Cina, bocciata la richiesta di risarcimento per il Covid - L’Italia non ha giurisdizione
Lo hanno chiarito le Sezioni unite della Cassazione, ordinanza n. 16136 depositata oggi, al termine di una lunga dissertazione sulle prerogative degli Stati
Il colpevole ritardo della Repubblica popolare cinese nella comunicazione dei primi casi di contagio da Covid-19 (dicembre 2019) integra un crimine di guerra – al pari di quelli della Germania nazista - che esclude l’immunità dello Stato e radica la giurisdizione nazionale ai fini del risarcimento del danno. Questa la suggestiva tesi, bocciata però dalle Sezioni unite della Cassazione, ordinanza n. 16136 depositata oggi, di una cittadina italiana che aveva perso la madre a causa della pandemia ed era finita ella stessa intubata a rischio della vita. Per la Suprema corte infatti: “Solo la immediata, diretta e deliberata aggressione ai diritti fondamentali potrebbe porre in dubbio il riconoscimento dell’immunità”.
Secondo la ricorrente l’inerzia della Cina che aveva aspettato fino al 22 gennaio 2020 per mettere in quarantena la città di Wuhan, così come il tentativo deliberato di occultare le informazioni, violava il Regolamento sanitario Internazionale (IHR) che imponeva comunicazioni nelle 24H. Analoga violazione derivava dal commercio illegale di animali selvatici (Pangolino) e dal mancato rispetto del Memorandum col nostro Ministero della Salute per la cooperazione sanitaria.
Con una interessante ricostruzione storico-giuridica, la Cassazione ricorda le tappe del progressivo “restringimento” dell’area dell’immunità degli Stati inizialmente “assoluta” e poi via via limitata agli atti di governo “iure imperii”, escludendo dunque quelli posti in essere come soggetto di diritto privato “iure gestionis”.
Per i giudici, tuttavia, anche astraendo dal fatto che le “prove” addotte sono di fonte giornalistica e non oggetto di “unanime convincimento”, le condotte addebitate alla Cina “sono evidentemente espressive di attività cd iure imperi”. Tali condotte (come del resto le restrizioni adottate dall’Italia) sono infatti “da ricollegare all’esercizio di potestà pubblicistiche”.
Consapevole di questo rischio, la parte ricorrente ha dunque tentato l’equiparazione ai “crimini internazionali”.
La Corte costituzionale, intervenendo al termine di un lungo rimpallo giurisdizionale sui crimini del Terzo Reich, anche con la Corte internazionale di giustizia che ha espresso parere diverso, ha affermato (sentenza n. 238/2014) che l’immunità degli Stati stranieri non può essere predicata attraverso delle norme che entrino in conflitto con i diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
E la successiva giurisprudenza di legittimità, in attuazione di quanto affermato dalla Consulta, ha perciò riconosciuto la prevalenza del principio del rispetto dei diritti inviolabili a fronte di delicta imperii, “cosicché - si legge nella decisione - il principio del rispetto della ‘sovrana uguaglianza’ degli Stati deve restare privo di effetti nell’ipotesi di crimini contro l’umanità, cioè compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens, in quanto tali lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali e la cui vera sostanza consiste in un abuso della sovranità statuale”.
Tuttavia, prosegue la Corte, “l’aspirazione della ricorrente a trapiantare tale percorso interpretativo” anche al caso della pandemia “non può però avere seguito”.
Le condotte che fonderebbero la responsabilità della Repubblica Popolare di Cina, infatti, non possono però essere valutate alla stregua della commissione di crimini internazionali, la cui inziale descrizione risale all’accordo di Londra del 1945, e che oggi si rinviene essenzialmente nelle previsioni (artt. 5-8) dello Statuto della Corte penale internazionale. E non solo per la “mancata corrispondenza” rispetto alla specifica elencazione fatta ma anche per “l’assenza della finalità che a mente della stessa norma deve avvincere le varie condotte imputate al responsabile”.