Avvocati, patto di quota lite sempre censurabile in via disciplinare
La sanzione del Cnf rimane in piedi anche se il Consiglio dopo la decisione è decaduto
La sottoscrizione di un patto di quota lite – anche nel periodo in cui era civilmente lecito – può essere sanzionato sotto il profilo disciplinare se eccessivamente sbilanciato. Lo hanno chiarito le Sezioni unite, con la sentenza n. 6002 depositata oggi, respingendo il ricorso di un legale contro la decisione del Consiglio nazionale forense. L'avvocato aveva infatti pattuito, in caso di vittoria, una parcella pari ad un terzo del risarcimento del danno richiesto per la morte, rispettivamente, del marito e del papà delle sue clienti, che risultava del 40% superiore rispetto alle tariffe forensi all'epoca in vigore.
La Cassazione ha inoltre statuito che la decisione del Cnf resta in piedi anche se i componenti del Consiglio nel frattempo sono stati dichiarati decaduti, perché quello che rileva è il momento della deliberazione della decisione collegiale e non quelli successivi della stesura della motivazione, della sottoscrizione o della pubblicazione.
La sentenza contestata, ricostruisce la Corte, fu assunta nella camera di consiglio del 13 luglio 2019, cioè prima che il Tribunale di Roma pronunciasse il provvedimento cautelare di sospensiva (del Presidente Mascherin e altri consiglieri) seguito, poi, da quello definitivo di ineleggibilità. Per cui "nessun rilievo assume il fatto che il deposito sia avvenuto il 24 giugno 2020, momento in cui era intervenuto il provvedimento cautelare suindicato". Né il successivo provvedimento di ineleggibilità ha fatto venire meno il potere-dovere del collegio giudicante di condurre a termine l'iter decisionale con la sottoscrizione ed il deposito della sentenza.
Tornando alla questione del patto di quota lite, la Cassazione ne ricorda "la complessa evoluzione legislativa". Vietato in modo assoluto dall'art. 2233, terzo co., cod. civ., nella sua originaria formulazione, è divenuto lecito in base all'art. 2 del Dl n. 223 del 2006. Successivamente la nuova disciplina dell'ordinamento forense (L. 247/2012) pur stabilendo che la pattuizione dei compensi è libera (art. 13, comma 3), ha tuttavia esplicitamente previsto il divieto dei patti «con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa» (art. 13, comma 4), "in tal modo reintroducendo il divieto del patto di quota lite".
Il patto oggetto del caso odierno si colloca nel periodo intermedio, tra la riforma di cui al Dl n. 223 del 2006 e la legge n. 247 del 2012, in quanto è stato stipulato nel 2010, quando cioè esso era, almeno in teoria, lecito. Tuttavia, prosegue la decisione, «la liceità in astratto di quell'accordo non esclude che in sede di giudizio disciplinare possa essere valutata la concretezza del caso specifico allo scopo di verificare se la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione de rischio» (cosi anche n. 25012 del 2014).
Viene così a cadere l'argomento per cui la liceità del patto di quota lite da un punto di vista privatistico farebbe venire meno la possibilità stessa di un suo sindacato in sede disciplinare.
L'incolpazione disciplinare era stata infatti elevata ai sensi degli articoli 9 e 29, comma 4, del Codice deontologico forense. La norma vieta all'avvocato di «richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all'attività svolta o da svolgere».
Il Cnf esaminato il contenuto dell'accordo - che prevedeva l'obbligo di versare al professionista un terzo delle somme - ha posto in luce come, a fronte di un credito accertato di 432mila euro, la somma richiesta dall'avvocato, 140mila euro, "fosse da ritenere eccessiva in rapporto all'attività effettivamente svolta".
Nel fare questo, la sentenza ha assunto come riferimento la somma massima che l'avvocato avrebbe potuto esigere a titolo di onorario in base alle tariffe vigenti, rilevando come la stessa fosse tra gli 80.000 e gli 85.000 euro, pari cioè al 60% circa di quanto realmente richiesto (euro 140.000). E l'accordo era tanto più squilibrato in quanto neppure prevedeva, in caso di soccombenza, l'esonero dal pagamento delle spese della controparte; né infine l'autorizzazione alla stipula del giudice tutelare (per conto della minore).