Carbon offsetting, il divieto introdotto dalla Green Claims Directive e il rischio di greenwashing
Il carbon offsetting incoraggia davvero comportamenti ecosostenibili nelle organizzazioni B2B o, diversamente, incentiva le organizzazioni che ne fanno ricorso a porre in essere pratiche di greenwashing?
Le organizzazioni che operano nell’ecosistema business-to-business (B2B), a livello globale, sono impegnate in iniziative di zero emissioni nette per conseguire livelli di ecosostenibilità nei loro processi aziendali, conformemente alle normative nazionali di riferimento e in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e, per le imprese europee, anche con gli obiettivi dell’Agenda 2050 al centro del Green Deal europeo.
Il meccanismo di carbon offsetting prevede che, dopo aver calcolato l’impronta di carbonio di un’impresa, è possibile compensare tali emissioni con crediti di carbonio generati da progetti certificati che hanno l’obiettivo di ridurre, evitare o assorbire una quantità equivalente di CO2 dall’atmosfera. Tale meccanismo consente alle imprese di partecipare al mercato delle compensazioni delle emissioni, su base volontaria, mediante l’acquisto di crediti di carbonio su piattaforme di trading dedicate, il cui prezzo di mercato varia in base all’incontro tra domanda e offerta, nonché alla qualità del progetto sottostante. I crediti di carbonio acquistati devono essere registrati in un registro pubblico per evitare il doppio conteggio e garantire la trasparenza delle transazioni. Ogni credito corrisponde a una tonnellata di CO2 che è stata assorbita o che non è stata emessa attraverso investimenti in Paesi (soprattutto in via di sviluppo ed emergenti) per la realizzazione di progetti di afforestazione, riforestazione, gestione dei rifiuti e delle acque reflue, efficientamento energetico, produzione di energia rinnovabile, ecc.
A fronte di una carente regolamentazione del settore a livello nazionale, alcune ONG hanno sviluppato specifici meccanismi di certificazione dei crediti come, per esempio, il Verified Carbon Standard e il Gold Standard, che stabiliscono le modalità attraverso cui i progetti di compensazione del carbonio devono essere strutturati e realizzati. Sebbene ciascun meccanismo di certificazione si focalizzi su particolari aspetti come, ad esempio, l’effetto di un progetto sul clima o le implicazioni del progetto sulla dimensione sociale ed ecologica, o la combinazione dei diversi standard, tuttavia tutti i meccanismi condividono criteri generalmente applicabili che devono essere rispettati: ogni progetto deve essere valutato (soprattutto in termini di conformità agli SDGs dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite) e verificato da enti terzi accreditati (per garantire l’integrità dei crediti di carbonio secondo metodologie internazionali riconosciute). Questo processo include la validazione del progetto e il monitoraggio continuo per assicurare che le riduzioni siano effettive e non sovrastimate, ai fini del rispetto dei criteri di:
- addizionalità in base al quale il progetto deve ridurre le emissioni oltre quanto richiesto dalle normative vigenti, impiegare tecnologie non impiegate normalmente senza il progetto, essere economicamente sostenibile solo grazie ai proventi dalla vendita dei crediti di carbonio;
- impatto a lungo termine;
- divieto del doppio conteggio per il quale una stessa tonnellata di CO₂ non deve essere contabilizzata più volte da entità diverse, al fine di evitare che gli stessi crediti di carbonio sono rivendicati simultaneamente da più soggetti o mercati, portando a una sovrastima delle riduzioni di emissioni reali.
Il Voluntary Carbon Market (VCM) è un mercato parallelo al mercato regolamentato European Emissions Trading System (ETS) che, diversamente, contribuisce a soddisfare gli obblighi di azione climatica dei Paesi industrializzati, compensando le emissioni di governi, imprese e altre organizzazioni, al fine di rispettare gli obblighi stabiliti dal Protocollo di Kyoto.
I due sistemi di compensazione - ETS (obbligatorio) e VCM (volontario) - risultano sempre più interconnessi a livello globale tanto che, in alcuni Paesi, è ora possibile acquistare crediti di carbonio da sistemi di certificazione privati per ottemperare agli obblighi di azione climatica obbligatori.
Nell’UE, il sistema di compensazione volontario non può essere applicato, in ragione del fatto che esistono già diversi programmi di incentivazione volti alla promozione delle energie rinnovabili o all’incremento dell’efficienza energetica, tali da non rispettare né il criterio del divieto del doppio conteggio né quello di addizionalità. Inoltre, sebbene il sistema di compensazione dei crediti su base volontaria rappresenti senza dubbio un’alternativa importante al sistema ETS di riduzione delle emissioni, tuttavia il rischio è rappresentato dal fatto che gli Stati, perfezionando negoziazioni in autonomia e in assenza di regole, possano arbitrariamente applicare norme non particolarmente efficaci sotto il profilo ambientale e tali da eludere il divieto del doppio conteggio.
Il sistema volontario di compensazione delle emissioni di CO2 per i soggetti economici di diritto privato ha ingenerato non poche perplessità:
- il carbon offsetting incoraggia davvero comportamenti ecosostenibili nelle organizzazioni B2B o, diversamente, incentiva le organizzazioni che ne fanno ricorso a porre in essere pratiche di greenwashing?
- In altri termini, in che modo la propensione a investire nella compensazione delle emissioni di carbonio è correlata a un maggiore rischio delle organizzazioni di mercato B2B di incorrere in pratiche di greenwashing?
Un primo aspetto di criticità afferisce alla verifica della qualità dei progetti da finanziare. Al fine di mitigare i rischi di incorrere in casi di greenwashing, è fondamentale accertare gli effettivi livelli di ecosostenibilità dei progetti che si finanziano, attraverso un’attività di controllo ex ante della strategia di investimento e un’efficace attività di monitoraggio ex post dei progetti finanziati, volta ad accertarne l’effettiva realizzazione, la piena giustificazione dei costi dichiarati, l’impatto in concreto prodotto (comparando i valori reali con quelli stimati) e, a livello unionale, che i requisiti progettuali siano in linea con gli obblighi introdotti dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), e con i criteri stabiliti nel Regolamento Tassonomia.
L’inchiesta giornalistica del gennaio 2023 che ha travolto V. la principale organizzazione no-profit a livello mondiale per la certificazione dei crediti di carbonio attraverso il meccanismo Verified Carbon Standard e che ha indotto il suo CEO a dimettersi - ha disvelato che oltre il 90% dei progetti certificati dalla no-profit statunitense nell’ambito dello schema REDD+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation in developing countries) non rappresentano reali riduzioni di carbonio e potrebbero addirittura peggiorare il riscaldamento globale. I progetti di riforestazione e anti-deforestazione REDD+ sotto inchiesta - lanciati nel contesto delle Conferenze delle Parti (COP) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, con un’importante spinta dalla COP di Bali nel 2007 e formalizzazione nel 2010 durante la COP di Cancun - sono stati finanziati da Disney, Gucci, Shell, EasyJet e altre multinazionali.
Un secondo aspetto piuttosto controverso concerne la coerenza della disseminazione dei dati in tema di emissioni di carbonio da parte delle imprese. La divulgazione di dati nell’ambito dei regimi volontari, come il Carbon Disclosure Project (CDP), rimane in gran parte non verificata e si è riscontrato che le imprese impiegano una varietà di metodi per divulgare le emissioni dirette e indirette, rendendo potenzialmente inaffidabili tali informazioni; in particolare, molte imprese, operanti in settori ad alta intensità di carbonio, non divulgano affatto i dati relativi al clima. Per esempio, alcuni studi hanno evidenziato come in Giappone solo poche società quotate in borsa, operanti in settori con i maggiori rischi di transizione, abbiano dichiarato le loro emissioni nell’ambito del quadro di divulgazione del CDP. Tale situazione, certamente non limitata al Giappone, aumenta il rischio che i dati sulle emissioni di carbonio a livello di impresa continuino a mostrare bassi livelli di trasparenza e che rimangano in gran parte dipendenti dalla divulgazione volontaria; inoltre, anche i requisiti di rendicontazione obbligatoria sono spesso inefficaci per aumentare la comparabilità dei dati.
Sebbene il Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD) raccomandi alle imprese di comunicare le informazioni nei documenti finanziari, sinora le imprese europee - soprattutto quelle non obbligate al reporting di sostenibilità - hanno inserito tali informazioni all’interno di rapporti di sostenibilità mai verificati. La significativa ambiguità sui metodi impiegati in tali report ha sinora dimostrato come il problema dell’incoerenza e dell’utilizzo dei dati sulle emissioni di carbonio sia piuttosto evidente.
Un altro topic che ha suscitato un grande dibattito afferisce alla metodologia utilizzata per la contabilizzazione delle emissioni di carbonio, in quanto la misurazione e la valutazione delle emissioni sembra lasciare alle imprese un ampio margine di manovra per poter dichiarare in modo del tutto arbitrario le loro prestazioni ambientali e, in particolare, gli sforzi dichiarati di riduzione delle emissioni di carbonio. Per esempio, la dichiarazione delle emissioni Scope 3, in ragione della loro natura, che rende spesso complicata una loro accurata quantificazione, appare a tutt’oggi piuttosto approssimativa.
Nell’ambito dei regimi volontari, tale determinazione è facoltativa e, sulla base di alcuni studi, solo un ristretto numero di imprese al livello unionale ha dichiarato tali emissioni nel reporting di sostenibilità. Tale carente o approssimativa rendicontazione aumenta in modo esponenziale il rischio per la maggioranza delle imprese di presentare un reporting di sostenibilità impreciso rispetto alla loro reale performance in termini di emissioni di carbonio e ciò appare ancor più grave se si considera che per molte imprese le emissioni Scope 3 rappresentano una parte significativa della loro carbon footprint totale. Inoltre, esiste il rischio che le imprese possano esternalizzare le proprie emissioni di carbonio alla supply chain, riducendo così le emissioni dichiarate e mantenendo o addirittura aumentando la quantità di emissioni complessive generate in relazione ai loro prodotti, attività e asset.
Recenti studi condotti a livello internazionale hanno, ad esempio, dimostrato che le organizzazioni che fanno ricorso a pratiche di carbon offsetting tendono a rallentare la loro propensione a creare valore sostenibile e a delegare gli sforzi ambientali a creditori di carbonio, anziché investire nella decarbonizzazione dei loro processi interni; ciò avrebbe l’effetto potenzialmente dannoso di diminuire il senso di responsabilità ambientale e incentivare una maggiore attitudine a incorrere in pratiche di greenwashing. Al riguardo, sarebbe interessante sviluppare un’analisi quantitativa sul rapporto esistente tra le emissioni prodotte da un’organizzazione, il carbon offsetting e il greenwashing, soprattutto in considerazione del fatto che questo ultimo può misurarsi proprio come la divergenza esistente tra l’internalizzazione di pratiche sostenibili e l’esternalizzazione della sostenibilità (green claims). Le imprese meno sostenibili tendono a risolvere questo disallineamento attraverso l’acquisto di crediti di carbonio e il ricorso al carbon offsetting.
Tanto più tale disallineamento è significativo tanto più esso è sintomatico di scarsi livelli di sostenibilità dell’organizzazione che, in genere, adotta un green marketing fuorviante che si fonda sull’assenza di evidenze scientifiche, sulla scarsa rilevanza delle affermazioni, sulla dipendenza da certificazioni fragili e fa ricorso a pratiche di carbon offsetting imprecise o poco trasparenti. Nel breve periodo, le politiche di riduzione del carbonio, accompagnate da un ben congegnato green marketing, possono rappresentare un’efficace scorciatoia per migliorare gli obiettivi di profitto, i livelli reputazionali e il posizionamento sul mercato dell’organizzazione, innescando meccanismi di “basso rischio-alto rendimento” e una correlata maggiore frequenza di comportamenti di greenwashing: in altri termini, la disponibilità di un’organizzazione ad acquistare i crediti di carbonio sembrerebbe rivelare preferenze per una bassa performance ambientale e una alta comunicazione di green marketing.
In ultima analisi, il carbon offsetting potrebbe rappresentare, nel breve periodo, il tentativo da parte delle imprese - spesso ambiguo e poco trasparente - di nascondere il reale impatto ambientale dietro sforzi di compensazione del carbonio, anziché avviare un’analisi approfondita del ciclo di vita aziendale, che consideri ogni aspetto delle operazioni di un’organizzazione, identificando le aree in cui l’impatto ambientale è più significativo, comprendere gli aspetti di criticità ed elaborare un piano d’azione che individui le migliori pratiche e le soluzioni innovative volte a migliorare le performance ambientali dell’organizzazione. In questo modo, le organizzazioni possono instaurare un rapporto di fiducia con gli stakeholder e garantire una governance che esprima la chiara volontà di creare valore sostenibile, coniugando l’ambizione di incrementare la produzione economica con una maggiore responsabilità ambientale. Pertanto, solo dopo aver raggiunto riduzioni significative delle emissioni prodotte, le organizzazioni B2B dovrebbero considerare di mitigare il loro impatto residuo attraverso l’acquisto dei crediti di carbonio; tale approccio eviterebbe che la compensazione delle emissioni di carbonio non diventi un mero atto simbolico e impedirebbe che le imprese incorrano in pratiche di greenwashing, adottando iniziative di compensazione per coprire carenze o sforzi ambientali inesistenti.
Da ultimo, è importante osservare come la direttiva 2024/825/UE del 28 febbraio 2024, in tema di responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione (Green Claims Directive) - in vigore dal 26 marzo 2024 e che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 27 marzo 2026 - abbia introdotto norme specifiche a tutela dei consumatori, volte a contrastare le pratiche commerciali sleali adottate dalle organizzazioni B2C che ingannano i consumatori e impediscono loro di compiere scelte di consumo sostenibili.
La direttiva ha modificato l’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, in tema di pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori, includendo tra le pratiche commerciali sleali anche le asserzioni ambientali e sociali ingannevoli (greenwashing e socialwashing).
Tra i divieti introdotti dalla Green Claims Directive figura anche il divieto di formulare asserzioni basate sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra che sostengono l’impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente di un bene o un servizio, in termini di emissioni di gas a effetto serra. Tale divieto è stato introdotto dalla Green Claims Directive, tra gli altri, nell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, in quanto ingenera nei consumatori l’erronea convinzione che tali asserzioni si riferiscano al prodotto stesso o alla fornitura e alla produzione di tale prodotto, ovvero che il consumo di tale prodotto non abbia alcun impatto ambientale (neutrale dal punto di vista climatico, certificato neutrale in termini di emissioni di CO2, a zero emissioni nette per il clima, compensazione climatica, impatto climatico ridotto, impronta di CO2 ridotta, ecc.).
Le asserzioni in tema di compensazione delle emissioni sono consentite solo se si basano sull’impatto effettivo del ciclo di vita del prodotto e non sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra estranee alla catena del valore del prodotto e ciò in ragione del fatto che le emissioni prodotte dal bene o servizio e la compensazione delle stesse attraverso il finanziamento di progetti sui crediti di carbonio sono grandezze tra loro non equivalenti. Le imprese possono divulgare green claims riferiti ai loro investimenti in iniziative ambientali, comprese le pratiche di carbon offsetting, purché le stesse forniscano informazioni non ingannevoli e conformi ai requisiti stabiliti dal diritto eurounitario.
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*Marco Letizi, PhD, Avvocato Dottore Commercialista Revisore Legale, Consulente Globale delle Nazioni Unite, Commissione Europea e Consiglio d’Europa, Autore