Famiglia

Cassazione, condanna per abuso d’ufficio annullata se non si infrange una regola cogente

Secondo altre pronunce per il delitto basta invece una violazione «mediata»

di Giovanbattista Tona

Il primo vero “battesimo” dell’abuso d’ufficio riformato è avvenuto con la sentenza della sesta sezione della Cassazione 442 dell’8 gennaio scorso, che, applicando il nuovo testo dell’articolo 323 del Codice penale, ha annullato una condanna perché «il fatto non è più previsto dalla legge come reato».

Leggi e regolamenti

La vicenda riguardava il direttore generale di un’azienda ospedaliera che era stato condannato per avere illegittimamente dequalificato un servizio da struttura complessa a struttura semplice, demansionando il direttore, sottoposto gerarchicamente ad altri, e privandolo di un’indennità di funzione. Il provvedimento non era stato preceduto dall’adozione di un atto aziendale e non era stato motivato da una specifica e urgente finalità riorganizzativa.

Esaminando il caso, la Cassazione spiega che, in base alla nuova formulazione, il reato ricorre solo in presenza di violazioni di regole cogenti per l’amministrazione, che devono essere «specificamente disegnate in termini completi e puntuali». Tali non possono essere i principi generali previsti dall’articolo 97 della Costituzione (imparzialità e buon andamento della Pa).

Al contrario, altre due sentenze dei mesi scorsi hanno ritenuto che fosse integrata una violazione di legge nel caso di rilascio di permessi edilizi senza il rispetto degli strumenti urbanistici; a questi ultimi fa infatti espresso rinvio una fonte primaria (sentenze 26834 del 28 settembre 2020 e 31873 del 12 novembre 2020) e tanto basta per riconoscere l’esistenza dell’abuso d’ufficio.

La violazione «mediata»

Va nella direzione opposta la sentenza 442/2021, che esclude la rilevanza delle violazioni di regolamenti o di eventuali fonti subordinate o secondarie, anche sotto lo schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di fonte subordinate perché richiamate da fonti primarie

Né c’è sindacato penale quando le regole consentono al pubblico funzionario di agire con discrezionalità amministrativa, anche tecnica, «intesa nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito, effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati, dell’interesse pubblico primario da perseguire».

La Cassazione riprende dal diritto amministrativo la distinzione tra limiti interni ed esterni della discrezionalità e aggiunge che residuano margini per un controllo penale solo se il potere discrezionale trasmodi «in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti interessi oggettivamente difformi o collidenti con quelli per i quali il potere discrezionale è attribuito».

Nel caso esaminato, il servizio declassato a struttura semplice era stato anni prima classificato come struttura complessa senza atto aziendale e nomina formale del suo direttore. Quindi, la decisione di far cessare una situazione di fatto consolidatasi, ma originariamente viziata da illegittimità, è stata considerata rientrante nei margini consentiti di discrezionalità amministrativa, e sottratta al sindacato penale.

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