alla controparte l'onere della prova della detenzione iniziale atta a vincere la presunzione iuris tantum del possesso legittimo.
L'acquisto della proprietà per usucapione comporta che il possessore debba esplicare con pienezza, esclusività e continuità il potere di fatto corrispondente all'esercizio del relativo diritto, manifestando un comportamento rivelatore, anche all'esterno, di una indiscussa e piena signoria di fatto su di essa, contrapposta all'inerzia del titolare; invero, è necessario (ai fini dell'accertamento della non clandestinità), che il possesso sia acquistato ed esercitato pubblicamente in modo visibile a tutti o almeno ad un'apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti.
Elementi costitutivi dell'acquisto della proprietà ex articolo 1158 c.c. sono il possesso pacifico (determinato dal comportamento acquiescente e dismissivo del proprietario), pubblico (ossia acquistato in modo non clandestino ovvero a clandestinità terminata), continuo e non interrotto (con l'intenzione di esercitarlo per tutto il tempo all'uopo previsto dalla legge).
Il giudizio sulla pienezza ed esclusività del potere esercitato in misura tale da rendere il possesso univoco ed idoneo al compimento della prescrizione acquisitiva è rimesso al Giudice di merito, il cui accertamento è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Tribunale di Roma, sezione V, sentenza 5 luglio 2022 n. 10716

AZIONE REVOCATORIA
Azione revocatoria – Condizioni – Finalità
(Cc, articolo 2901)
Osserva il Tribunale di Catania come l'azione revocatoria sia uno strumento per la tutela indiretta del diritto del creditore poiché svolge la funzione di ricostituire la garanzia generica assicurata a quest'ultimo dal patrimonio del suo debitore al fine di permettergli il soddisfacimento coattivo del suo credito.
Non si tratta di un azione di nullità bensì di inefficacia relativa dell'atto impugnato, la cui validità quindi non è posta in discussione: con essa si domanda solamente che l'atto impugnato, ancorché valido in sè stesso, sia dichiarato inefficace nei confronti del creditore agente sicché il bene non ritorna nel patrimonio dell'alienante ma resta soggetto all'aggressione del creditore agente nella misura necessaria a soddisfare le sue ragioni e l'azione giova unicamente al creditore che l'ha esercitata confronta (articolo 2901 c.c.).
La citata disposizione codicistica, peraltro, non distingue tra le varie categorie di crediti e le relative fonti e accoglie una nozione molto ampia di credito, comprensiva della ragione (o aspettativa) con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza di liquidità ed esigibilità, ciò in linea con la specifica funzione della revocatoria che, come detto, non ha intenti restauratori nei confronti del debitore ovvero del creditore istante ma tende unicamente restituire la garanzia generica assicurata a tutti i creditori e quindi anche a quelli meramente eventuali.
Le condizioni dell'azione revocatoria ordinaria consistono dunque: nell'esistenza di un valido rapporto di credito tra istante e convenuto disponente; in un atto di disposizione posto in essere dal debitore; nel pregiudizio arrecato dall'atto traslativo posto in essere dal debitore alle ragioni creditorie, danno inteso come lesione della garanzia patrimoniale derivata (eventus damni); in un presupposto soggettivo, scientia damni, ovvero la consapevolezza in capo al debitore che l'atto di disposizione diminuisse la consistenza della garanzia patrimoniale assicurata ai creditori dal proprio patrimonio; nella consapevolezza del terzo acquirente del pregiudizio per il creditore del venditore (scientia damni del terzo).
Tribunale di Catania, sezione III, 7 luglio 2022 n. 3168

RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Responsabilità genitoriale – Figli minori – Bigenitorialità
(Legge 8 febbraio 2006, n. 54; Convenzione di New York del 1989)
Osserva in sentenza il Tribunale di Bari come, in tema di responsabilità genitoriale, con la legge n. 54/2006, il nostro ordinamento, uniformandosi ad un principio già consacrato dalla Convenzione di New York del 1989, abbia eletto la tutela dell'interesse del minore alla bigenitorialità quale linea direttrice che orienta tutta la disciplina in materia di responsabilità genitoriale ammettendo la derogabilità della regola dell'affido condiviso nei soli casi in cui tale modello risulti pregiudizievole per l'interesse del minore.
In altre parole, il giudizio prognostico che il Giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione familiare, deve essere formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione.
In particolare, affinché possa derogarsi alla regola dell'affidamento condiviso, occorre che risulti, in relazione ad uno dei genitori, una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o, comunque, tale appunto da rendere quell'affidamento in concreto pregiudizievole per il minore, con la conseguenza che la scelta dell'affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione, non solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa dell'altro genitore e sulla non rispondenza all'interesse del figlio dell'adozione, nel caso concreto, del modello legale prioritario di affidamento.
Tribunale di Bari, sezione I, senrenza 8 luglio 2022 n. 2773

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