Civile

Concorrenza sleale confusoria per utilizzo marchio già registrato e parola chiave

La Srl non si è limitata a creare confusione sul mercato, ma ha altresì tratto un indebito vantaggio dall'utilizzo di un marchio notorio

di Camilla Insardà

Scatta la concorrenza sleale confusoria per aver utilizzato un marchio noto e una parola chiave su motore di ricerca. Con l'ordinanza del 27 aprile 2021, la Sezione Specializzata in materia di imprese del Tribunale di Bari ha accolto il ricorso presentato in via d'urgenza da una S.p.a., al fine di ottenere l'immediata cessazione di ogni utilizzo del proprio marchio e della parola chiave impiegata su un noto motore di ricerca virtuale da parte di una Srl.

Nel caso di specie, il giudice ha riscontrato entrambi i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, richiesti dall'articolo 700 del Cpc.
Da un lato è emersa la condotta parassitaria della società resistente, la quale ha fatto uso del marchio registrato dalla sua avversaria e della parola chiave per pubblicizzare i suoi prodotti, creando un'illegittima confusione sul mercato circa la provenienza e la qualità degli stessi. Dall'altro lato, il conseguente sviamento di clientela e i numerosi reclami ricevuti dalla ricorrente per l'insoddisfazione per i servizi prestati hanno determinato l'attualità del pregiudizio.

I fatti descritti in narrativa hanno consentito al Tribunale di Bari di ravvisare gli estremi della fattispecie di concorrenza sleale confusoria, con aspetti parassitari di cui all'art. 2598 nn. 1 e 3 c.c.. La s.r.l. non si è limitata a creare confusione sul mercato, ma ha altresì tratto un indebito vantaggio dall'utilizzo di un marchio notorio.

La soluzione offerta dall'ordinanza non è necessariamente scontata, in quanto lo stesso giudice ha ricordato come l'uso promozionale di un marchio e "keywords" altrui non costituisce necessariamente pratica illegittima. A tale riguardo, la pronuncia ha dapprima ricordato la normativa europea dettata in materia. L'art. 5 n. 1 della Direttiva del Consiglio n. 89/104/CEE, dopo aver riconosciuto al titolare del marchio registrato un diritto esclusivo, fa divieto ai terzi di utilizzare, senza il consenso del titolare, segni identici al marchio di impresa per servizi o prodotti identici a quelli per cui è registrato. Tale disposto viene poi ripetuto dall'art. 9 n. 1 lett. c) del regolamento CE sul marchio comunitario n. 40/94.
Ciò posto, il giudice delle imprese ha preso in considerazione l'uso del marchio nell'ambito del servizio di posizionamento su internet, richiamando la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la quale ha operato una distinzione tra condotte riconducibili al parassitismo e alla diluizione, entrambe sanzionabili e condotte che non costituiscono imitazione servile e non arrecano pregiudizio al titolare del marchio utilizzato negli annunci pubblicitari del concorrente. Queste ultime non possono essere impedite dal titolare del marchio.

I fatti che hanno preceduto la controversia giudiziaria meritano un approfondimento, in quanto, inizialmente, la ricorrente non si è limitata a intimare alla sua concorrente di interrompere ogni comportamento abusivo, ma ha altresì diffidato il portale internet sul quale venivano pubblicizzati i servizi e i prodotti tramite l'utilizzo di parole chiave.
A prescindere dal concreto susseguirsi degli eventi, che di fatto hanno indotto la s.p.a. ad adire le vie legali, l'ordinanza del 27 aprile 2021 del Tribunale di Bari ha ricordato che si devono ritenere responsabili di atti di concorrenza sleale e delle violazioni dei segni distintivi non solo gli autori materiali, ma anche coloro che, anche solo indirettamente, ne abbiano reso possibile o comunque facilitato la realizzazione. Si tratta di un'ipotesi di concorrenza sleale indiretta a norma dell'art. 2598 n. 3 c.c. In questi casi, le condotte abusive non vengono poste in essere dall'imprenditore, ma da soggetti terzi, (intesi, generalmente, come i protagonisti del mercato) per suo conto o anche più semplicemente nel suo interesse.

Un cenno merita la sentenza 18691/2015 della Cassazione, secondo cui gli atti di concorrenza sleale possono essere compiuti sia dagli ausiliari e dai dipendenti dell'imprenditore, configurandosi in questo caso una responsabilità ex art. 2049 c.c., sia da terzi interposti che non possiedono i requisiti di cui all'art. 2082 c.c. e che non sono collaboratori. Secondo i giudici di legittimità, tali soggetti che agiscono per conto di un concorrente del danneggiato risponderanno in solido con questo per i pregiudizi arrecati.
Alla luce di quanto riportato, non sorprende che, nella specie, il gestore del motore di ricerca si sia immediatamente attivato per fornire un riscontro adeguato alla ricorrente. Com'è noto, le potenzialità lesive di simili condotte aumentano a dismisura nel mondo virtuale, in considerazione della rapidità dei sistemi di comunicazione e della massima diffusione dagli stessi garantita.

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