Cgue, sì agli assegni familiari ai lavoratori stranieri senza prova dell’ingresso legale dei figli
I lavoratori stranieri di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro al fine di svolgervi regolarmente un’attività lavorativa devono beneficiare della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali
Sbaglia la Francia che per il riconoscimento degli assegni familiari ai lavoratori stranieri, richiede la dimostrazione che i figli nati in un Paese terzo siano entrati sul suo territorio nazionale in maniera legale. Questa la soluzione fornita dalla Corte Ue con la sentenza sulla causa C-664/23. Uno Stato membro non può operare questa distinzione tra aventi diritto. Infatti, i cittadini di Paesi terzi, che siano stati ammessi in uno Stato membro per lo svolgimento in modo regolare di un’attività lavorativa hanno diritto a beneficiare della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali.
Il caso a quo su un lavoratore armeno
Veniamo alla causa sorta in Francia che ha dato origine al rinvio pregiudiziale alla Corte Ue. Nel 2008 un cittadino armeno è entrato irregolarmente nel territorio francese con la moglie e i due figli minorenni, nati in Armenia. Nel 2011 la coppia ha avuto un terzo figlio, nato in Francia. Nel 2014 il padre ha chiesto di ottenere prestazioni familiari per i suoi tre figli. Benché egli disponesse di una carta di soggiorno temporaneo che gli consentiva di lavorare, la Cassa competente per l’erogazione degli assegni familiari ha parzialmente riconosciuto il diritto solo per il figlio nato in Francia e ha respinto la domanda per i due figli nati precedentemente nel Paese extra Ue. Il diniego era motivato dalla mancata esibizione di documenti comprovanti il regolare ingresso dei figli su suolo francese.
Da cui il ricorso giurisdizionale del lavoratore armeno, contro il diniego, dinanzi ai giudici francesi. Dopo una sentenza di primo grado favorevole allo straniero, i giudici di appello hanno invece confermato il diniego. La causa giunta davanti alla Corte di cassazione ha visto l’annullamento della decisione di II grado, motivato dal rilievo che in appello non fosse stato affrontata la questione dell’allegata rilevanza della direttiva sul permesso unico, la quale garantisce piena parità di trattamento tra lavoratori di Paesi terzi e cittadini dell’Unione europea. Così, in sede di rinvio la Corte d’appello ha operato il rinvio pregiudiziale alla Cgue per ottenere la corretta interpretazione della direttiva rilevante in materia rispetto all’ipotesi del titolare di un permesso di lavoro unico che chieda gli assegni familiari per i figli a carico, che siano nati in un Paese terzo e siano presenti nello Stato in assenza di una procedura di ricongiungimento familiare e il genitore non abbia fornito i documenti comprovanti la regolarità del loro ingresso.
L’interpretazione fornita
La Corte ha chiarito che è contrario al diritto dell’Unione subordinare il diritto alle prestazioni familiari dei cittadini di Paesi terzi che soggiornino regolarmente in uno Stato membro alla condizione supplementare della prova dell’ingresso regolare dei figli per i quali vengono richieste le prestazioni familiari. La Corte dichiara, infatti, che imporre una siffatta condizione significa riservare ai cittadini di Paesi terzi un trattamento meno favorevole di quello di cui beneficiano i cittadini dello Stato membro ospitante. Mentre, al contrario, vige il principio della parità di trattamento a favore dei soggiornanti regolari.
In conclusione, quando è accertato il soggiorno legale del cittadino di un Paese terzo in uno Stato membro, scatta la parità di trattamento a meno di eccezionalissime deroghe a tale diritto.