Penale

Affidamento in prova, va valutata la disponibilità ad assumere il condannato

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 373 depositata oggi chiarendo che la gravità del reato sa sola non basta a negare il beneficio

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di Francesco Machina Grifeo

Il diniego di una misura alternativa alla detenzione, con l’affidamento in prova ai servizi sociali, non può essere motivato esclusivamento con la condizione di pregiudicato e l’asserita assenza di prospettive lavorative adeguate a favorire il reinserimento sociale del condannato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 373 depositata oggi, accogliendo, con rinvio, il ricorso di un trentacinquenne contro la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma.

Nel ricorso, il detenuto aveva lamentato tra l’altro la mancata considerazione del “percorso rieducativo intrapreso con esiti positivi” e della disponibilità ad assumerlo da parte di una ditta individuale.

Una doglianza accolta dalla Prima sezione penale che ricorda come, ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, “la gravità dei reati commessi dal condannato, salvo che non sia connotata da un disvalore talmente elevato da elidere ogni altro elemento positivo di giudizio, non può esaurire sic et simpliciter lo spettro di valutazione della pericolosità sociale dell’istante, essendo indispensabile esaminare anche il comportamento tenuto nel periodo successivo alla commissione delle condotte illecite presupposte, in un contesto prognostico ispirato al principio di gradualità del trattamento rieducativo”.

Così tornando al caso concreto, la Corte rileva che non vi è stato un “giudizio prognostico adeguato alla personalità” del richiedente che avrebbe dovuto essere svolto “tenendo presente che le misure alternative alla detenzione non presuppongono una completa emenda e una totale esclusione della pericolosità sociale, che, invece, costituiscono l’obiettivo del processo di rieducazione, ma postulano, più limitatamente, l’esistenza di elementi positivi dai quali si possa desumere l’intrapresa del percorso rieducativo e una ragionevole prognosi di reinserimento sociale del condannato”.

Tali “elementi positivi”, laddove introdotti come nel caso specifico, “devono essere esaminati analiticamente dal tribunale di sorveglianza, che deve dare conto, sia positivamente sia negativamente, delle prospettive di reinserimento sociale connesse da tali elementi”.

Del resto, secondo la giurisprudenza della Suprema, pur non «potendosi prescindere dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l’esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l’esigenza di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva».

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