Amministrativo

Bullismo in classe, sulla relazione della psicologa scatta il segreto professionale

Il Consiglio di Stato, sentenza n. 19 settembre 2024 n. 7658, ha negato l’accesso agli atti ai genitori di una ragazza costretta a cambiare scuola a seguito di asseriti fenomeni di prepotenza e bullismo da parte di un compagno di classe

immagine non disponibile

di Francesco Machina Grifeo

La relazione della psicologa chiamata dalla scuola, a seguito di fenomeni di bullismo, per prestare la sua opera professionale al servizio dell’intera classe, è coperta dal segreto professionale e dunque non può essere letta neppure dalla parte che si assume lesa dagli altrui comportamenti. Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, sezione VII, con la sentenza n. 19 settembre 2024, n. 7658 (Pres. Lipari, Est. Zeuli) rigettando il ricorso dei genitori e di una ragazza (nel frattempo divenuta maggiorenne) che aveva dovuto cambiare scuola dopo aver subito atti di “prepotenza” e “bullismo” da parte di un compagno di classe (il cambio di sezione richiesto non era stato accordato).

Per il Collegio infatti il diritto di accesso (lett. a) del co. 1 dell’art. 24 della L. n. 241/1990) deve essere escluso “tra gli altri, nei casi, - in cui senz’altro rientra quello in specie, in quanto segreto professionale - di segreti e di divieti di divulgazione espressamente previsti dalla legge”. La previsione legale, “espressa ed inderogabile”, non doveva dunque essere esplicitata dalla amministrazione che deteneva la relazione della psicologa. Di conseguenza, non conta che l’opposizione della professionista sia stata prima espressa informalmente, e solo successivamente sia stata formalizzata, “perché non è evidentemente quest’atto ad impedire l’ostensione che era invece, già in origine preclusa attesa la natura del documento ed il segreto professionale che impediva di esercitare il diritto di accesso”.

Non solo, per i giudici di Palazzo Spada la richiesta di accesso agli atti – e i successivi ricorsi - omettono di considerare un tratto fondamentale della funzione e delle attività professionali dello psicologo. “Quest’ultimo – si legge nella decisione -, infatti interviene terapeuticamente, non solo con riferimento ad un singolo assistito, ma anche, di norma, ed anzi sempre più frequentemente, soprattutto in caso di terapie somministrate ad adolescenti, nei confronti di un gruppo ristretto di individui”. In questo caso, la prestazione è volta a “risolvere o a prevenire conflitti che si siano generati, o possano generarsi”, all’interno della relativa comunità, oppure – il che accade sovente nel caso di interventi su singole classi di studenti delle scuole superiori – è richiesto al fine di “meglio orientare le relazioni dei singoli fra loro, dei singoli con il gruppo e del gruppo con i singoli”.

E allora, prosegue il ragionamento, “re-inquadrata” in questa dimensione, “che è poi verosimilmente quella che ha occasionato l’intervento della psicologa”, il segreto professionale riacquista tutta la sua significatività. Infatti, tornando al caso concreto, il consenso del singolo componente del gruppo, o anche il consenso di tutti i componenti “giammai avrebbero potuto sollevare il professionista dal relativo obbligo di riservatezza, dal momento che l’oggetto della relazione terapeutica è il rapporto di quest’ultimo con l’intera comunità di riferimento”.

In questo senso, il Cds annota che il segreto professionale non è posto solo a tutela degli assistiti. Al contrario è previsto “anche a tutela della libertà di scienza, che, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere garantita ai prestatori d’opera intellettuale” (art. 2239 del c.c. e, soprattutto, dal comma 1 dell’art.33 della Costituzione). “È evidente, infatti - prosegue -, che se non si garantisse la riservatezza delle valutazioni, dei giudizi e delle opinioni da costoro espresse nel corso dell’attività professionale, quella libertà potrebbe essere seriamente compromessa”.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©