CEDU, la protezione della vita dei cittadini dagli effetti nocivi del cambiamento climatico è un obbligo di ciascuno Stato
Nota a CGUE Causa n. 53600/20, sentenza del 9 aprile 2024
Nel 2020, un’associazione di anziane signore, insieme ad alcune di esse singolarmente, presentò un ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro il proprio Stato per non aver adottato politiche concrete contro il cambiamento climatico. Nella recente sentenza del 9 Aprile scorso ( Causa n. 53600/20, sentenza del 9 aprile 2024 ), la Corte ha riconosciuto colpevole quello Stato per violazione dei diritti umani non avendo attuato misure atte a ridurre i propri livelli di emissione di gas ad effetto serra (“GHG”) condannandolo a risarcire le spese di giudizio .
Le ricorrenti, mediante certificati medici e altre evidenze documentali, dimostravano di aver subito disagi e malesseri (ricoveri, cali di pressione e svenimenti, necessità di rimanere in casa ecc.) durante il periodo estivo a causa delle ondate di calore, causate dai cambiamenti climatici, con relative ripercussioni negative sulla loro qualità della vita. L’associazione, anch’essa parte ricorrente, era stata peraltro fondata per difendere gli interessi delle associate e rappresentarle in giudizio.
Prima di presentare il ricorso, nel 2016, le signore si erano peraltro rivolte agli uffici del Governo Federale del proprio Stato per chiedere l’attuazione di norme specifiche mirate alla riduzione dei livelli di emissione di GHG secondo gli impegni internazionali assunti [1], senza ottenere alcun risultato. Il ricorso avverso l’inerzia dello Stato era stato anche oggetto di decisioni, in primo e secondo grado, presso i tribunali competenti con dichiarazione di inammissibilità in entrambe i casi.
L’omissione dello Stato convenuto di dotarsi di una politica efficace sul cambiamento climatico è stata quindi contestata dalle ricorrenti come in violazione di diversi principi e diritti riconosciuti dalla Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”), ed in particolare, dei principi di sostenibilità e precauzione, nonché dei diritti umani (diritto alla vita ed alla salute), questi ultimi previsti agli artt. 2 e 8 della CEDU.
Lo Stato convenuto si è difeso sostenendo principalmente che la richiesta delle ricorrenti non avrebbe potuto essere realizzata con atti normativi specifici, essendo necessaria una strategia generale più ampia e complessa.
Tuttavia, la Corte, partendo dall’ormai pacifico assunto relativo al danno provocato dalle emissioni di GHG, analizza le politiche climatiche nazionali dello Stato convenuto, rilevando che vi erano effettivamente importanti carenze tanto che, mediante calcoli effettuati da sistemi di valutazione indipendenti [2], afferma che, se tutti gli Stati avessero politiche similari a quella dello stato convenuto, si avrebbe non una progressiva riduzione delle temperature (come richiesto dalla comunità internazionale [3]) bensì un suo aumento. Come sostenuto dall’accusa, inoltre, il fatto che molti altri Stati non adempiano agli impegni assunti in tema di lotta ai cambiamenti climatici non esime lo Stato convenuto dall’obbligo di impegnarsi in tal senso.
E’ interessante osservare che, per decidere in merito al caso in oggetto, la Corte abbia esplicitamente attinto a vari impegni internazionali e dichiarazioni di principio (come, ad esempio, le norme del Trattato dell’Unione Europea o la Convenzione americana sui Diritti dell’Uomo, pur se non direttamente applicabili al caso); tra gli altri, la Corte richiama anche l’interpretazione fornita in passato da parte della Commissione dell’ONU dei diritti umani (“HCR”) relativa al Patto internazionale dei diritti civili e politici , secondo cui sussistono specifici obblighi alla protezione dell’ambiente derivanti dal diritto di protezione della vita e della famiglia. Il dovere di proteggere la vita implica infatti, secondo l’HCR, che gli Stati adottino misure appropriate per affrontare le condizioni generali della società che possono dare origine a minacce dirette alla vita o impedire agli individui di godere del loro diritto alla vita con dignità, compreso il degrado dell’ambiente .
L’esito di questa causa segna un punto di non ritorno nell’ambito della giustizia climatica , specie poiché giunge subito dopo due casi analoghi in cui la medesima Corte si era pronunciata dichiarando inammissibili i ricorsi presentati da persone fisiche che lamentavano danni personali subiti a causa dall’assenza di politiche ambientali da parte degli Stati convenuti. Dopo il caso del 2021 della Corte distrettuale dell’Aja , dunque, anche la Corte di Strasburgo riconosce il nesso causale tra la mancata attuazione di idonee misure per la riduzione dei GHG e i diritti umani dei propri cittadini (in termini di diritto alla salute e rispetto dell vita privata e familiare).
Nel caso in esame la Corte stessa, pur riconoscendo la difficoltà di sostenere un simile nesso di causalità, afferma che ci sono indicazioni sufficientemente affidabili in merito al fatto che il cambiamento climatico antropogenico esiste, che rappresenta una grave minaccia attuale e futura per il godimento dei diritti umani, che gli Stati ne sono consapevoli e sono in grado di adottare misure per affrontarlo efficacemente. Si noti però che la Corte non individua nel dettaglio quali misure e politiche lo Stato convenuto dovrà adottare, affidando tale compito ad una commissione di esperti tecnici che dovrà supportarlo nelle sue scelte future.
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*A cura dell’Avv. Giovanna Landi, titolare dello studio legale Landilex
[1] In particolare, secondo quanto richiesto dal Protocollo di Kyoto nel 1997 e nel 2016 dall’Accordo di Parigi, in attuazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici del 1994, sottoscritta anche dallo Stato convenuto
[2] La Corte cita espressamente il Climate Action Tracker (www.climateactiontracker.org), noto come sistema “CAT”.
[3] In particolare, la Corte cita l’ IPPC 2018 Special report “1,5C° global warming” disponibile al sito https://www.ipcc.ch/sr15/.