Non sempre colpevole il padre che non paga il mantenimento ai figli per sopravvivere
Il giudice deve trovare un punto di equilibrio tra le esigenze dei minori e dell'adulto
Va assolto il padre che non paga il mantenimento ai figli se ha delle spese e necessarie alla sopravvivenza, quali il vitto e l'alloggio? Se lo è chiesto la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 32576/2022 annullando la condanna a tre mesi di carcere per il reato di cui all’articolo 570-bis del Cp, oltre al risarcimento dei danni non patrimoniali, a carico di un padre colpevole di non aver versato il mantenimento ai figli minori.
Il ricorso
Tramite il proprio difensore, l’uomo si appella alla Suprema corte contro la sentenza di merito, lamentando, tra l’altro, l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato, avendo dato dimostrazione di essersi incolpevolmente trovato in una situazione d'indigenza e, quindi, nell'impossibilità assoluta di adempiere agli obblighi impostigli dal giudice civile, essendo stato nelle more licenziato e avendo intrapreso senza fortuna varie attività lavorative, tanto da essersi trovato costretto a chiedere numerosi prestiti a parenti ed amici per sopravvivere.
La decisione
I giudici della Suprema corte, in punto di dolo, gli danno ragione. Correttamente, premettono, i giudici d'appello hanno richiamato il principio costantemente affermato dalla Cassazione, secondo cui «l'impossibilità di adempiere agli obblighi di mantenimento verso i familiari imposti dal giudice civile debba essere assoluta, non potendo desumersi automaticamente neppure da una condizione di disoccupazione dell'obbligato».
Tuttavia, è pur vero, affermano gli Ermellini, che il predicato di "assolutezza" non può nemmeno essere calibrato al livello dell'indigenza totale, «dovendo essere inteso, piuttosto, secondo un'accezione di tipo assiologico, in coerenza con il generale principio di offensività del diritto penale».
Bisogna, cioè, tenere in considerazione i beni giuridici in conflitto, dando prevalenza alla tutela della prole o del familiare “debole”, ma individuando comunque un “punto di equilibrio” secondo il canone generale della proporzione e tenendo conto di tutte le peculiarità del caso specifico: «importo delle prestazioni imposte, disponibilità reddituali dell'obbligato, necessità per lo stesso di provvedere a proprie esigenze di vita egualmente indispensabili (vitto, alloggio, spese inevitabili per la propria attività lavorativa), solerzia, da parte sua, nel reperimento di possibili fonti di reddito (eventualmente ulteriori, se necessario, rispetto a quelle di cui già disponga), contesto socio-economico di riferimento e quant'altro sia in condizione d'influire significativamente sulla effettiva possibilità di assolvere al proprio obbligo, se non a prezzo di non poter provvedere a quanto indispensabile per la propria sopravvivenza dignitosa».
Tale disamina spetta al giudice di merito, il quale però non l’ha compiuta nel caso di specie. Da qui l’annullamento della sentenza con rinvio per un nuovo giudizio d’appello.